Ipazia, storia di una e di ogni donna dal libero pensiero
Martire della libertà di pensiero, Ipazia di Alessandria fu e rimane inconfutabile emblema di sentita passione per la ricerca della verità scientifica, dolce anima barbaramente defraudata della vita dal fondamentalismo religioso che privò il mondo del suo sommo ed avanguardista intelletto.
Quando io ti vedo mi prostro, davanti a te e al tuo sapere, e guardo la Casa astrale della Vergine, poiché verso il Cielo è rivolto ogni tuo atto, o divina Ipazia, perfezione di ogni discorso, stella incontaminata della Filosofia.
Antologia Palatina, Lib. IX, attr. Pallada
All’incirca fra il quarto ed il sesto secolo, Alessandria d’Egitto fu indecoroso teatro di violente ed interminabili persecuzioni contro le comunità pagane, al rafforzarsi del cristianesimo corrispondendo una selvaggia ed efferata repressione che — senza alcun discernimento — iniquamente stoppò l’esistenze di chiunque non s’uniformasse alla fede cristiana, fra queste quella d’una donna il cui acume intellettivo fu in grado d’illuminare le menti dei più autorevoli letterati, al genere umano lasciando imperituro e prezioso contributo in lauta eredità.
Teone di Alessandria
Definita «stella incomparabile nel firmamento della sapienza» dal filosofo britannico Martin Cohen, Ipazia venne alla luce ad Alessandria d’Egitto nella prima metà del quarto secolo, la precisione dei natali non trovando certezza alcuna, pertanto rimanendo l’ipotesi della nascita adagiata nell’intervallo che intercorre fra il 355 ed il 370 e mistero concretizzandosi altresì sulla figura della madre, ignota, viceversa del padre conoscendosi le generalità in capo a Teone di Alessandria (ca. 335-405), astrologo, matematico, filosofo greco antico, insegnante ed uomo di vasta cultura, all’epoca rettore del Museo cittadino la cui costruzione s’era concretizzata per volere del sovrano egizio, scrittore e generale macedone Tolomeo Sotère (367/366 a.C. – 282 a.C.), ossia Tolomeo I, in omaggio alle Muse, osannate divinità della religione greca — a rappresentazione dell’Arte concepita com’eccelso linguaggio di bellezza e verità — figlie di Zeus, capostipite dell’Olimpo, e della dea Mnemosine, personificazione della memoria, la struttura mantenendosi per secoli punto d’incontro dell’intelligenze più sagaci ed il termine Museo, derivante dal nominativo delle dee, venendo assunto trasversalmente nei secoli ad indicar per antonomasia edifici custodenti opere d’arte, collezioni di vario genere e reperti archeologici.
L’insigne Teone si materializzò nelle proprie considerazioni all’interno di commenti scientifici d’illustri trattati, tra i quali, l’Almagesto ed Elementi, il primo ad opera dell’astrologo, geografo ed astronomo Claudio Tolomeo (ca. 100-175) e risalente al 150 d.C. circa, mentre il secondo, a firma del matematico Euclide (IV sec. a.C. – III sec. a.C.) rendendosi autore, intorno al 300 a.C. dello studio matematico redatto in greco antico ad oggi più significativo; nonché d’un saggio descrittivo su una tipologia piana, di verosimile sua invenzione — seppur da talune fonti attribuita all’astronomo, geografo e matematico Ipparco di Nicea (200 a.C. – 120 a.C.) — dell’astrolabio, strumento tramite cui era possibile individuare il posizionamento degli astri e della sfera solare in riferimento ad una determinata latitudine correlata a giorno ed ora ben precisi.
Il savio Teone fu inoltre iniziatore di scuole filomatiche, vale a dire aderenti ai principi cardine del filosofo ellenistico, di cultura ebraica, Filone di Alessandria (ca. 20 a.C. – 45 d.C.), anche detto Filone l’Ebreo, anche ricordato per la peculiare parafrasi biblica identificando l’Ente Supremo ebraico nel demiurgo, ovvero la figura filosofico-mitologica apparsa per la prima volta nel celebre dialogo di Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) risalente al 360 a.C. circa — il Timeo — provvista di forza generatrice e descritta nell’intento d’avanzare una sorta di teoria cosmologica a fini narrativo-esplicativi ed ampliando il discorso alla filomanzia in genere, potendosi tratteggiare cinque punti a sostegno del pensiero articolato dai filomati come spunto argomentativo da cui partire, al fin perfezionarsi all’interno di varie discipline d’apprendimento:
• la natura, comprensibile all’uomo secondo schematizzazioni matematiche;
• la causalità, alla base d’ogni evento;
• gli schemi, mantenendosi una perenne similitudine fra quelli d’antropica ideazione e i naturali;
• l’uomo, essere vivente e sociale imprescindibilmente correlato alle dinamiche dell’universo;
• l’ordine, conservabile nel coscienzioso rispetto dell’armonia ecosistemica, nella salvaguardia del delicatissimo equilibro che la sostiene e vivifica.
L’eclettico ingegno di Teone fu quindi variegata culla di cultura e sprone all’apprendendimento per Ipazia, dal genitore istruita in ambito matematico, geometrico ed astronomico, in breve tempo acquisendo nozioni e rielaborandole in maniera da surclassare la saggia padronanza del padre, indi espletando la propria dote intellettiva dedicandosi a richiami di penna nel commentar rilevanti opere scientifiche, nella sua casa prestandosi al ruolo d’insegnante per un concorde drappello di studenti ed ivi, fra gli altri, dissetandosi della femminea ed acuta di lei cultura l’allievo Sinesio di Cirene (ca. 370-413), scrittore e filosofo greco — di pensiero neoplatonico — che per ampia parte dell’esistenza le si mantenne fido seguace, definendola madre, sorella, maestra e ad ella palesando costante, cristallina e imperturbabile ammirazione in un fitto carico epistolare, verosimilmente protrattosi fin quasi allo spirar, la dipartita risparmiandogli la sofferenza dell’apprender con quale barbarie alla sua eletta sarebbe stato smorzato il respiro.
L’epistolario di Sinesio — data la scarsità di notizie certe riguardo — fu e continua ad essere prezioso apporto alla scoperta delle opinioni filosofiche d’Ipazia, fra le righe del discepolo captandosi l’enorme influenza che la donna ebbe su di lui e, pertanto, dalle missive potendosi estrapolare il nocciolo concettuale a lei insito, ferreo nell’indirizzare i propri scolari ad un approccio alla filosofia che si facesse mezzo primo di ricerca della verità, in una sorta di bussola che alla tal disciplina orientasse tutte le scienze, dal rapporto con le stesse traendo insegnamenti sulle dinamiche universali ed umane, nell’intrinseco rapporto che indissolubilmente lega ogni uomo alla Natura sua Madre.
Come il filosofo greco Plotino (203/205 – 270) fu erede di Platone ed iniziatore d’una peculiare linea interpretativa del suo pensiero nota come neoplatonismo e che in unione ad aspetti della filosofia greca divenne il principale riferimento accademico a partire dal terzo secolo d.C. — l’uomo a tal proposito fondando in Roma una scuola dedicata — Ipazia ne fu prosecutrice in suolo alessandrino, al pari del capostipite di corrente a sé calamitando le menti più brillanti ed assetate di sapere, in lei concretandosi la prediletta guida alla quale affidarsi in affaccio sulla “scienza delle scienze”, peraltro l’emancipata pensatrice, non solo palesando indubbia erudizione nello svolgere ruolo d’insegnamento, ma degli spazi cittadini facendo una cattedra a cielo aperto dalla quale generosamente diffondere opere e fondamenti filosofici a chicchessia ne avesse desiderio, al contempo dall’acculturato eco dei suoi sermoni meravigliosamente palesandosi — allora come ora — quanto il considerar l’universo femminile inferiore al maschile ed il ritenerlo inidoneo a determinate attività, fosse sinonimo di cieca, codarda ed ingrata stoltezza, sul versante opposto ergendosi fiera un’abile e temeraria ricamatrice d’arte oratoria, la cui capacità comunicativa fu possente nello sfondar sterili fisime e deleteri preconcetti, parallelamente da edotto lemma filando generale stupore.
Leggete, studiate, e lavorate sempre con etica e con passione; ragionate con la vostra testa e imparate a dire di no; siate ribelli per giusta causa, difendete la natura e i più deboli; non siate conformisti e non accodatevi al carro del vincitore; siate forti e siate liberi, altrimenti quando sarete vecchi e deboli, rimpiangerete le montagne che non avete scalato e le battaglie che non avete combattuto.
Mario Rigoni Stern
Ipazia, icona dell’amore per la libertà, ragione e verità
I pubblici insegnamenti d’Ipazia ne denotano l’indomito spirito e l’irriducibile audacia in quanto, oltre all’esercitar una professione dalla notte dei tempi prerogativa degli uomini, si svolsero a cavallo d’un un periodo storico in cui la città fu terreno d’accesi scontri fra pagani e cristiani, nel pieno delle facinorose guerriglie assumendo ruolo di quattordicesimo papa della Chiesa ortodossa copta — in successione a Timoteo I (?-384) — Teofilo d’Alessandria (? – 412), il vescovo entrando in carica nel 385 ed un sol sessennio più avanti cavalcando conflitto religioso con la distruzione dei templi politeisti, forte dell’avvallo dei decreti teodosiani promulgati, tra il 24 febbraio del 391 e l’8 novembre del 392, dall’imperatore romano — storicamente noto al nome di Teodosio I — Flavio Teodosio Augusto (347-395), a regolamentazione del precedente Editto di Tessalonica, o Cunctos populos, mediante cui, il 27 febbraio del 380, il cristianesimo era stato proclamato religione ufficiale dell’Impero, di fatto interdicendo paganesimo ed arianesimo e con l’emanazione degli editti sancendo definitivamente divieti, pene e sanzioni pecuniarie nei confronti dei pagani nei cui petti, alla richiesta, accordata, di Teofilo a Teodosio I di poter trasmutare in chiesa i loro tempio di Dioniso – dopo che già il Cesareo, tempio d’Augusto, era divenuto cattedrale cristiana d’eccellenza — esplose un incontenibile ira sui moti della quale, al fin di vendicare l’uccisone dei loro sacerdoti da parte dei cristiani, resero egual barbarie, tuttavia soccombendo ed insanguinandosi le medesime strade nelle quali l’imperterrita Ipazia avrebbe di lì a poco irraggiato la propria cultura, verbalizzandola a cuori e coscienze, frattanto mantenendosi impavidamente radicata alle proprie tradizioni pensanti.
Le truci vicissitudini di Alessandria — fondata nel 331 a.C. da Alessandro Magno — la sfregiaron colpendola nell’arteria dei culti in essa pullulanti, dato il precedente coesistere d’almeno tre comunità religiose differenti, quali la pagana, la cristiana copta e l’ebrea, frammentarietà devozionale ch’era ostacolo al controllo politico e culturale, impedendo ai governatori d’incondizionatamente giovarsi della potenza commerciale della ricca capitale d’Egitto, ragion per la quale — sebben la magnificente megalopoli dell’Impero romano d’Oriente fosse presieduta da un prefetto delegato dall’Imperatore di Costantinopoli — ampie frange di popolo assecondarono la bramosia di potere di vescovi e patriarchi e, ufficiosamente conformandosi alle lor disposizioni, nonché camuffando fanatismo da devoto spirito di fede ortodosso, in nome dello stesso indistintamente e con inaudita ferocia si scagliarono contro eretici, giudei ed eterodossi di qualsivoglia genere, deturpandone corpi ed annientando strutture con una tal veemenza dall’esserne l’impeto inarrestabile perfin allo stesso imperatore.
Razzie ed incendi all’ordine del giorno, l’egiziana metropoli venne depredata di molteplici santuari, cultura ed anima del paganesimo sentendosi particolarmente violate da una furia ciecamente prevaricatrice allorquando il Serapeo — edificio sacro più rappresentativo, simbolo della città e rilevante luogo di pellegrinaggio, eretto a partire da terzo secolo a.C. in onore alla divinità greco-egizia Serapide — venne smantellato pietra dopo pietra, sulle sue rovine edificandosi una chiesa dedicata a San Giovanni Battista (I sec. a.C. – 29/32 d.C.) e trovando distruzione anche la biblioteca annessa, in un sol colpo irreversibilmente svilendosi dogma e patrimonio di conoscenze, nel tal gesto i cristiani raggiungendo l’apice della persecuzione contro i loro avversari ideologici.
Nel catastrofico clima venutosi a creare, Ipazia irruppe con la potenza della parola che non si ridusse a mera trasmissione nozionistica, bensì assumendo un significato politico ben preciso a sostegno dell’antiche credenze dell’alta società civile della qual’ella faceva parte, mirabilmente irremovibile ed impavidamente risoluta nel farsi scrigno vivente del classico patrimonio dottrinale a quell’epoca fortemente minato ed al suo cospetto fascinosamente calamitando eminenti studiosi che da più parti giunsero nell’intenzione d’ascoltare colei che — come ne asserì il filosofo bizantino Damascio (450-532), «di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene attraverso le scienze matematiche a cui era stata introdotta da lui ma, non senza altezza d’animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche. La donna, gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo […] Era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene. Infatti, se lo stato reale della filosofia era in completa rovina, invece il suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno di ammirazione per coloro che amministravano gli affari più importanti del governo».
A distanza d’un abbondante decennio dal primo decreto teodosiano, nel 412, Cirillo di Alessandria (ca.370-444) succedette allo zio Teofilo in seguito alla morte di quest’ultimo, sull’immediato trovandosi implicato nell’intricatissime diatribe cristologiche in atto, tuttavia in breve tempo risultando di gran lunga più potente del predecessore, in tal modo inserendosi a gamba tesa nelle questioni politiche e, nel cocciutamente impuntarsi e strenua ed eccessiva difesa dell’ortodossia cristiana, sviluppando acute divergenze con il governatore romano dell’Egitto e prefetto d’Alessandria Oreste (?-415) il quale, dal canto suo, tentò in ogni modo di mantenere la propria prerogativa politica scevra da qualsiasi intromissione papale, nel 414 trovandosi sciaguratamente coinvolto in una spiacevole vicenda dai tragici risvolti, ovvero: nel corso d’un adunanza popolare un gruppo d’ebrei denunciò alla di lui autorità il grammatico Ierace — ardente sostenitore di Cirillo – in quanto tacciato d’essere particolarmente attivo nello sparpagliare pubblicamente infervoranti dissapori, al che il seminatore di zizzania venendo incarcerato e sottoposto a tortura, evento a cui seguirono intimidazioni del vescovo alla comunità ebraica, quest’ultima reagendo con ferino massacro di cristiani e pertanto, su ordine del patriarca, gli ebrei cacciati in massa dalla città, con susseguente demolizione delle sinagoghe e sequestro d’ogni avere.
Di fronte all’immane spopolamento, ad Oreste — che come ne narrò lo storico greco antico, legale della Corte di Costantinopoli e teologo Socrate Scolastico (380/390-439/450), «provò un gran dolore perché una città tanto importante era stata completamente svuotata di esseri umani» — fu impossibile far valere il proprio disappunto con provvedimenti giuridici, in quanto il clero assoggettato esclusivamente a foro ecclesiastico per direttive costituzionali del 384, sulla scia dei sempre più crescenti attriti centinaia di Parabolani — adepti d’una setta ecclesiastica deputata ad opere di misericordia anche a rischio della vita ed inoltre posti ad indefessa salvaguardia del vescovo — adunandosi, sferrando dileggiante attacco verbale al prefetto, durante uno suo spostamento a bordo di un carro, dunque ferendolo con una pietra sul capo il monaco appellato Ammonio, poco dopo l’assalitore accerchiato dagli alessandrini e sottoposto a regolare processo dallo stesso Oreste, da quel momento in avanti la situazione capitombolando esponenzialmente ed anche la minima possibilità di riconciliazione fra lui e Cirillo divenendo chimerico miraggio.
Al di fuori delle rispettive concezioni religiose, fra Oreste e l’Ipazia intercorreva un ottimo rapporto interpersonale in virtù del quale i loro cortesi incontri si svolsero con abituale frequenza, da ciò nelle menti più abiette e guardinghe iniziando a germinare fallace convincimento dell’esser la filosofa il principale ostacolo al mancato rappacificamento tra vescovo e prefetto, di bocca in bocca, di persuasione in certezza, ella gradatamente bollata come causa prima di tal disarmonia fra poteri ed empiamente sagomandosi l’esecrabile idea che fosse lei ad aizzare l’un contro l’altro, disincentivando ogni tentativo di riavvicinamento.
Peggior serpe dell’infamante calunnia non esistendo al mondo, fu sullo strisciar fra l’offuscata mente d’un cristiano e l’altro che la gentildonna, in piena quaresima del marzo 415, venne accerchiata da fanatici, probabilmente — sebben non sia inequivocabilmente certo — Parabolani e, dopo esser stata impietosamente trascinata per le urbane vie, vilmente denudata da codarde, spietate ed ignobili mani, in ultimo linciata per mezzo di cocci ed i barbari assassini, non paghi della sola visione dell’inerme corpo, esternarono la disdicevole bruttura della lor anima nel nefando ed atroce scempio che ne fecero, da Socrate Scolastico così descritto: «un gruppo di cristiani dall’animo surriscaldato, guidati da un predicatore di nome Pietro, si misero d’accordo e si appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l’ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brandelli del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli. Questo procurò non poco biasimo a Cirillo e alla chiesa di Alessandria. Infatti stragi, lotte e azioni simili a queste sono del tutto estranee a coloro che meditano le parole di Cristo», da ulteriore versione dei fatti ad opera di Damascio arguendosi che all’innocente, sventurata ed indifesa anima «mentre ancora respirava appena, le cavarono gli occhi», cupo sipario calando sull’autonomia di pensiero e spesso bavaglio ammutolendone la voce.
Tutte le conoscenze accessibili allo spirito umano, riunite in questa donna, dall’eloquenza incantatrice, ne fecero un fenomeno sorprendente e non tanto per il popolo, che si meraviglia di tutto, quanto per i filosofi stessi, difficili da stupire.
Denis Diderot
Il valore e l’eredità di Ipazia d’Alessandria
Oltre ai già menzionati Socrate Scolastico — contemporaneo d’Ipazia che ne tratteggiò nel saggio Historia Ecclesiastica — ed a Damascio — che ne scrisse tardivamente in Vita di Isidoro — ulteriore e successivo narratore dell’uccisione fu il vescovo copto egiziano Giovanni di Nikiû, Yohannes Madabbar, Hanna al-Mudabbir, Hanna al-Naqyusi (?-680/690), nei tre riferenti storici lievemente variando la descrizione dei fatti in base ai rispettivi convincimenti personali, rispetto alla versioni dei due colleghi, l’inconcepibile delitto parendo alquanto condivisibile fra le righe del suddetto cristiano orientale: «Poi una moltitudine di credenti in Dio si radunò sotto la guida di Pietro il magistrato, un credente in Gesù Cristo perfetto sotto tutti gli aspetti, e si misero alla ricerca della donna pagana che aveva ingannato le persone della città ed il prefetto con i suoi incantesimi. Quando trovarono il luogo dove era, si diressero verso di lei e la trovarono seduta su un’alta sedia. Avendola fatta scendere, la trascinarono e la portarono nella grande chiesa chiamata Caesarion. Questo accadde nei giorni del digiuno. Poi le lacerarono i vestiti e la trascinarono attraverso le strade della città finché lei morì. E la portarono in un luogo chiamato Cinaron, e bruciarono il suo corpo. E tutte le persone circondarono il patriarca Cirillo e lo chiamarono ‘il nuovo Teofilo’ perché aveva distrutto gli ultimi resti dell’idolatria nella città».
L’evidente discrepanza fra la versione considerata “moderata” — plausibilmente la più attendibile ed oggettiva — di Socrate Scolastico e quella tendenzialmente pagana di Damascio, scaturisce quasi certamente dalla volontà o meno d’orientare l’opinione pubblica al ritener Cirillo mandante del vergognoso misfatto, ciò nondimeno la storia non concedendo certezze assolute a riguardo, il patriarca essendo da taluni ritenuto il principale colpevole, da altri completamente estraneo ai fatti ed inconsapevole fino a massacro accaduto, ad ogni modo, comunque sia andata, tanto lui quanto Oreste non di rado dai postumi ritenuti indirettamente responsabili nel non aver saputo — o voluto — preventivamente proteggere in adeguata maniera colei che non fu martire della religione, sebben trucidata da invasati della stessa, ma infelice vittima del conflitto di potere nei cui ingranaggi si trovò suo malgrado sfortunatamente inserita, con prematuro trapasso pagando indebito pegno, acuminato sopruso che graffia ulteriormente l’intimo senso della ragione — da un punto di vista morale ancor prima che giuridico — per ovvi e sacrosanti motivi legati al rispetto che ad ogni uomo e donna dovrebbero esser garantiti ad oltranza, specialmente al soffermarsi sull’imparziale magnanimità della filosofa, mentalmente trasversale nell’aprire le porte della propria abitazione a prescindere dal credo dei propri seguaci, tant’è vero che svariati furono i cristiani suoi adepti, a partir, sol per apportar univoco esempio a conferma di ciò, dal fidatissimo ed affezionato Sinesio, all’incirca nel 408 consacrato da Teofilo vescovo di Tolemaide di Libia, all’epoca sede episcopale della provincia romana, sottoposta al patriarcato di Alessandria e dal diciannovesimo secolo inclusa nelle sedi vescovili titolari della Chiesa cattolica.
Da quel ch’è stato possibile conoscere di Ipazia attraverso annotazioni di chi direttamente la conobbe o ne studiò la storia, riduttivo e parziale, dacché inveritiero, risulterebbe catalogarla senza mezzi termini nella definizione di “pagana”, l’esistenzial concezione a lei innata collimandosi alla tradizionalista idea neoplatonica di Plotino, teoricamente evolutasi in supposto costituito dai tre immortali principi cosmici dell’Uno, dell’Intelletto e dell’Anima, dopotutto non molto distante dalla visione trinitaria cristiana, di conseguenza potendosi azzardar l’ipotesi che la donna si trovasse a metà strada — perlomeno d’apertura mentale discorrendo — fra il paganesimo ed il cristianesimo, l’arcano nodo sciogliendosi sulla di lei illimitata disponibilità alla cognitiva comprensione del mondo in ciascun anfratto, in ascolto a quanto la scienza paventa agli occhi, elargendo a chi l’osserva la possibilità di coglierne il significato reale ed amalgamarne la tangibilità alle leggi del Creato, senza nulla frapporre fra diafano raziocinio ed eterea percezione, l’un correlando all’altra nella meraviglia che s’origina in seno al ragionamento più fine ed elevato, impermeabile al pregiudizio, a ciò aggiungendo quanto l’ateismo fosse totalmente avulso alla filosofa, presumibilmente convinta del sussistere d’una moltitudine di divine ed angeliche entità — come secondo dettami del politeismo ellenico, votiva corrente rivitalizzante l’antica religione greca — quantunque non permettendo che una devozional adesione le divenisse oscurante ed inibitoria limitazione psichica, viceversa in lodevole naturalezza spassionatamente relazionandosi con l’irrefutabile valore della diversità di pensiero.
Da alcuni chiosatori da reputare come antesignana della scienza sperimentale, all’opposto da altri stimata nell’indubbio acume, benché da tener presente al pari di quello d’altre studiose a lei temporalmente antecedenti, il granitico e resiliente valore umano, storico e scientifico d’Ipazia, indissolubilmente avvinghiato alla reminiscenza che n’abbraccia nomea, è forse il vulcanico riecheggiar dell’arco vitale ch’ella percorse in galoppo a svincolato anticonformismo, a partir dall’abbigliarsi del tribon, corto e grezzo mantello — solitamente indossato da filosofi di genere maschile — sotto il qual rimbombava un battito puro e gagliardo, palpito da cui vennero affascinati, a lei polarizzandosi con l’attrattiva di magneti dagli opposti poli, fiumane di smaniosi indottrinati ed in quell’animo schietto ed autentico riversandosi sterminato affetto e stima, sconfinati in Sinesio, la cui appassionata penna in ottantunesima epistola le riservò pensiero, amorevolmente eccelso: «Credimi, io ti considero, insieme alla virtù, l’unico bene di cui nessuno mi può privare».
Senza nulla togliere a qualunque scienziata si fosse precedentemente distinta ad equivalente livello, fu nell’erompere dei vari inchiostri che ne raccontarono l’infausto destino che Ipazia raggiunse una popolarità ancor sentitamente roboante, a partire dal noto romanzo — stampato nel 1720 — del filosofo e scrittore irlandese John Toland (1670-1722), al titolo Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero, per giungere, attraverso miriadi di libri, alle pagine più recenti in memoria e ricerca di colei il cui pathos non conobbe intoppi al sorseggiar cultura, al farla propria ed all’effonderla con munifica generosità, da ciascun lembo di carne bestialmente divelto, levandosi un incommensurabile grido di libertà — sovrumano e senza fine — udibile ogni qualvolta la si onori di soave e meditata riflessione, in speranzoso auspicio che possa esservi, chissà, un tanto desiato giorno in cui a nessuno venga impedito pensare, parlare ed agire esprimendosi in appagante, esclusiva, totale ed incondizionata fede a se stesso, affinché nessun rammarico possa inficiar la solenne beltà del placido vivere e, forse, proprio nell’eco delle vicissitudini d’Ipazia potendo riproporsi al comune sdegno — in lei accucciate come piccole matrioske in grembo alla madre — le immonde vessazioni subite da qualsivoglia donna intrepidamente vissuta e per tal ragione annientata.
Ipazia, se anche nell’Ade oblio avvolgesse la precedente vita, pure là mi ricorderò di te.Sinesio (370-413), Ep. 124, cit. Omero, Iliade, II, 495, ca. 401
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