Shadi Ghadirian, i volti della donna in fotografia
Sono le donne iraniane e d’ogni angolo del pianeta, l’universo indagato e illustrato dalla fotografa Shadi Ghadirian, da sempre sguardo delicato ed altrettanto umoristico e abrasivo sulla condizione femminile, riflessa e sospinta lungo l’erto cammino sull’incerto confine fra tradizione e società contemporanea.
Shadi Ghadirian: Le foto non muoiono
Figlia della rivoluzione, Shadi Ghadirian nacque a Teheran nel 1974 e all’indomani del diploma, s’iscrisse alla facoltà di Belle Arti della prestigiosa Università Islamica di Azad, anni durante i quali ebbe modo di incontrare e stringere legame con fotografi d’indelebile influenza come Bahman Jalali (1944-2010) e Kāveh Golestān (1950-2003), vicinanza e confronto tramite cui, all’inevitabile consolidarsi della tecnica, s’unì presa di coscienza sull’assoluto potere narrativo dell’immagine. Lezione la spinse e convinse a raccontare la propria visione attraverso l’obiettivo ed a conclusion degli anni Novanta — frattanto ispirazione concepiva prima opera — al fine di approfondire studio e conoscenze, conquistò ruolo d’archivista presso il Museo Nazionale della Fotografia e nel mentre traslava su stampa antichi negativi in vetro, s’imbatté nell’ampia collezione di ricordi appartenuta a Naser al-Din Shah Qajar (1831-1896), esponente della dinastia, regnante in Persia dal 1785 al 1925.
Tra le memorie dei tanti viaggi intorno al mondo, ad accendere l’estro di Ghadirian furono i ritratti delle ottantaquattro consorti e delle decine di concubine del sovrano: esse difatti contraddicevano l’idea convenzionale d’anime incatenate, rivelandosi nell’aspetto e nelle pose segnatamente emancipate in relazione al periodo storico. L’artista ricreò un’ambientazione quanto più simile a quella osservata, dopodiché elesse modelle amiche, sorelle e più lontane familiari, applicò loro consono trucco e da ultimo, cogliendo l’usanza d’allora d’immortalare i soggetti affiancati da beni che ne sottolineassero l’autorità, imitò introducendo però elementi del tutto alieni all’epoca: occhiali da sole, boombox, telefono, ma anche libri proibiti, una bicicletta, in Iran accessibile ai soli uomini, e in un sarcastico nonché provocatore contrasto di tradizione e modernità, si concretizzò la raccolta, poi utilizzata per la tesi di laurea, dall’esplicito titolo, Qajar.
Censura non mancò di abbattersi sul lavoro, colpendo in particolare lo scatto ritraente due donne con il burqa, reggere uno specchio sul quale è riflessa una biblioteca. Presentato ad un concorso, venne premiato, riconoscimento immediatamente ritirato dal Ministero della Cultura, perché ritenuto «controverso» ed ugual veto cadde sulla successiva serie, Unfocused, intimo cosmo popolato d’affioranti forme femminili, tuttavia colpevoli d’indossare vesti eccessivamente echeggianti abiti occidentali e per questo ne fu proibita l’esposizione nelle gallerie dove nel frattempo Shadi Ghadirian stava sempre più affacciandosi.
Nel 1999, concentrò attenzione sulla cruenta insensatezza della guerra ed estrapolando da cataloghi di agenzie d’informazione datate fotografie di militari, realizzò l’incisiva My Press Photo, esaminando triste e universale tema che avrebbe nuovamente affrontato nel 2008 con Nil Nil, «zero zero», allogando elmetti, maschere antigas, munizioni e granate, tra oggetti d’uso quotidiano, a metafora dei devastanti effetti generati da un conflitto sull’esistenza di soldati, ma altresì di coloro in attesa di riabbracciarli ed inoltre rappresentando, quanto anche allo spegnersi delle fiamme, il proseguire della vita sia ormai compromesso. Una realtà conosciuta e ripresa l’anno seguente riuscendo a risaltare e simultaneamente stemperare la brutalità dei medesimi strumenti bellici, decontestualizzandoli e ponendoli in contrapposizione all’assoluto candore di sfondo e alla leggerezza di un nastro di seta rossa a decoro d’ognuno. Intuizione battezzata White Square e al pari della precedente, largamente anticipata da Like Everyday, scaturita dalla pletora di utensili domestici ricevuti in regalo quando al tramontare del II millennio, sposò il concittadino e collega Peyman Hooshmandzadeh. Materializzò quindi l’arcaico stereotipo democraticamente multiculturale e resistente all’estinzione della donna nel ruolo di regina/serva della casa, inventandosi tali protagoniste adornate da chador incornicianti anziché volti, aridi piatti, teiere, casseruole, ferri da stiro.
Una favola iraniana
Nel 2002 riconsegnò poetica al femminile essere, catturandolo dietro vetri nella romantica esplosione d’arcobaleni di Be Colorful, mentre a distanza di 24 mesi tornò ad esser scintilla sentimento di ribellione nei confronti delle imposizioni ed irruppe in occasione d’una mostra collettiva con gli autori chiamati ad esprimere personale concezione del rapporto tra Est ed Ovest. Sfruttò l’opportunità per denunciare repressione alzando sipario su una sfilata di moda dai capi d’abbigliamento contravvenenti le norme giuridiche iraniane, in quanto agli occhi davano libertà di posarsi su capelli, braccia, gambe, parti del corpo su cui l’artista però intervenne celandoli sotto una coltre di vernice nera, andando in tal modo ad emulare l’azione della censura: «Quando avevo cinque anni, il mio Paese ha subìto un grande sconvolgimento politico e sociale. Presto l’ḥijāb fu integrato nella Costituzione. Da molti anni ormai, sia in pubblico che nei mass media, le donne iraniane devono coprirsi secondo un codice legale diverso da quello degli uomini. Anche le immagini proposte da riviste straniere e distribuite all’interno dell’Iran subiscono pari trattamento; questa volta [io] ho usato l’inchiostro proveniente dalle autorità che si occupano di proteggere il pubblico, dai danni causati dal corpo delle donne».*
Riunì gli scatti sotto il nome di West by East e dopo aver posto accento sull’ormai inguaribile e globale dipendenza dalla tecnologia con Ctrl+Alt+Del, nel 2011 il tono di Shadi Ghadirian si fece meditativo parlando alla donna tramite Miss Butterfly, fotografie al centro delle quali pose tessitrici di ragnatele, così offrendo interpretazione d’una favola iraniana, trovandovi estrema attualità nonostante le remote origini: storia tramanda racconto di una giovane Farfalla decisa ad incontrare il Sole ed esser sfiorata dai raggi, ma nell’avventurarsi, finì coll’impigliarsi nella tela d’un Ragno. Costui, al mirarne la grazia, venne colto da compassione ed invece di divorarla, le promise di condurla verso la luce, a patto, di ricever dapprima in cambio degli insetti. Quindi le suggerì di cercarne all’interno di un’oscura cantina e la Farfalla, accettata la proposta, vi si gettò senz’indugio alcuno discoprendone in abbondanza, però avanti che tentar nell’immediato di farsi seguire, volle conoscerli, saperne le vicissitudini e all’ascolto, il suo cuore si gonfiò di pietà. Dunque, oltre a rinunciare ai suoi propositi, tornata a mani vuote dall’abile cucitore, decise di sacrificarsi e da sola s’imprigionò nel groviglio da egli ordito. Il Ragno non ebbe certo viltà d’approfittare ed anzi, colpito dal coraggio, prontamente le concesse libertà indicandole la strada verso il Sole e la Farfalla, rinvigorita si precipitò nell’interrato, desiderosa di condivider gioia e portar con sé gli altri insetti, ma una volta arrivata, si trovò davanti un muro d’incredulità e silenzio. Pur con tristezza in animo, non le restò che spiegar le doloranti e variopinte ali spiccando finalmente il volo verso il Sole.
Le opere di Ghadirian, a partire dalle mostre d’esordio tenute nel 1999 alla Golestan Gallery di Teheran ed al londinese Leighton House Museum, sono state esposte in Medio Oriente, Canada, Europa, India, Israele, Russia, Stati Uniti d’America e fanno parte di numerose collezioni pubbliche e private, tra cui figurano quelle del British Museum, del parigino Centre Georges Pompidou e ancora del Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig Wien di Vienna.
*bm-lyon.fr
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