Lee Jeffries, il fotografo degli invisibili
La storia di Lee Jeffries è quella di uomo all’improvviso travolto da un vortice di sentimenti e dopo una vita trascorsa ignorando pressoché totalmente la fotografia, dall’obiettivo è stato d’un tratto chiamato e come i grandi maestri si è fatto messaggero degli ultimi respirando il pensiero di Paul Klee, il pittore e poeta svizzero che concepiva l’arte come tramite per oltrepassare l’evidenza e svelare l’immateriale.
Parlo con le persone e non riesco a liberarmi dell’emozione, per cui quando al mio computer elaboro le immagini, sono così coinvolto che a volte comincio a piangere.
Nato il 6 maggio 1971 a Bolton, città della regione Nord Ovest dell’Inghilterra, Lee Jeffries ha studiato alla Withins School e una volta ottenuto il diploma, lontano dall’intraveder il proprio futuro nell’universo della creatività e deciso a realizzare il sogno di una carriera in campo economico desiderata fin da bambino, si è laureato in Contabilità e Finanza all’Università di Plymouth, cominciando ad esercitare la professione nella vicina Manchester.
La passione per varie discipline sportive lo portò ad avviare anche un negozio di biciclette e nel 2006, tale circostanza gli dette opportunità d’impugnare e cimentarsi con una fotocamera al fine di scattare alcune immagini dei prodotti in vendita. L’esordio dietro al mirino non segnò l’alba di un amore, tuttavia riuscì a destare piacevole interesse invogliandolo a far d’immagini ricordo di eventi, manifestazioni e con il tempo ad approfondire attraverso i lavori di Josef Koudelka, Don McCullin, Stephan Vanfleteren e poi James Nachtwey, rimanendo inevitabilmente colpito dal suo Inferno, terrificante testimonianza della condizione umana, frutto di 10 anni spesi in ogni angolo del pianeta documentando gli abusi subiti dai bambini negli orfanotrofi romeni, la spietatezza della miseria in Bosnia, Cecenia, Kosovo, l’afflizione del continente africano stretto tra carestie e il genocidio ruandese, davanti alla cui ferocia crollò persino un fotocronista di lunga esperienza come Sebastião Salgado: il turbamento fu così violento da tradursi in malessere fisico, mentre interiormente prese a vacillare la fiducia nel domani che nonostante tutto, aveva sempre, saldamente conservato e non meno, tremò il legame con la fotografia.
Lee Jeffries: l’anima dietro l’immagine
Il terremoto emotivo si rivelò svolta e rinascita per il brasiliano ed un incontro con il destino dalle conseguenze di siffatta portata, seppur mancante di simili risvolti traumatici, attendeva anche Lee Jeffries. Accadde in concomitanza della Maratona di Londra svoltasi il 13 aprile 2008: era uno degli atleti partecipanti e il giorno precedente la competizione, se ne andò immortalando le strade della capitale britannica. Giunto nel variopinto quartiere di Covent Garden, tra i rifiuti ammassati vicino ad un portone d’ingresso di St. Martin’s Lane, scorse una ragazza raggomitolata in una coperta ed inconsapevole di ciò che avrebbe provocato, si lasciò trasportare da una spontanea attrazione e a distanza le scattò una fotografia. La donna si accorse di esser stata ritratta e nient’affatto gratificata, ma alquanto irritata dall’invadenza si scagliò contro di lui catalizzando l’attenzione dei passanti.
Nell’immediato l’istinto spinse Jeffries ad allontanarsi per togliersi dall’imbarazzo, qualcosa però gli bloccò le gambe e lo convinse a raggiungerla per scusarsi dell’indelicatezza ingenuamente commessa. Il gesto fu da lei apprezzato e con fiducia si aprì riferendo la realtà di una diciottenne che d’un tratto si era trovata sola e senza un posto dove andare, poiché per qualche ragione i genitori si erano sentiti legittimati a sbatterla fuori di casa.
Era la prima volta che si confrontava in maniera diretta con il vissuto di un essere umano abbandonato a se stesso e ciò che lo lasciò maggiormente sconvolto, l’apprendere che la giovane era finita in strada senza averne fattuali responsabilità, per cui come lei, altre migliaia di figlie, sorelle, madri e padri. Quella conversazione, scaturita da un banale incidente, cambiò radicalmente l’approccio alla fotografia, la sua visione della vita; Lee Jeffries seppe cogliere il dono che gli era stato offerto, ne fu illuminato e divampò in lui il desiderio di far uscire dal silenzio la moltitudine di senzanome, barboni, clochard. Di reietti.
Iniziò a vagar per le vie delle grandi metropoli e con rara sensibilità, imparò a superare disagi e timori pur di andare oltre l’istante rubato e conoscere le persone entrandovi in empatia, raggiungendo uno stato di profonda intimità, ascoltandone i demoni, dando loro conforto, aiutandole economicamente e soltanto poi, raccontandone la parabola dietro la fotografia, da cui fuoriescono volti smarriti, cicatrici, occhi appesantiti dalla sofferenza, colmi di domande, illuminati dalla follia di una società senza perdono e che fa eternità di un giorno: sguardi narranti speranze infrante e quelle rimaste in sorrisi interiori a mantener in vita cuori dimenticati, lesi dall’indifferenza e che tutto hanno perso tranne la dignità custodita in mani consumate, non più memori del riposo, né della grazia dell’amore, ossa segnate dall’acre odore della solitudine.
Posso passare interi giorni a camminare per la città senza scattare una foto. Cammino e guardo la gente che vive per strada. Quando i miei occhi si fissano su qualcuno che a sua volta cerca di catturarmi con lo sguardo, allora mi fermo.
Nel 2013, 50 immagini realizzate per lo più tra gli emarginati di Londra, Los Angeles, Las Vegas, Miami, New York, Parigi e Roma, proprio all’ombra del Colosseo formarono la mostra dal titolo Homeless curata dal compianto e geniale fotoreporter amante della bellezza, del mare e della musica, Giovanni Cozzi, il quale così descrisse l’esposizione: «L’emozione che ho provato la prima volta che ho visto le immagini di Homeless è qualcosa che raramente si prova davanti a delle fotografie. Forse perché queste solo apparentemente sono fotografie. Certo, il mezzo è una macchina fotografica, certo, al di là della lente c’è una realtà. Nei corpi e nei volti ritratti i segni della devastazione di un’ esistenza senza calore che non sia quello dell’alcool o della droga, corpi sbranati quotidianamente dalla violenza della strada. Cosa può restare di un’uomo? Eppure negli occhi dei rifiutati dal mondo c’è la Luce, una Luce di qualità ultraterrena, una Luce dai lampi violenti, che oltre il dolore parla d’estasi, verità e saggezza, amara ed infinitamente dolce come il sapore della libertà. La Luce, questa Luce, con la quale Lee Jeffries ritrae i senza casa, senza terra, senza nulla, è la stessa Luce che affiorava dai volti dei peccatori, dei santi, degli uomini e delle donne del popolo dipinti o scolpiti nel marmo ai piedi della Divinità, sia essa Cristo o Madonna, da Caravaggio, Leonardo, Michelangelo, Bernini, e nelle opere più grandi dell’arte rinascimentale e barocca europea. Più che di fotografia, è di Arte Sacra che si tratta. Ed è questo, ciò che resta della divina tragedia di Jeffries: il Sacro, il senso vero dell’essere Umano, troppo Umano, nella discesa agli Inferi e nella risalita al Cielo».
Grido di denuncia che nel 2014 trovò il sostegno dello stencilista francese Jef Aérosol.
Incantato dai ritratti, contattò e propose a Lee Jeffries di far confluire tecniche e propositi in un unico progetto di sensibilizzazione e l’alchimia dette origine a Synergy, una sequenza di volti dove armonicamente si fondevano e confondevano due forme d’arte congiuntesi per affrontare una problematica globale. Le opere furono esposte nel 2015 alla galleria Mathgoth di Parigi e l’anno successivo a Londra, presso il French Art Studio, devolvendo parte dei ricavati rispettivamente alle associazioni di volontariato Aurore e The Connection, entrambe impegnate a fornire assistenza ai senzatetto tramite accoglienza e piani di reinserimento.
I soldi comprano le persone, le rendono docili e meno autentiche.
Le persone al di fuori del nostro sistema sono dei sopravvissuti e questa condizione è visibile sui loro volti.
Seguirono collaborazioni con Julia Bradbury, Terrence Malick e negli anni, il contabile e fotografo autodidatta Jeffries ha continuato a scrivere il diario dei senzatetto, organizzare aste di beneficenza, raccolte fondi anche attraverso la pubblicazione di libri; dopo l’uscita di Homeless infatti, stampato in concomitanza con la mostra, vide la luce Lost Angels e nel 2019, tramite finanziamento collettivo, Portrait, un volume di 240 pagine introdotto dall’attore americano Josh Brolin, dove le immagini sono accompagnate dagli appunti di un viaggio nel mondo dell’invisibile.
La solitudine, messa a nudo, è uno stimolo molto potente. Non si è mai trattato di scattare una fotografia […] Non sono la documentazione della vita di una persona; sono la documentazione di emozioni e spiritualità.
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