Dorothea Lange, la fotografia come strumento di denuncia
Suolo della cittadina di Hoboken ebbe a farsi terreno di nascita per il dolce animo di Dorothea Lange, donna nella quale, fin dagli imprevisti della prima infanzia, ebbe man mano a germinar seme di forza che, nel corso della sua esistenza, pietra miliare sarebbe divenuto nel perseguir passion di fotografia, in fede ad Amor d’immagine e verità.
Le qualità spesso sottovalutate sono l’assiduità, la tenacia e la disponibilità a tener duro. Il tempo trascorso dietro la macchina fotografica è davvero importante.
Joe McNally
1895, New Jersey, Stati Uniti: è la riva occidentale del fiume Hudson, nella Contea omonima, a miscelar aria al primo gemito d’una neonata che alla vita s’aprì, il ventiseiesimo giorno del mese di maggio, inconsapevole della forza di volontà che prestotempo avrebbe temprato il suo carattere, sfiatandola in primo respiro in territorio americano; nata Dorothea Margaretta Nutzhorn, decisione di porsi in capo il cognome della madre Johanna ne modificò anagraficamente il nominativo, quello che, carrieristicamente, avrebbe diffuso la sua nomea al grande pubblico.
Al settimo anno di vita, sulla di lei spensieratezza cadde l’ombra della malattia, patologia poliomielitica, provocandole immutabile deficit alla gamba destra, ne segnò infatti la tenera età, ulteriore cicatrice emotiva sulla quale, appena un quinquennio più tardi, infierì l’abbandono dell’intera famiglia, lei, il fratello e la madre, da parte del padre, l’avvocato Heinrich Nutzhorn, privazione affettiva che comunque non le impedì di dedicarsi con determinazione alle arti creative ed alla letteratura, alle quali era stata educata fin da piccina.
Ai gravosi intoppi precocemente distribuitisi sulla primissima parte del suo arco vitale, la giovane ragazza reagì con mirabile resilienza e risolutezza che la videro laurearsi alla Waldleigh High School for Girls, prima scuola pubblica newyorkese per ragazze, in tempi in cui l’ostruzione secondaria femminile era ancor sinonimo di scandalo, indi, ventiduenne, affidar la propria specializzazione, nell’acquisir tecnica di ritratti in grande formato, presso la Clarence H. White School of Photography di New York, istituto il cui nome derivò da Clarence Hudson White (1871-1925), noto fotografo americano cresciuto in piccole realtà dell’Ohio, piacevolmente intriso del personal clima familiare, nonché della vita sociale tipica dell’America rurale di quel periodo, il quale, autodidatta, iniziò a dedicarsi alla fotografia anch’esso all’età di ventidue anni, raggiungendo immensa fama in brevissimo tempo.
Sagace coglitore d’immagini, da eternare tramite maestria d’obiettivo e poi nutrir del languor tipico dell’America del ventesimo secolo, come fosse contadino nella raccolta e conservazione dei suoi amati frutti, Clarence fu pioniere nel sostener fermamente l’idea della pratica fotografica come forma artistica, mira ch’egli si trovò a concretizzare nel 1902 come membro fondatore, insieme ad una schiera di colleghi, coordinati dal connazionale fotografo e gallerista, figlio d’immigrati tedeschi, Alfred Stieglitz (1864-1946), del movimento denominato Photo Secession; tramite la tal corrente, con rigido statuto pubblicato, nel luglio del 1903, sul terzo numero di Camera Work, periodico di fotografia creato dallo stesso Stiegliz come avanguardista portavoce dell’indirizzo di pensiero, si poneva in discussione l’oggettività dello scatto, a favor d’una soggettiva manipolazione dell’immagine da parte dell’artista, in riferimento ad uno stile internazionale, il Pittorialismo, sorto nell’Inghilterra nell’ultimo ventennio del diciannovesimo secolo, che delineava l’orientamento di molti fotografi a ricalcare i canoni estetici della pittura al fin di miscelar creatività artistica alla mera tecnica fotografica, in una sorta di smusso all’eccessivo realismo da attuare con tecniche apposite, a partire dalla camera oscura fino agli svariegati processi di stampa.
Uno fra i tre maggiori rappresentanti della tendenza pittorialista, insieme al lussemburghese, naturalizzato statunitense, (1879-1973) Edward Steichen ed all’americana Gertrude Käsebier (1852-1934), fu appunto Clarence il quale, all’apice delle sue convinzioni, si dedicò all’insegnamento fondando, nel 1914, la scuola succitata secondo criteri sentitamente finalizzati a filar arte da un mestiere.
Perfezionate dunque Dorothea, intra le mura dell’istituto in questione, le sue competenze sotto l’ala professionale dell’uomo, nel seguito intraprese differenti e significative collaborazioni con vari studi fra cui, di rilevante spessore, quella con Arnold Genthe (1869-1942), fotografo statunitense, di tedesche origini nel quale, sul finire del diciannovesimo secolo, germogliò passion di fotografia, in ardente attrazione rivolgendosi, oltre a ritratti di personaggi celebri, in special modo al quartiere Chinatown di San Francisco, puntinandone sull’infinito, con semplice cliccar di tasto, la quotidianità or attraverso sguardi e movenze dei bimbi, or nelle scene di giornaliera routine, or nella rassegnazione di tossicodipendenti in doloroso e straziante bilico sui loro baratri interiori oppure ancora in quelli che furono i suoi scatti più sorprendenti, nell’immortalare il violento sisma che colpì la città il 18 aprile del 1906.
Ventitreenne il cui bagaglio racchiudeva esperienza professionale, limpidezza d’idee e nobiltà di propositi, nel 1918 la Lange diede al suo passo destinazione errante, intraprendendo viaggi attraverso il mondo nell’intenzione di condurre se stessa per una spedizione fotografica che, di ritorno dallo stesso per motivazioni esclusivamente economiche, la vide porre un primo punto fermo strutturale nell’apertura di un proprio studio a San Francisco, nel frattempo consolidando rapporto affettivo nell’unione in matrimonio con il pittore, specializzato in raffigurazioni del West americano, Maynard Dixon (1875-1946), insieme al quale donò soffio vitale, sperimentandosi due volte nell’esperienza di madre, a Daniel, nel 1925, quindi a John, nel 1928.
Seppur proveniente dalla scuola di Clarence, la filosofia alla quale Dorothea decise di collimar i propri ideali fu divergente al Pittorialismo, ella, infatti, aderì alla Straight photografy, linea di pensiero nata intorno alla prima metà del Novecento sulla concezione della fotografia come una schietta rappresentazione della realtà non inficiata dunque da modificazioni d’alcun tipo, in ossequiosa credenza che il rimaneggiamento dell’immagine levasse veritiera verginità alla stessa.
La Lange seppe fondere gli scolastici apprendimenti tecnici in dedito connubio fra zelante metodologia e toccante sensibilità, sulla predisposizione d’una pratica lavorativa che in lei divenne impetuoso slancio alla cattura d’autentiche rappresentazioni dell’umanità e del suo boccheggiar sull’afflizioni della sorte, condividendo opinioni nella contemporanea frequentazione di colleghi appartenenti al gruppo f/64, compagine di fotografi radunato sotto unico nome dal fotografo statunitense Ansel Easton Adams (1902-1984) che, sul primo colpo di fulmine nato fra il lui quattordicenne e lo strumento con cui riportò ad obiettivo numerosi paesaggi naturali del continente natio, poi ricamati tra sfumature di bianco e nero, sotto unico intento riunì a schiera i più rappresentativi fotografi in linea con la Straigh photografy, in assoluta osservanza alla nitidezza delle immagini.
In verosimile ribollir di viscere riscaldatesi sulle visioni dei devastanti effetti recessivi della Grande Depressione del ‘29 ed in acuto e magnanimo sguardo posato sulle terribili conseguenze, umane ed economiche, della Dust Bowl, ossia la massacrante serie di tempeste sabbiose che s’abbatterono sul Canada e sulla parte centrale degli Stati Uniti, fra il 1931 ed 1939, in Dorothea spinta interiore si fece lava da eruttare, densa e bruciante, in istantanee composte da frammenti esistenziali, gli stessi che, in altro modo, lei ben aveva collaudato come giovanissima funambola tenutasi in equilibrio sulle avversità del destino.
La malattia mi ha formato, guidato, istruito, aiutato e umiliato.
Non l’ho mai superato e sono consapevole della sua forza e del suo potere.
Dorothea Lange
L’umana visione di Dorothea Lange
La Grande Depressione fu immediata folgore all’animo della femminea creatura dallo spiccato sentire, al punto da spostarne la sete fotografica dal confort del lavoro in studio alla durezza del bordo strada, instancabile ed accanita ricercatrice degli anfratti interiori all’uomo in cui s’ebbero a cementificar situazioni di povertà originanti atroce disperazione, malinconico disincanto, invalidante spossatezza ed inconsolabile rassegnazione, fattisi tronco di salice piangente smisurato sconforto e scartavetrante la forza umana intrinseca ad ogni individuo bistrattato dagli eventi; simbolica foto d’esordio a riguardo, del 1933, fu White Angel Breadline, iconico scatto in cui la lacerante morsa della fame si fa comun denominatore ad un raggruppamento di uomini ammassati in attesa all’esterno d’una mensa, scena purtroppo divenuta prassi del periodo storico ed in allegoria sulla forzata mancanza di cibo ad usurar fisico e mente come bomba nucleare esplosa nello stomaco, come, in parallelismo scrittorio, metafora assoluta della Grande Depressione divenne il romanzo The Grapes of Wrath, capolavoro dello scrittore statunitense, nonché premio nobel per la letteratura, John Steinbeck (1902-1968), con cui le foto di Dorothea di allora parevano avere una peculiare analogia.
Paladina della dilagante disillusione ch’ebbe a vorticar senzatetto e disoccupati, la mirabile donna s’impegnò a tal punto in una capillare ed impegnativa opera d’identificazione da stimolar attivo interesse da parte della Ruralità Resettlement Administration, poi divenuta Farm Security Administration (FSA), la federale agenzia, deputata al monitoraggio della crisi, che s’occupò di trasferire famiglie rurali ed urbane in difficoltà nelle comunità progettate ad hoc dal governo federale.
A far sì che il suo obiettivo divenisse ulteriore ago con cui tentar d’infilarsi nella cruna della desolazione umana, fu la precedentemente citata Dust Bowl, fenomeno meteorologico di dimensioni inimmaginabili ch’ebbe a coinvolgere vasti territori destinati alla coltivazione e la cui causa sarebbe stata ricondotta a decenni di metodologie agricole inidonee, fra cui costanti arature la cui profondità era causa d’eliminazione dell’erba, precludendo in tal maniera la giusta idratazione del suolo, oltre all’assenza di rotazione delle colture, tecnica agronomica che prevede variazione della specie coltivata allo scopo del buon mantenimento delle caratteristiche del terreno, in primis la sua fertilità; infausta, seppur naturale, conseguenza al pesante intervento umano su Madre Natura, la conseguente ed ovvia siccità, creatasi nel corso del tempo, divenne polvere in balia del vento, sollevandosi la quale, in malaugurata danza con lo stesso, si materializzò in nubi oscure che transitarono la terra elevata fino all’Oceano Atlantico, vorticando in turbinea bufera abitazioni, sogni e lavoro d’un abbondante mezzo milione di americani, spronati alla migrazione dall’immenso disastro ecologico, in ampio spopolamento delle Grandi Pianure.
Gli stessi fotografi della Farm Security Administration furono i divulgatori della crisi umanitaria venutasi a verificare, la più conosciuta dei quali fu per l’appunto la Lange, entrata a far parte della stessa organizzazione nel 1932, in un programma stilato dallo stato americano per documentare la ripresa dalla crisi tramite cronologia d’immagini; ferrea alla sua obiettiva capacità di giudizio, la donna scavò in ogni angolo come fosse una sorta d’aratro in penetrazione della realtà, sagacemente ed amorevolmente indagandola attraverso oggetti, stati d’abbandono delle abitazioni, ma, soprattutto, carpendo emozioni da volti, sguardi e gestualità, in un empirico, magistrale, accogliente, disarmante e nudo ritratto a denuncia d’una società andata in mille frantumi, insieme al cuore di milioni dei suoi figli.
Migliorata irrigazione e diminuito sfruttamento dei terreni agricoli condussero lentamente la situazione verso la normalità, dopo il vertice di gravità raggiunto nel 1935, medesimo anno in cui Dorothea giunse a divorzio dal marito, in seguito sciogliendo in Amore nel maritarsi all’economista agricolo progressista e professore di economia Paul Schuster Taylor (1895-1984), con il quale aveva intersecato inizial percorso di conoscenza grazie alla di lui commissione d’una documentazione fotografica, in quanto intensamente entusiasmato dalle sue opere; l’uomo divenne ben presto l’eco su cui amplificare l’innamorato battito, oltre che preziosa spalla in aiuto all’attività professionale della moglie, essendole di supporto nel condividere con lei il carico d’interviste, raccolta dei dati e valutazione degli stessi.
Nei successivi quattro anni la Lange si dedicò anima e corpo ad un considerevole numero di reportages, la cui costante di fondo fu la condizione migratoria e lavorativa di operai e braccianti, da lei scandagliata nelle sue oscurità più recondite e riportata a galla in conquista al meritato onore spettante a tutti coloro che vengano violati nel sacro diritto di ciascuno alla dignità.
Fu il 1941 ad onorane carriera nella consegna della borsa di studio Guggenheim Fellowship, esclusivo riconoscimento consegnato ogni anno, fin dal 1925, a coloro che si siano distinti in straordinarie ed inconsuete capacità artistiche, dalla John Simon Guggenheim Memorial Founfation, la fondazione istituita dai coniugi Guggenheim a commemorazione del figlio, prematuramente scomparso all’età di ventisei anni; simbolica medaglia al petto dalla cui gratifica Dorothea si levò, rinunciando al ritiro, poiché animosamente, intimamente, civilmente, candidamente e deontologicamente sospinta da innata corrente, a lei intrinseca, in convinta rotta verso i più disagiati, con impaziente desiderio di giungere ad essi pari a quello del naufrago al cui orizzonte di sguardo si stagli la terra ferma.
Cavalcò le conseguenze di Pearl Harbor, la caleidoscopica fotografa dalle mille peripezie ed altrettante risorse, domando vanità di premio al richiamo del dover di documentata verità da apporsi come effigie sul petto per non obliar la sua missione prima, quella per la quale visse, combattendo battaglie personali a suon di rielaborazioni e mirando in alto, là dove ogni uomo non dovrebbe sentirsi inferiore a nessuno.
Invitata nel 1945 dallo stimato Ansel Adams ad insegnare fra i banchi della California School of Fine Arts (SFAI), scuola che, fin dal 1871 fu calamitico richiamo per chi avesse desiderio d’innovativa sperimentazione in campo artistico, due anni dopo si saggiò in doti di collaboratrice all’origine d’una delle più influenti agenzie fotografiche mondiali, la Magnum Photos, le cui fondamenta, datate al 1947, furono opera di fotografi del calibro di Henri Cartier Bresson (1908-2004), Robert Capa (1913-1954), David Szymin, alias Seymour (1911-1956), George Rodger (1908-1995), Maria Esner Lehfeldt (1909-1991) e altri, poi ricoprendo ruolo di fondatrice, un lustro poscia, bensì nel 1952, della rivista trimestrale di fotografia Aperture insieme a Ansel Easton Adams, Nancy Newhall (1908-1974), Minor Martin White (1908-1976), Beaumont Newhall e Barbara Morgan; trascorse gli ultimi anni della sua vita strattonata da carenze di salute, fin all’undici ottobre del 1965, giorni in cui il respiro l’abbandonò sulla melodia d’un ultimo afflato, culminandone palpito sulla scia d’una patologia oncologica esofagea, cancro usurante le sue fisicità, ma impotente nei confronti d’una ricchezza di sentire infinitamente effusa in dono sul mondo grazie alle immagini che allo stesso, in estrema e generosa dedizione, fu in grado di proporre, nella commovente e soave sintesi fra delicati vissuti personali, laboriosi sacrifici, nobili ambizioni, filantropici sogni e variopinti sentimenti.
Non fai solo una fotografia con una macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito, e le persone che hai amato.
Ansel Adams
Dorothea Lange e Florence Thompson
Dell’attacco di Pearl Harbor la Lange si fece sarta al rammendo delle cicatrici inferte dalle segregazioni avvenute durante il secondo conflitto mondiale, con ogni sua forza tentando, attraverso incisivi e scrupolosi scatti, di portar alla ribalta il supplicante strazio d’intere famiglie lacerate come vecchi stracci bellici durante le attese per il trasferimento nel campo di Manzanar, località adagiata nella Valle di Owens, ai piedi della Sierra Nevada, ove migliaia di cittadini vennero internati in esecuzione all’Ordine Esecutivo 9066, emanato il 19 febbraio del 1942 dal presidente Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) e deliberante l’imprigionamento di qualsiasi residente statunitense d’origini italiane, tedesche o giapponesi, anche se natio in suolo americano.
Caliente fervor d’obiettivo condusse la fotografa a fissare in immagini, d’eccezionale portata umana ancor prima che storica, al punto che alcune delle stesse furono soggette a sequestro da parte dell’esercito, l’angosciante costernazione dei malcapitati, filtrandone il terrore e l’abbattimento attraverso un puntar lente ora sull’iridi spente, con straziante sfumatura d’incomprensione stagliate sulle smarrite cornee degli infanti, ora sui bagagli accatastati e ricolmi di paure, nell’attesa della partenza per il nulla, ora sulle cartacee targhette identificative affibbiate agli individui nella prepotenza d’un gesto che pareva condurre bestie al macello, nella follia che talvolta permea le menti in maniera inequivocabilmente astrusa e riprovevole.
Ma indelebile aggancio al cardiaco pulsar di Dorothea furono i dignitosi lineamenti finemente tracciati sul viso d’una donna che, per sua stessa dichiarazione, la fotografa disse “aver visto ed essersi avvicinata”, immediatamente colpita “dalla madre affamata e disperata, come fosse stata a lei attratta da un magnete”, forse nell’attrarsi in una sorta di calamitante seduzione fra animi affini che, prima o poi, oltre distanza ed oltre tempo, si richiamano come stregati l’un dall’altro sul filo d’un ancestrale processo conoscitivo che ne intreccia i percorsi esistenziali.
«I saw and approached the hungry and desperate mother, as if drawn by a magnet».
La donna in questione, alla quale la Lange avrebbe in seguito dedicato, nel 1936, il suo scatto più noto, Migrant mother, rispondeva al nome di Florence Leona Christie Thompson, nota come Florence Owens Thompson, operaia statunitense, all’epoca dell’incontro trentaduenne madre di sette innocenti anime, che divenne immediatamente il simbolo per antonomasia della Grande depressione.
Natali ricevuti nell’Oklaoma, a Tahlequah, nel primo giorno di settembre del 1903, Florence, madre Mary Jane Cobbo, padre Jadson Christine, il cui divorzio fu di poco successivo alla sua nascita, inconsapevolmente condivise con Dorothea lo sperimentar prestotempo contrastanti sentimenti di separazione, tuttavia ritrovando clima familiare all’interno del nuovo rapporto instaurato dalla madre con Charle Akman; appena sedicenne, la ragazza convolò a nozze con Cleo Owens, trasferendosi nella Contea di Stone, Missouri, in seguito alla nascita del terzo figlio, a solamente un triennio dal matrimonio e, dopo una decade ed altri due figli, di nuovo traslocando in quel di California, come coltivatrice al servizio nella fattoria d’una famiglia alto-borghese.
Il nuovo impiego lavorativo coincise con la sua sesta gravidanza e con l’improvvisa morte del consorte causa tubercolosi, lasciandola in un completo stato di solitudine al quale la donna reagì aggiungendo nuovi lavori al precedente, nel tentativo di mantenere l’adorata prole.
Sposa in seconde nozze a Jim Hill, dallo stesso ebbe tre figli ed entrambi condivisero migrazioni e fatiche, girando più cascinali, fra California ed Arizona, fino a che, separazione dallo stesso e nuovo sposalizio con George Thompson, non la condussero a Modesto, cittadina californiana capoluogo della Contea di Stanislaus, ove, al termine della seconda guerra mondiale, condusse appagante relazione matrimoniale fino al subentrar di problemi cardiaci per sovvenir economicamente ai quali i figli si prodigarono nel raccogliere la cifra necessaria al poter intervenire chirurgicamente, riuscendo nel loro nobile intento grazie a donazioni ricevute utilizzando il nome d’arte che alla madre era stato attribuito dalla fotografia della Lange.
L’operazione le concesse tuttavia giusto il tempo di rientrare tra famigliari mura, nelle quali, il 16 settembre del 1983, un arresto cardiaco calò sipario sulla sua esistenza.
La fotografa e la migrante ebbero occasion d’intrecciar la loro raminga marcia quando Florence, diretta in Arizona con la figliolanza, si vide costretta a sostare in un campo migranti per sopraggiunti problemi alla sua autovettura; Dorothea, ivi presente negli stessi giorni, notando la donna con allor ancora solamente sette figli, le chiese di poterla fotografare, richiesta alla quale, sull’istante, conseguì certo rifiuto, poi ammorbiditosi in un acconsentire, a condizion d’anonimato, che legò le due donne sulla consapevolezza che le immagini avrebbero avuto il potere di scuotere le coscienze, nell’apprendere che persone in condizioni di povertà non dovessero venir considerate prive di forza, al contrario spesso maggiormente decise nell’arrivar a devastarsi di lavoro pur di mantener la famiglia.
L’allegorico valore della fotografia fu lampante, consacrata a simbolo primo delle situazioni di disagio diffuse in tutto il continente, ma, nella sua esposizione in una mostra del 1941, l’original negativo venne modificato per levar pollice della Lange, rimasto in foto, sennonché, alla fine degli anni sessanta, cassone della spazzatura sì rivelò prezioso scrigno contenete 31 negativi originali, con tanto di firma ed annotazioni, poi venduti per poco meno di duecentocinquantamila dollari alla rinomata casa d’aste del Regno Unito, la Sotheby’s, filiale di New York.
Impagabile valore, il dito di Dorothea nell’atto dello scatto, testimone d’una maestria che, mai lacunosa di savia umiltà, divenne strumento primo nella denuncia d’ingiustizie sociali a più livelli, frutto della rappresentazioni delle varie corporeità, affaticate e bombardate di frustrazioni, che alla donna dovevano arrivar dirette come fulmini a ciel sereno sul cuore, lasciando che lo stesso divenisse vivente rastrello di vissuti, nel tentativo di carezzarne i contorni e riproporli al pubblico densi d’immedesimante affetto, donandosi in toto alla sua causa prima, setacciata con impegno e dedizione fra amata libertà e desiderio d’uguaglianza, nell’incessante fede alla verità.
Bisogna davvero usare la macchina fotografica come se un domani si fosse colpiti da cecità. Vivere una vita visiva è un’impresa enorme, praticamente irraggiungibile. L’ho solo toccato, appena toccato.
Dorothea Lange
Dorothea.
Donna, prima ancor che fotografa, cristallina e fine pescatrice d’emozioni sull’orlo d’empatiche percezioni fottutamente libere da ideologismi massacranti la libertà d’opinione, un mieloso ed allo stesso tempo ruvido animo attraverso cui soavemente abbandonarsi nell’occasione d’assaporar la vita in maniera fragrante, infondendosi del suo basilare aroma come fosse pezzo di pane da prendere a piccoli morsi, gustandone la vera essenza, come pillole di raggiunta consapevolezza salutare all’interiorità.
Alcune immagini inserite negli articoli pubblicati su TerzoPianeta.info, sono tratte dalla rete ed impiegate al solo fine informativo. Nel rispetto della proprietà intellettuale, sempre, prima di valutarle di pubblico dominio, vengono effettuate approfondite ricerche del detentore dei diritti d’autore, con l’obiettivo di ottenere autorizzazione all’utilizzo, pertanto, laddove richiesta non fosse avvenuta, seppur metodicamente tentata, si prega comprensione ed invito a domandare immediata rimozione, od inserimento delle credenziali, mediante il modulo presente nella pagina Contatti.