Edward Hopper, il pittore della luce e dei silenzi dell’animo
Fu nella piccola Nyack, cittadina adagiata sul fiume Hudson, pochi chilometri a sud est di New York, che il 22 luglio del 1882 i polmoni d’una piccola creatura s’aprirono in natal pianto sul mondo, deliziando animo ed udito dei genitori Elizabeth (Griffiths Smith) e Garret Henry, per la seconda volta donanti il miracolo della vita, due anni prima teneramente soffiato nella sorella Marion, poi nel neoaccolto Edward Hopper.
Elizabeth e Garret, di famiglia appartenente alla piccola borghesia angloamericana, lei nipote del fondatore della chiesa battista del luogo, unitamente conducevano attività lavorativa in un piccolo negozio di tessuti fra le cui mura, l’indole d’un Edward appena quinquenne si manifestò nella di lui precoce predisposizione al disegno, interesse a cui i genitori fornirono preziosi stimoli nello spronarlo allo sfogliar d’artistiche riviste.
Tredicenne, dalla mano del piccolo Hopper fuoriuscì un primo dipinto in cui ebbe a concretizzarsi in colore ciò che lo avrebbe profondamente attratto, ovvero l’ambiente navale ed i vascelli nel lor potente e fluttuante solcar l’onde, innato movimento di setole che, un lustro dipoi, lo portò a varcar ingresso della New York School of Art, il college all’epoca sotto direzione di William Merrit Chase (1849-1916), pittore impressionista statunitense, figlio di un negoziante dell’Indiana, nonché insegnante dalle mirabili doti didattiche, che al ventesimo anno d’età aveva lasciato la patria natale per frequentare la National Academy of Design di New York e perfezionato la sua formazione in suolo europeo.
Camaleontico collaudatore di differenti tecniche e svariati materiali, da miscelare ad eterogeneità di soggetti, Chase, per una decade direttore dell’American Society of Artists, alla dipartita dell’amico John Henry Twachtman, lo sostituì come membro nell’associazione dei Ten Americans Painters, i dieci pittori americani (Julian Alder Weir, Robert Lewis Reid, Childe Hassam, John Henry Twachtman – sostituito da Chase – Frank Weston Benson, Willard Leroy Metcalf, Joseph Decamp, Edward Emerson Simmons, Edmund Charles Tarbell, Thomas Wilmer Dewing) che, sul finire dell’Ottocento, si dimisero dall’American Society of Artist in aperta contrapposizione all’eccessiva commercializzazione delle opere in mostra, organizzando per un ventennio le loro esposizioni come indiscussi rappresentanti dell’impressionismo americano.
Per Hopper, l’incontro con Chase fu decisivo e stimolante incitamento allo studio, una prima fase di pittorica maturazione coltivata in un contesto formativo di seria concretezza.
Ulteriore e significativo intersecarsi di percorso fu per Edward la conoscenza con il pittore Robert Henri (1865-1929), in arte Robert Henry Cozad, giovane i cui studi avvennero fra i banchi della Pennsylvania Academy of the Fine Arts di Philadelphia, dove primo avvicinamento alla tecnica pittorica en plein air, ovvero il dipingere all’aperto per cogliere ogni carezza di luce sui dettagli, ne acchiappò indole artistica da sfumare sulla sua intera esistenza, vissuta in un crescente rifiuto di modelli prettamente accademici, a favor d’una genuina osservazione della realtà che permettesse di riportare a tela le proprie emozioni.
Sensorialmente folgorato dalla seduzione del mondo reale che magicamente si dona agli sguardi, da lui bevuto con gli occhi e risputato, a colpi di copiose e frizzanti pennellate di colore, fra paesaggi e ritratti, fu in Henry profonda convinzione dover esser l’artista colui in grado di partorire a pennello un’assimilazione dell’ambiente circostante in cui il vedere fosse intriso di sentire, in una sorta di riproporsi al di fuori di se stessi, non assoggettandosi dunque alla sola percezione visiva, ma fondendo cuore fra il vernicio, pena, la banalità d’un dipinto semplicemente fotografato.
Concezione pittorica che lo rese figura di spicco dell’Ashcan School, movimento statunitense d’inizio Novecento in cui il ritrarre scene di vita quotidiana, specialmente in quartieri cittadini dove la pressione dell’indigenza sfibrava l’umana dignità, fu il central perno della tal corrente artistica, simbolica rappresentazione della ribellione politica dell’epoca.
Periodo ed ambito, questi, nel quale appaiono i primi autoritratti di Hopper, eviscerati su un’oscurità di fondo in cui le pennellate sovrapposte abbozzano un primo tentativo di pittorico gioco nel rapporto fra luci ed ombre, sulla tela, sull’ego.
Rapito fra simbolismo ed impressionismo durante un viaggio a Parigi, in cui appuntamento imprescindibile fu il Louvre, Edward, in successive tappe in quel della Tour Eiffel, avrebbe carpito dalla Senna il potente e fluvial richiamo al suo amor per le imbarcazioni che, nel solcarne le francesi acque, illuminazione furono ai suoi dipinti in parigino loco; sua ispirazione prima, nella patria della settencesca Rivoluzione, furono le strade ed i tesori che le stesse donavano nella quotidianità dell’esistere, motivo per cui egli le preferì alla frequentazione dell’École des Beaux Arts o di atelier similari.
Fin al quarantatreesimo anno d’età, si mantenne temporaneamente in americana terra lavorando come illustratore, mansione a lui non troppo congeniale, ma svolta nell’ottica di nuovi lidi verso i quali tendere lo sguardo, fedele alle proprie inclinazioni, nel frattempo visitando Londra, Berlino, Bruxelles ed accostando nel suo puzzle interiore numerosi tasselli esteri, preziosi al futuro delinearsi del proprio intero.
Passo errante nell’Europa in cui fauvismo, cubismo ed astrattismo affermavano gradualmente la peculiarità dei propri stili, è l’Hopper non ancora trentenne a plasmare la propria pittura su di sé, partendo da piccoli quadri in cui cupezza di tonalità raffigurava disagevoli e limitati spazi come sottoponti, piccoli viottoli, cortili, fin a giungere ad un tratto meno marcato e raffigurante spazi aperti più ampi, spesso fluviali, in cui l’interesse per la modalità di porsi dei raggi solari sugli edifici iniziò a ribollire il suo animo d’artista della luce.
Quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa.
La fragilità dell’amore
Stabilitosi definitivamente negli Stati Uniti, l’esposizione dei dipinti parigini di Edward Hopper non ottenne il successo sperato, ciò non sfregiò in alcun modo il suo smisurato amore per la Francia, assorbita ed indissolubilmente legata al proprio essere nella di lei lingua, imparata alla perfezione, arte e letteratura, dalla seducente scrittura di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, dalla densa socialità della folla e dei suoi caffè, ch’egli prediligeva di gran lunga all’imponenza della ferrea e simbolica torre rivolta al cielo. Tuttavia, definitiva residenza in patria natia lo condusse ad uno stile pittorico più “americano”, posando lente e spirito nella rappresentazione della quotidianità a lui cara, in particolar modo raffigurando edifici newyorkesi e paesaggi, nella costante ricerca del posarsi della luminosità sugli stessi.
Occasion di richiamo alla nostalgica atmosfera europea, fu l’innata passione per le vele nel loro amoreggiar fra onde e vento, nel soggetto di Sailing, una barca a vela nel mare, opera venduta nel 1913 all’Armory Show, mostra con la quale proporre all’americano pubblico innovazioni stilistiche oltre confine; vendita due anni dopo la quale, Hopper si concesse uno stand by al fine di dedicarsi ad opere d’incisione, fra puntesecche ed acqueforti, saggiando una tecnica ch’egli ritenne arricchente il suo stile e ricevendo numerosi elogi e premi a riguardo, fra cui quello della rinomata National Academy Of Design.
Contemporaneo alla fama che gli giunse dall’esposizione di acquerelli nella galleria di Frank Rehn, a Gloucester, nel 1924, fu il matrimonio con Josephine Verstille Nivision (1883-1968), denominata Jo Hopper, pittrice statunitense ella stessa allieva di Robert Henri ed unica modella femminile alla quale i dipinti del neosposo si sarebbero ispirati.
Rapporto amoroso non privo di rinunce, per la donna, privata d’un’ala dal non poter dar fiato alle proprie inclinazioni e rassegnatamente smarrita nell’identità dall’abbandono della propria carriera, trasformatasi a chimera avvolta nell’ombra in cui perì una parte intima di se stessa, nel sacrificarsi al successo di Edward, peraltro mai gratificante nei confronti dei di lei quadri. Costrizione di non facile elaborazione, al di là del fatto che il costringersi a non tender verso ciò che si vorrebbe essere sia di per sé catena sull’animo a priori, per Josephine, essendo lei figlia d’un musicista, ma soprattutto, d’una madre il cui spirito in completa libertà seppe interiormente tesserle capacità di respirare la vita a pieni polmoni, seguendo la propria indole.
Dopo una gioiosa, seppur a tratti frenetica, infanzia, l’iscrizione post diploma all’New York School of Art fu per lei tuffo nell’oceano di sogni a lungo navigati e prossimi all’approdo che, non fosse stato per un matrimonio in cui il risvolto di realizzazione fu a senso unico, naufragando il reciproco diritto ad affermarsi, differente porto avrebbero raggiunto.
Appassionata viaggiatrice fattasi spugna con sete di sapere nelle sue tappe europee, talento, frequentazione d’artisti ed una prima mostra collettiva nel 1914 ne germinarono una popolarità destinata a crescere e per la quale, otto anni dopo, già espose il suo tratto alla New Gallery accanto a Magritte, Picasso e Modigliani, vicina all’affermarsi d’una fama da lei meritata, poi bruscamente arrestata dall’unione con Edward che, conosciuto un anno prima del matrimonio, ne soffocò ogni parte viva, isolandola dalle amicizie e relegandola al semplice ruolo di musa ispiratrice, tediata ed ammutolita dalla stessa arte che amava, fra ingrate gelosie ed inconcepibile incapacità, da parte di Hopper, di lodarne i dipinti, probabilmente in timor di confronto.
Sicché eccola, la “sua” Jo.
Eccola apparire in ogni donna, in ogni movenza, in ogni dettaglio fisico appartenete ai femminei soggetti dei dipinti di Hopper, ella stessa protagonista nell’ombra, nascosta fra le pieghe della pelle e posture or d’una donna in riflessione or sola davanti ad una tazzina di caffè o ancor seduta su un letto, una donna nelle donne, scomparsa fra la magia delle sensazioni dai dipinti magistralmente evocata ed il silenzio che il non esser stata la donna ch’avrebbe voluto le si fece chiassoso grido di rimpianto dentro.
Subitanee e frequenti le discussioni a riguardo, sullo sfondo d’una celebrità, per Edward, in ascesa, annoverandolo nel tempo come il pittore realista per antonomasia della realtà americana, una fama cui significativo seme sbocciò esponendo al Brooklyn Museum, che in seguito acquistò una sua opera, mostra alla quale egli aveva potuto partecipare in quanto la futura moglie, precedentemente invitata ad esporre, propose appunto agli organizzatori di convocare anche, l’allora ancor solamente amico, Edward Hopper.
Dal 1925 in avanti lodi e riconoscimenti iniziarono ad omaggiare la carriera di Edward ed alcune delle sue opere vennero acquistate dal Whitney Museum e dal Metropolitan Museum per migliaia di dollari, cifre ben distanti dai 250$ ricavati dalla vendita di Sailing e che permisero alla coppia d’acquistare, nel 1934, un terreno a Truro, comune del Massachusetts, nella penisola di Cape Code, ove i coniugi disegnarono una villetta la cui costruzione si fece residenza estiva per gli anni a seguire.
Panorama sulla baia a disposizione dei loro sguardi, manti collinari inevitabilmente fecero capolino dal pennello di Hopper, mentre, parallelamente, la moglie affidava la cromatura delle proprie malinconie all’ondeggiare del marino orizzonte.
Dopo un vita trascorsa a cavallo d’indole, fra ombre e luci, tratteggiate da setole fra carne e tela, Edward Hopper calò definitivo sipario su palpebre e pensieri il 15 maggio del 1967, nel suo studio di New York, all’ottantaquattresimo anno di vita.
A soli dieci mesi di distanza, all’età di ottantatré anni, lo seguì la moglie Josephine, calando ella stessa il medesimo sipario sulla sua vita, nella di lui ombra.
Un affezionato amico di studi, l’americano pittore, educatore e critico d’arte Guy Pène du Bois, lo descrisse nella fine maniera che solo agli amici più cari è dato di possedere, verbalmente tratteggiandone la fisicità, il talento, le qualità, le ombre caratteriali, riconoscendone ed omaggiandone la mirabile fame artistica e, quasi fraternamente, augurandogli d’esser felice, forse attraverso l’amore, seppur dubbioso su quale avrebbe potuto essere la donna capace di stargli accanto:
«E. Hopper è un mio alto, magro amico che ha iniziato con l’illustrazione qualche anno fa e continua tuttora. Lo sto vedendo poco al momento.
È un lettore vorace. Si è letto tutta la produzione francese moderna, molto della russa, molto della tedesca. Ama l’abile dissezione della specie umana.
Odia l’amore?
Lui stesso è timido come uno studentello inglese. Alto e col viso scavato, muscoli masticatori prominenti, denti forti, bocca grossa, labbra carnose ma non sensuali.
È freddo nei suoi dipinti.
Blocca fuori le cose.
Non si prende quasi nessuna libertà nella manipolazione.
Porta avanti il suo piano.
Pensa allo spazio.
Non si avvantaggia di nessuna casualità.
Figure statiche.
Ama il romanticismo delle uniformi.
Era il migliore della nostra scuola ma, al momento, non è un artista. Non è libero abbastanza per esserlo. Troppo riserbo anglosassone, e la cosa non gli piace per niente.
In effetti ama la libertà dei latini.
Dovrebbe essere sposato.
Ma non riesco a immaginare a che tipo di donna.
La fame di quell’uomo.
Mi fa sempre venire voglia di far inciampare una frase dopo l’altra incautamente.
Non è affatto tedioso anche se mi fa sentire come una carta o una farfalla pazza – una delle due o anche entrambe.
Quanta sincerità.
Ma la sua fame, la sua fame!
Mi piacerebbe vederlo uscire dalla sua condizione attuale.
Mi piacerebbe vederlo felice.»
Edward Hopper, tra intimità e realtà
Definire la pittura di Edward Hopper da un esclusivo punto di vista tecnico, sarebbe riduttivo quanto ingrato nei confronti d’un artista che, al di là degli aspetti caratteriali che negativamente s’insinuano nelle fragilità di qualsiasi essere umano, ha saputo cogliere, comprendere ed amalgamare la solitudine nelle sue mille sfaccettature sociali, riproponendola con acuta riflessione in qualsiasi dipinto da lui forgiato.
La sua maestosità pittorica, si è fatta attenta e zelante ricerca, osservazione ed elaborazione dell’eremo a cui son costrette persone emarginate e non solo, arrivando a carpire il senso d’isolamento comune alla quotidianità d’ogni individuo, riuscendo perfino a trasmettere la medesima sensazione nel dipingere luoghi naturali in cui la percezione dell’abbandono fuoriesce dal raffigurato in urlante grido di recesso, quasi a voler srotolare l’universalità dei sentimenti fra l’uomo e la società che ne accoglie le esistenze, riuscendo a far parlare il silenzio.
Seppur l’insofferenza all’esser classificato l’abbia portato più volte a dichiarare non esser la solitudine il perno centrale dei propri tinteggi, è inevitabile non percepirne sulla pelle il turbamento, quasi come se un silente linguaggio recondito, all’osservar delle sue opere, si facesse strada fra le emozioni, conducendo il pensiero a profondità di riflessione.
E questo non semplicemente perché, spesso, i soggetti raffigurati, anche quando non soli, appaiono come pervasi da immane incomunicabilità, bensì perché le posture degli stessi, gli atteggiamenti suggeriti, le espressioni facciali e le serietà di fondo, trasmettono lieve malinconia, nella medesima maniera in cui i luoghi scelti ed i giochi di luce in cui sono avvolti esplodono un grigiore di fondo in cui tutto appare coeso, forse nella stereotipia dell’individuo americano la cui patria, dopo la crisi del 1929, aveva levato maschera, scivolando il grande sogno americano nella disillusione d’un intero popolo.
Ed il primo a smascherarsi, forse, fu proprio Edward tramite le sue setole, attraverso pennellate sincere, riflessive, oneste, narranti di una società con la cui vulnerabilità dovette scendere a patti, nella consapevolezza di dover levar gagliardia alle proprie aspirazioni, avvicinando i traguardi in un’epoca storica dove chimerico alone si fece macchia sui desideri.
Ecco allora che il suo posar accento sulla mera quotidianità è potente sagacia visiva, un coglier concretezza dall’ambiente esterno, relazionandosi con esso e donandone contorno fra intimità e realtà, in un relazionale gioco fra il percepire ed il riproporre quanto assimilato a bordo strada.
Il mio scopo in pittura è sempre quello di usare la natura come mezzo, per cercare di fissare sulla tela le mie reazioni più intime di fronte al soggetto, così come mi appare quando lo amo di più: quando il mio interesse e il mio modo di vedere riescono a dare unità alle cose.
La desolazione di Hopper pervade ogni soggetto, ogni edificio, ogni vegetale, temporalmente riproposti e riallineati sulla sua personale filosofia di vita, sapientemente dosando immobilità in ogni figura, meticolosamente calcolando ogni spazio e facendo della distanza fisica una distanza mentale all’interno dell’incomunicabilità propria ad ogni suo personaggio.
Sguardi e finestre son predilezione d’oggetto, gli uni rivolti alle altre in perenne lanciarsi al di fuori di sé, nel mondo, sulla scia d’un’incessante pensare e rimuginare fra il concreto e l’astratto, fra l’essere ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra fisicità e spiritualità.
La brillantezza dei colori non impedisce alla freddezza sensoriale di far capolino nell’emblematico rapporto di luci ed ombre ad Hopper tanto caro, parrebbe il calore sciogliersi e scomparire al di là della cornice, perso in chissà quale meandro mentale e, forse, più a portata di mano più di quanto si creda, cavalcando un irreale atmosfera che, allo stesso tempo, sa catturare e gettare ad interno dipinto, dipinga egli una casa, un paesaggio o un persona.
Ecco dunque che osservando The Nighthawks se ne possono udire i silenzi, quasi che una musica di sottofondo ne dia risalto, in una qualunque giornata che nella notte getta il suo terminare oppure quella donna in Automat, che parrebbe sciogliere in un tazzina di caffè l’inutile attesa di chi mai verrà. E ancora l’arrendevole posa della donna accovacciata a bordo letto di Summer Interior, nella sommessa disillusione così simile alla femminea figura che il letto lo siede, in Hotel Room.
Storie. O sensazioni. Forse specchi, le sue opere, cromatici imput attraverso i quali giungere ad interpretarsi attraverso le altrui setole, quasi che i quadri di Edward concedano il privilegio di potersi inserir nella scena e portare a casa un pezzo di sé, una nuova conoscenza tutta da scoprire.
La solitudine è anche libertà, in fondo, sebbene stato d’animo che incute cotanto timore al punto da desiderar di non volercisi trovare mai, ma che, alla fine, necessità primordiale diviene nell’ottica d’un percorso d’autoanalisi che a profonda lettura di sé possa giungere, concedendo il primo passo alla rinascita.
Può esser dunque che Hopper, attraverso i suoi dipinti, offra la possibilità di rivalutare la fisicità partendo, solo ed esclusivamente dall’ascolto del proprio essere, nella consapevolezza che, come in un bar notturno, ci si possa sentire soli anche con una persona accanto, come del resto fu del suo rapporto con Josephine, unione in cui le due anime, seppur unite in matrimonio, non avrebbero potuto essere più distanti.
Frammenti di vita.
Potere della quotidianità che Edward ha portato a galla, donando immenso valore agli stati d’animo, al loro diritto ad aver significato, presi così, uno ad uno, ed immortalati come piccole eruzioni a cui il pittore è stato in grado di porre ascolto a bordo cratere, lì dove nessuno ha piacere d’avvicinarsi. In fondo ogni individuo porta piccoli vulcani dentro di sé ed Hopper ne ha dipinti alcuni con la stessa lava per la quale ha provato empatia, oltre visione.
Non dipingo quello che vedo, ma quello che provo.
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