Viaggio sul treno della Musica (cap.3)
And I did not know her name
But I sure loved the way
That she laughed and called me Honey
Silver train is comin’
Think I’m gonna get on now, oh, yeah
Silver train is comin’
Think I’m gonna get on board, oh, yeah
Oh, yeah
Urlata dal palco, su pressante ed entusiasta richiesta del pubblico, alla seconda tappa del 14 On Fire Tour e dopo che i Rolling Stones non la esibivano in live da 41 anni, Silver Train, appartenente all’album Goats head soup, 1973, la cui registrazione iniziò tre anni prima nelle sessioni di Sticky Fingers e lato B in rovescio al singolo Angie, origina dalla sua argentata sfumatura di vocabolo almeno tre interpretazioni, ossia la metallica composizione del piccolo cucchiaio utilizzato in fase di preparazione di sostanza stupefacente, la meno fantasiosa tonalità della locomotiva, tipica dell’epoca, a bordo della quale immaginare amoroso sentimento d’una donna o, ancora, femminea figura affibbiar ruolo lavorativo in ambito di prostituzione.
Poco importa quale sia il reale significato del testo, qualor se ne voglia assorbire il suono in esaltazione di slide e ponendo accento sul quarantennale riaggancio del pezzo di Mick Taylor, chitarrista che lasciò la band nel 1974, in rotta con Jagger e Richards e sostituito nel 1975 da Ron Wood; occasion dunque di musical rimpatriata, l’ascoltarne la riproposta d’un brano ch’egli ebbe a sviluppare su sei corde nell’ultima esibizione live di quattro decadi antecedenti ed il suggellarne la ritrovata armonia di gruppo a suon di plettro. Che si parli dunque di droga, sesso od amore, risulta irrilevante nel momento in cui il ripescaggio d’una canzone che, seppur non fra le più conosciute, resti pietra mnemonica nei fan più accaniti, sulla quale sciogliere emozioni e ricordi, ridoni alla musica il suo senso primo, ossia la possibilità, come nella poesia, d’attribuire un significato personalmente soggettivo ad ogni vocabolo, nella variabilità interpretativa che in qualsiasi arte si fa ricchezza e libertà di pensiero. Ecco dunque che se la mancata conoscenza del nome d’una compagna di viaggio non divien paranoia mentale che leda la possibilità d’amar comunque, sciogliendosi in un suo sorriso nel sentirsi per lei come miele, l’abbandonarsi oltre limite dona al treno d’argento il potere primo dello stimolo a proseguire, oh, sì, bramandone nell’arrivo la salita a bordo.
Sarà sulla loro cover della struggente Love In Vain di Robert Johnson, che Michael Philip ‘Mick’ Jagger, Keith Richards, Ronald David ‘Ronnie’ Wood e Charles Robert ‘Charlie’ Watts, nell’album Let it Bleed del 1969, fonderanno voce e strumento alla struggente e frustrante devastazione emozionale d’un amore provato invano, i cui pezzi se ne partono infranti fra una valigia ed un binario. Lo stesso Johnson, nel porne accento melodico, s’ispirò a suo tempo a In The Evenin’ When The Sun Goes Down dell’estimato pianista e cantante blues Leroy Carr, in cui egli pose ammirazione e stima estreme. Love In Vain è eseguita in concerto dagli Stones nei tour del 1969 e 1972 e ripubblicata nei live album Get Yer Ya-Ya’s Out! e Stripped.
Quattro giovani britannici dall’animo rock che, nell’assorbire e rimiscelare in musica il malcontento giovanile, donandone voce, resuscitarono il tormentato spirito dei portentosi bluesman del passato, ad un brano dei quali, Rollin’ Stone di Muddy Waters, essi stessi rubarono il titolo, arricchendolo d’un paio di consonanti prima di porselo in capo, rotolando in esso quasi mezzo secolo di carriera artistica, tuttora all’attivo.
Gonna be, he gonna be a rollin’ stone,
Sure ‘nough, he’s a rollin’ stone
Sure ‘nough, he’s a rollin’ stone
Lasciate che vi spieghi una cosa sul fatto di suonare la chitarra. Ognuno ha il proprio carattere, e questa è la cosa che mi ha stupito fin dal giorno in cui ho iniziato a suonare. L’approccio di ognuno a ciò che viene fuori dal far vibrare le sei corde è diverso da ogni altra persona, ed è tutto valido.
Jimmy Page, Led Zeppelin
Amore assoluto e riflessione, donano ritmata sferzata alla classica immagine allegorica del treno in partenza sugli addii, impazzando sulle marcate note di Long Train Running, meditativo sputo d’inchiostro di Charles Thomas ‘Tom’ Johnson, cantautore, musicista e chitarrista statunitense, frontman dei The Doobie Brothers, gruppo rock, a componente blues-funky, fondato nel 1969 dallo stesso Johnson e dal batterista John Hartman, in futura aggregazione al bassista Dave Shogren ed al chitarrista, cantante e compositore Patrick ‘Pat’ Simmons.
Inserita in primis nel terzo album, The Captain And Me del 1973, il brano fu corda alla quale aggrapparsi in uscita dall’originalità musicale che fino ad allora tenne la band in galleggiante stand by, acchiappandone, su perspicace consiglio del produttore discografico Ted Templeman, una preesistente versione strumentale utilizzata come struttura armonica semplice sulla quale improvvisare durante i concerti in costellazione d’interminabili assoli, tipica modalità importata dal blues e dal jazz ed in voga nei gruppi del periodo. Cavalcando la filosofica tendenza dei brani dell’epoca, fu lo stesso Ted a spronarne testo, abbreviato nella durata, che fosse di cogitabonda ed accattivante forma, originandone, nella fusione fra saggio pensiero e ritmo incalzante, una perla musicale di leggendaria manifattura artistica.
Giù dietro l’angolo, a mezzo miglio da qui
Guardali correre lunghi treni, e li guardi sparire
Senza amore, dove saresti ora
Senza amore…
La locomotiva dei Doobies si fa metaforica altalena esistenziale, sul dondolio della quale adagiarsi nella convinzione che senza Amore nulla abbia ragion d’esistere, nel complesso evolversi dei vissuti in cui, fra una partenza ed un arrivo, s’allegorizzino scelte di vita e ricami di sentimento da rammendarsi senza fine. È nella simbologia del viaggio su rotaia che la train song di Johnson si racconta nella fugacità della vita in costretta direzione, traslando il ruolo stesso del treno da protagonista assoluto a comparsa, sullo sfondo d’una riflessione senza tempo e senza limiti ove l’unica possibilità di deragliamento, sensato e necessario, non possa che essere l’amare nella sua forma più pura.
Una road song che ad incalzanti colpi di chitarra e voce si fa life song, attraverso un’interpretazione cantoria di sublime livello artistico e ad impatto emotivo da sussulto.
Il soffio ad armonica di Tom sbigottisce e divora l’anima fra brivido di pelle e sobbalzo di battito, in animoso trasalimento di viscera che arriva al petto nel posar guardo sulla di lui mirabolante capacità d’amoreggiar con la propria armonica, sugli occhi che si chiudono in alzata di sopracciglia negli acuti in concentrazione estrema, sul protettivo gesto di mani che ne stringono delicatamente l’acustico corpo forato, in mirabile danza di dita nel loro movimento che al suono donano eco e respiro, baciandosi in euritmica armonia fra lamelle ed ance che originano simbiosi amorosa per antonomasia.
Un ardore che, fra suono e canto, trasmette in tangibile pathos che attanaglia le vene, un Amore che si respira e si assorbe, ma che, sopratutto, va preso ad ogni costo, in tutti i suoi movimenti, forme e sfumature possibili.
Mmm, got to get you, baby baby, won’t you move it down?
Won’t you move it down?
Baby, baby, baby, baby, won’t you move it down?
When the big train run
When the train is movin’ on I got to keep on movin’
Keep on movin’
Won’t you keep on movin’?
Credo che negli anni sessanta ci fosse l’idea che si poteva cambiare il mondo. Questa idea era più importante dell’azione concreta. La sensazione di poter agire era più importante che agire veramente. Oggi è essenzialmente questa idea che manca. Le idee sono una cosa molto potente. Le idee non possono essere uccise.
Bob Dylan
Fu in bollente periodo sessantottino che seduzion di nota e conseguente carriera unirono quattro giovani britannici sotto il nome dei Led Zeppelin i quali, nella dozzina che li portò al 1980, anno di scioglimento della band dopo la morte del batterista, si resero indelebili iniziatori dell’hard rock influenzando, nella prestanza musicale sui generis, numerosi musicisti affini, contemporanei e futuri.
Robert Anthony Plant, cantautore e compositore, autore e voce solista, spesso sfiatata in armonica, percussionista e batterista; estrema acutezza di timbro vocale, in ampia capacità di sfumatura, or delicata or aggressiva, atipica per l’epoca, pertanto audacemente pionieristica.
Quarantottino di nascita, crebbe nel Worcestershire, sotto attento sguardo della famiglia nell’inizialmente timido timor che l’indomabile richiamo alla musica lo allontanasse dagli studi, avendo comunque la stessa riguardo che suddetta disapprovazione non erigesse muri nel rapporto con il figlio, perlomeno fin ch’egli non ebbe a confermare le preoccupazioni genitoriali rincarando le tensioni dopo l’abbandono d’un tirocinio in ambito contabile, spiccando successivamente volo dalle mura domestiche nel suo diciassettesimo anno di vita, sciogliendo inclinazioni a suon di blues ed in congenita arsura di rock and roll, con adorante devozione verso colui che del genere portava corona, Elvis Presley, ‘The King’.
James ‘Jimmy’ Patrick Page, compositore, polistrumentista e musicista dall’eclettica capacità artistica fra le più riconosciute nella storia del rock, nonché uno fra i principali artefici della derivazione hard di genere; chitarrista sideman fra i più richiesti d’Inghilterra, in precedenza membro dei The Yardbirds in successione ad Eric Clapton, trovò collocazione definitiva nei Led.
Ebbe nascita, nel 1944, in suol londinese e mosse dita sulle corde alla sua tredicesima primavera, tre anni prima di abbandonare gli studi a favor d’una completa dedizione alla carriera musicale, muovendo passo verso adolescenziali collaborazioni, tour ed acerbe registrazioni. Lupus in fabula fu un episodio di mononucleosi infettiva, baston fra ruote che lo condusse a ricovero ospedaliero durante il quale, non ancora ventenne, posati gli strumenti, rispolverò personale passione per la pittura, riallacciandosi agli studi al Sutton Art College, ma seduzion di musica lo riportò in breve tempo fra band, ricollocandone piede sul cammino collimante al percorso carrieristico ed esistenziale.
Numerose esperienze alle spalle e rientrato negli Yardbirds, fu con sagace fiuto che Page, dopo abbandono dei componenti, riunì nuova band sulle ceneri degli stessi, investendo sogni a partire dal nuovo nome da porle in capo, suggerito indirettamente da una battuta di Keith Moon, straordinario e compianto batterista degli Who, il quale, saputi dallo stesso Jimmy i nomi dei musicisti che avrebbe chiamato a sé nella nuova avventura, esteriorizzò perplessità ribattendo che con quella formazione, sarebbero precipitati come un dirigibile di piombo — «With that lineup, you’ll go down like a lead zeppelin» — plumbea metafora alla quale, levata una vocale per facilità di pronuncia, seguì volo musicale di fama planetaria.
John Baldwin, alias John Paul Jones, compositore, una ventina abbondante di strumenti all’abile mano, arrangiatore e session man d’inconfutabile qualità artistica; l’esser figlio di Joe, noto pianista fra gli anni quaranta e cinquanta, ne condusse le dita d’infante a sfiorar tasti di pianoforte fin dal sesto anno d’età e conseguente percorso di studi presso il Blackheath Conservatoire, in speranzosa e stimolante esortazione alla musica, di contrapposta veduta rispetto alle concezioni lavorative familiari del futuro compagno di pentagramma Robert Plant.
Partorito, nel 1946, a Sidcup, Kent, pianisti e personalità di rilievo del jazz e del blues, complice l’attività pianistica paterna che lo condusse precocemente fra note, ne influenzarono i pensieri fin dall’infanzia, fino a validarle ingresso, dopo breve esperienza come organista fra mura ecclesiastiche, nella sua prima band, i The Deltas, appena quindicenne, cucendo primi ricami sulla tela del successo suonando brani per Jet Harris e Tony Meehan, rispettivamente bassista e batterista in uscita dal quartetto rock britannico The Shadows, proseguendo nella carriera di turnista e collaborando con musicisti di spessore, fra cui i Rolling Stones, donando insolito arrangiamento degli archi, volutamente scordati e fuori tempo, alla di loro innovativa e poetica She’s A Rainbow. Sostituzione di Jeff Beck negli New Yardbirds, fu occasion di conoscenza con Pages e salto di trampolino in tuffo di gloria.
John Henry Bonham, soprannominato Bonzo, batterista e percussionista, al cui valente battito di tamburo vibrarono anche bongo, congas e timpani, confluì in personalissimo stile estrosa genialità ed accattivante tecnica al di fuori delle comuni concezioni percussionistiche del periodo, ritagliandosi preclara e meritata memoria nel panorama mondiale.
Nato a Redditch nel Maggio del ‘48, il quinquenne Bonham si dilettò a percuotere bacchette su lattine di caffè, perfezionando la dote di piccolo drummer nel suo primo rullante regalatogli dalla madre al compimento della decade e proseguendo, un lustro più avanti, a tamburellare bacchette sulla Premier Percussion donatagli dal padre accanto al quale, terminati gli studi, lavorò come falegname, alternando serate fra differenti band, in una delle quali strinse amicizia con Robert Plant, allora cantante dei Crawling King Snakes ed inconsapevole compagno futuro di fama. Alla perenne ricerca del proprio sound, zelo e pervicacia ne caratterizzarono l’affinamento della tecnica in maniera quasi morbosa, rendendone il peculiare stile unico ed inimitabile. L’allontanamento dalle amate campagne inglesi e dalla famiglia, conseguenti all’esplosione del successo raggiunto con gli Zeppelin, ne soffocarono il delicato animo negli eccessi, condannandolo a precoce dipartita nel 1980, stesso anno in cui, l’intenso legame fra i componenti della band, portò alla decisione di sciogliere il gruppo in quanto privo di senso nel vuoto venutosi a creare all’interno dello stesso.
Desideriamo rendere noto che la perdita del nostro caro amico
e il profondo senso di rispetto che nutriamo verso la sua famiglia ci hanno portato a decidere, in piena armonia tra noi e il nostro manager, che non possiamo più continuare come eravamo.
Led Zeppelin
Ironia della sorte volle che la Nera Mietitrice falciasse respiro a Keith Moon nel medesimo anno d’età, il trentaduesimo per l’appunto, frenando battiti a due dei più grandi batteristi di tutti i tempi, nel mese di Settembre, a due anni di distanza l’un dall’altro. Uniti nel destino, negli eccessi e nella leggendaria arte di percussione, fattasi rispettiva stima a fil di ritmico rullo. Stessa ammirazione e riguardo non trovarono invece terreno fertile nell’animo del collega di Moon, il chitarrista degli Who, Pete Townshend, da sempre insofferente al quartetto del dirigibile.
Voce di Plant, chitarra di Page, basso e tastiera di Jones e batteria di Bonham, in reciproca e costante fiducia al manager Peter Grant, si fecero magia, melodia di toni, generi e strumenti, treno impazzito sull’onda d’un rock a radici blues, svecchiato nel suono, tratteggiato di folk, rivoluzionato nella tecnica ed inferocito nei sonori, fra energici acuti e sciabolate elettriche da cardiopalma, pur non rinunciando a tracce di romanticismo.
Sanguigna locomotiva che in Night Flight sbuffa fischio di rassegnazione e tristezza, nel desiderio d’un ragazzo di non adempiere al dovere militare, bramosa chimera che inconsapevolmente divien messaggio di libertà e pace, soffocato in gola e rinato in musica sullo sfondo d’una concezione di pensiero che si eriga a muro nei confronti delle imposizioni dei poteri forti e delle loro politiche, invalidanti l’individuo nell’imbavagliarne la voce, limandone il potere decisionale e ledendone il benessere psicofisico. Un raccogliere speranze ch’egli immagina racchiuse nel misero spazio d’una scatola di fiammiferi, ove l’addio agli amici infiamma il cuore come se sfregasse sullo zolfo, nel timore di una partenza a bordo treno, metafora bellica, che mai si ferma ed il cui biglietto potrebbe avere un prezzo molto alto, ossia la vita stessa. A mezzo testo, l’esclamazione Oh Mamma esplode i ventricoli, concreto e disperato sussurrar che si fa strada nel petto dividendo carne e pensieri nello strazio più assoluto, in angustia marcia d’esercito che mai allenterà il passo ed in amareggiata consapevolezza d’una guerra che mai avrà fine, se non tramite fischio di campanella che arresti lo sfacelo concedendo via di fuga.
I just jumped a train that never stops
So now somehow I’ll know I never finished payin’ for my ride
Just n’ someone pushed a gun into my hand
Tell me I’m the type of man to fight the fight that I’ll require
Oh yeah, come on, meet me in the morning
Want you meet me in the middle of the night
The morning light is comin’
Don’t it make you want to go and feel alright
Oh, mama, well I think it’s time I’m leavin’
Nothin’ here to make me stay
Whoa, mama, well it must be time I’m goin’
They’re knockin’ down them doors
They’re tryin’ to take me away
Please Mr. Brakeman, won’t you ring your bell
And ring loud and clear
Please Mr. Fireman, won’t you ring your bell
Tell the people they got to fly away from here
Testo scritto quasi esclusivamente da Jones, seppur in collaborazione con Page e Plant, a marcata evidenza ritmica del suono, come si conviene a canzoni partorite dai bassisti, batteria ed organo son spina dorsale del brano, ove non vi è un solo assolo di chitarra, nonostante Page sappia inserir le proprie corde con maestria, senza prevaricare, intrecciandosi fra il riff di Jimmy e le improvvisazioni ed interludi di Bonzo in complementare armonia melodica, sulla quale il canto di Robert si adagia in eufonico benessere vocale.
Scritta nel 1971, Night Flight avrebbe dovuto esser traccia di Led Zeppelin 4, planando invece in Physical Graffiti, album la cui pubblicazione, per coincidenze del destino, avvenne nel 1975, medesimo anno in cui la bestemmia che fu la guerra nel Vietnam mise fine al proprio scempio, dopo 233 mesi di scontri disumani, riprovevoli carneficine, amputazioni di pensiero ed assassinio d’idee, cappio d’animo fra lacrime e sangue d’innocenti giovani in quotidiana agonia, vigliaccamente costretti al barbarico fronte.
La musica è come uno psichiatra.
Tu puoi dire alla tua chitarra cose che non dici alle persone.
E lei vi risponderà nel modo in cui non risponde la gente.
Se succede qualcosa di brutto, tu non vuoi reprimerlo e così lo scarichi su te stesso con una chitarra.
Paul McCartney
La condizion di diritto, in umanistica e civile concezione liberistica in senso lato, intesa come possibilità di manifestare in pace il proprio pensiero, agendo in fede ad esso e rinnegando qualsiasi forma di prevaricazione, si fece voce e messaggio in Robert Allen Zimmerman, Bob Dylan, poeta, scrittore, scultore, pittore e cantore, primo vagito nel 1941 in quel di Duluth e successiva crescita ad Hibbing, città mineraria del Minnesota nella quale Robert trascorse l’infanzia iniziandosi alla musica in appassionato ascolto, via radio, fra blues, country e rock and roll, fino al deciso salto di passione nel folk quando, diciassettenne, l’ascolto in un negozio di un disco della cantante e chitarrista statunitense Odetta, lo spinse all’acquisto d’una chitarra acustica, una Gibson, creando una sorta di legame fra le sue corde e la profondità di sentimento tipica del suddetto genere, spesso miscelata a mestizia e rassegnazione di vissuto.
Animo pacifista per eccellenza, in manifesta ed ardita opposizione alla violenza fra individui, all’assurdità bellica ed al calpestamento dei diritti umani, che nella sua vita difese a tal punto, da ottenerne ufficial riconoscimento, nel 2012, insignito della Medaglia Presidenziale della Libertà.
Allergico a classificazioni che ne tentassero l’associazione ad un unico genere musicale, mosse la sua carriera in nobile cantautorato a passo di gospel, folk, rock and roll e sottogeneri, caricando ogni suo testo di passione sfrenata da sfiatare in messaggi di protesta che cavalcarono le concitazioni del periodo, concretizzandosi a possibilità di sfiato per migliaia di giovani compressi dal sistema, che ne fecero riferimento culturale in convinto spirito di controcultura, miscelando musica e furor di popolo ad anima leggendaria, seppur la vera leggenda, in Dylan, fosse ritenuta l’arte nella sua purezza, senza contraffazioni o secondi fini, minanti l’autenticità della stessa: «Non sono stato io ad autodefinirmi “leggendario”. È stato un appellativo che mi è stato buttato addosso da cronisti che volevano prendersi gioco di me, oppure che volevano avere qualcosa di nuovo da dire ai loro lettori. Ma è una definizione che mi è rimasta incollata addosso. Per me è stato importante arrivare al punto più basso di questa “leggenda” e scoprire che non ha la benché minima base realistica. Quello che conta davvero non è la leggenda, ma l’arte, l’opera. Un individuo ha il dovere di fare quello che è destinato a fare…Se si cerca di inscenare la propria leggenda, non si fa altro che creare dell’artificioso clamore».
Arte che in Dylan divenne storia, disincanto ricamato sui volti delle generazioni disilluse dalle scelte statali americane di quegli anni ove, fra guerra fredda e conflitto bellico del Vietnam, il senso dell’essere uomo ebbe a svanire in polvere da sparo, abbandonando al vento la risposta ad una domanda che, in Blowin’ In The Wind, antiwar-song per eccellenza, si fa tematica esistenziale e speranza, sciolta dallo stesso Bob in malinconia di note e voce, spesso in coppia con l’incantevole e delicata cantautrice, ardente attivista statunitense, Joan Baez, “l’usignolo di Woodstock”, animo affine ai mendicanti, che mosse i suoi primi accordi su un ukulele ricevuto in dono dall’amico del padre. Omaggio alla musica fu la di lei voce in unione a quella di Dylan, un soffio nel vento che si fa or persona, or colomba, or montagna, fra proiettili nello stesso cielo.
How many roads must a man walk down
Before you can call him a man?
Yes, ‘n’ how many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, ‘n’ how many times must the cannonballs fly
Before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind,
The answer is blowin’ in the wind.
How many years can a mountain exist
Before it’s washed to the sea?
Yes, ‘n’ how many years can some people exist
Before they’re allowed to be free?
Yes, ‘n’ how many times can a man turn his head,
Pretending he just doesn’t see?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind,
The answer is blowin’ in the wind
Fulminea virata religiosa di Bob, in convinta conversione al Cristianesimo, nel movimento dei Cristiani Rinati e probabilmente conseguente ad uno sconfortevole sovrapporsi di delusioni matrimoniali e carriereristiche, donò al suo treno pia sfumatura, facendo di Slow Train un clerical brano intriso di fedeltà e misericordia, transitandone vocaboli di spirito devoto, a tratti fanatico, attraverso il quale porsi in attesa dell’arrivo del messaggio divino. Traccia del diciannovesimo album, Slow Train Coming, 1975, primo LP “post conversione”, il disgusto del cantante, di sfumatura puritana nel contenuto, si rivolge alla decadenza dell’animo umano ch’egli percepisce arrogante nell’ego, di principi morali sciolto nell’ingannevolezza delle ricchezze e delle differenze di benessere fra uomini. Consiglio femminile fra versi, in probabile riferimento alla fidanzata del periodo Mary Alice Artes, che lo iniziò al movimento, si fa canto ed invito alla ricerca della felicità al di fuori della materialità.
Sometimes I feel so low-down and disgusted
Can’t help but wonder what’s happenin’ to my companions
Are they lost or are they found
Have they counted the cost it’ll take to bring down
All their earthly principles they’re gonna have to abandon?
There’s a slow, slow train comin’ up around the bend
I had a woman down in Alabama
She was a backwoods girl, but she sure was realistic
She said, “Boy, without a doubt
Have to quit your mess and straighten out
You could die down here, be just another accident statistic”
There’s a slow, slow train comin’ up around the bend
All that foreign oil controlling American soil
Look around you, it’s just bound to make you embarrassed
Sheiks walkin’ around like kings
Wearing fancy jewels and nose rings
Deciding America’s future from Amsterdam and to Paris
And there’s a slow, slow train comin’ up around the bend
Man’s ego is inflated, his laws are outdated, they don’t apply no more
Radicalità di vedute con la quale il chitarrista, leader dei Dire Straits e dichiaratamente ateo, Mark Knopfler, in collaborazione all’album, si relazionò a fatica, riuscendo comunque ad originare un sound che donasse morbidezza ed eleganza alle stesse canzoni, nonostante il dilagante bigottismo di alcuni versi, accompagnati sul palco da manifesti ed integerrimi sermoni che giunsero perfino ad ammonire gli omosessuali, in sconcertante controtendenza al principio di libertà e rispetto professato da Dylan fino a poco tempo prima, ragion per cui numerosi fan, percependone incongruenza e tradimento, svestirono ammirazione nei suoi confronti.
Fu una parentesi che si chiuse ed alla quale lo stesso cantante diede giustificazione asserendo che fosse nella sua sfumatura caratteriale vivere pienamente un’esperienza, seppur provvisoria, facendosi avvolgere da essa in maniera totale. Breve periodo che, in ogni caso, mai riuscirà ad oscurare e gettar nell’oblio la sua impresa più grande, ossia il costante impegno nel far si che a prevalere sopra ogni cosa siano le idee, da lasciar libere fra se stessi ed il mondo, fra concetti ed azioni, fra inclinazioni e note.
La gente vive ancor oggi con le briciole degli anni sessanta.
Sono ancora in circolazione la musica e le idee.
Bob Dylan
Bollente decennio storico in cui la musica si fece pancia in subbuglio di malesseri giovanili, spalla sulla quale vomitarne il disdegno e mano da afferrare per uscire dal fango. Voci. Suoni. Anime. Baldi giovani con un diavolo rivoluzionario per capello da sbudellare in note fra palchi e cieli stellati. Infervorati strumenti che, in Downbound Train di Bruce Springsteen, condurranno il treno al baratro, fra cuore infranto e fatiche lavorative, in acuto eco a vuoto di petto, soffocante nel discendere.
«I feel like I’m a rider on a downbound train…»
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