Paul Klee, il pittore, musicista e poeta chiamato Buddha
«L’arte non riproduce il visibile, ma lo rende visibile»
Queste le parole di Paul Klee, pittore considerato al pari di Kandinskij e Mondrian tra i più influenti dell’astrattismo, nonché protagonista delle avanguardie del primo Novecento. I suoi studi sul colore, pubblicati solo dopo la sua morte con il titolo ‘Bildnerische Form- und Gestaltungslehre’ (Teoria della Forma e della Figurazione), sono ritenuti per l’arte moderna d’importanza medesima che il ‘Trattato sulla Pittura’ di Leonardo da Vinci, ebbe per l’arte rinascimentale.
Influenzato dal cubismo, espressionismo e surrealismo, andò sviluppando un linguaggio espressivo in cui l’astratto e il figurativo s’avvolgevano mai abbandonando quel mondo onirico, che nel 1920 Paul Klee definì ‘realtà virtuale’, scrutando l’oltre più di quanto, forse, potesse consapevolmente fare. In fondò però, egli stesso affermò che durante i tanti anni trascorsi come docente al Bauhaus e poi all’Accademia di Düsseldorf, aveva dovuto spiegare in modo esplicito, ciò che era abituato a fare inconsciamente.
Osservò il suo tempo nelle scoperte scientifiche, esplorò ed interpretò l’universo dell’infanzia e della malattia mentale restituendone l’autenticità attraverso opere intense, delicate ed altrettanto fece con la natura, offrendo favole visive in cui gli animali sono elevati a esseri umani. Artista estremamente versatile, sensibile e dotato di profonda spiritualità, Paul Klee guardava al percettibile come ad una sola delle tante possibilità dell’umana coscienza e conoscenza ed il suo nome non è legato al solo mondo della pittura.
Ernst Paul Klee nacque il 18 dicembre del 1879 a Münchenbuchsee, comune svizzero situato nel circondario di Berna-Altipiano. Era il secondogenito di Ida Marie e Hans Wilhelm, entrambi erano musicisti, si conobbero al Conservatorio di Stoccarda e non poterono quindi che incoraggiare il figlio a seguir la stessa passione. Iniziò a prendere lezioni di violino all’età di 7 anni, scoprendo in breve tempo di possedere un vero e proprio talento, tanto da guadagnarsi invito ad unirsi all’Associazione musicale di Berna, dove con la famiglia si era trasferito nel 1880.
Amava Bach, Beethoven, Mozart e proseguì gli studi fino all’adolescenza, quando si convinse che non era la musica il suo naturale mezzo d’espressione e pur non abbandonandola, rivolse attenzione verso le arti visive. Parallelamente al violino, aveva da sempre coltivato anche interesse per il disegno, un amore scaturito per gioco durante l’infanzia, dopo che la nonna gli fece dono di una scatola di matite colorate. Durante gli anni scolastici eseguiva caricature, paesaggi, quando dipingeva lo faceva anche utilizzando supporti tutt’altro che tradizionali, tra cui tessuti, giornali, cartoni.
Nel 1898, conquistato non senza difficoltà il diploma, riuscì a strappare il permesso dei genitori, nient’affatto propensi, per andar a Monaco di Baviera e studiare all’Accademia di Belle Arti.
Qui ebbe modo d’incontrar artisti come Franz von Stuck, Hermann Haller, Heinrich Knirr, ma paradossalmente, all’attitudine per il disegno non corrispondeva un’altrettanta predisposizione per il colore, tanto che lui stesso più avanti ricorderà di aver pensato che non avrebbe mai imparato a dipingere.
E’ in questo momento che Paul Klee, iniziò a fermare il tempo in quei diari che saranno magnifico esempio di scrittura e dimostrazione di come la sua figura, sia comprensibile solo relazionando i molteplici volti del genio. Prosa e poesia che non solo ne racconteranno l’ascesa, ma diventeranno anche preziosa fonte di sapere circa la sua visione della vita, l’essere indissolubilmente legato all’arte: «Ciò che ora conta non è neppure di dipingere soggetti prematuri, bensì di essere uomo o almeno di diventarlo. L’arte di dominare la vita è la condizione fondamentale di tutte le manifestazioni ulteriori, si tratti poi di pittura, architettura, dramma o musica».
Io sono Dio
Tanta divinità
Si è accumulata in me
Che non posso morire
La mia testa brucia da scoppiare
Uno dei mondi
Che nasconde
Deve nascere
Ma prima di creare
Devo soffrire
_
Cosa fa l’artista?
Crea forme e spazi!
Ma come li crea?
Scegliendo proporzioni…
Oh satira,
pena degli intellettuali
_
Io sono Dio?
Ho accumulato in me tante cose
grandi che la mia testa
arde e si spacca.
Deve contenere un eccesso di forza.
Volete, ma ne siete degni?
Che lei sia partorita per voi?
Anche loro non erano degni
di colui che avevano crocifisso.
Più realisticamente:
il genio vive in una serra, ma
infrangibile e gravida d’idee.
Delirando crolla dopo ogni nascita
e con le mani afferra
chi passa davanti alla finestra.
L’artiglio del demone attacca,
il pugno di ferro spacca.
Altrimenti saresti un modello,
ride tra i denti radi, per me
sei materia per i miei lavori.
Ti spiaccico al muro
di vetro e ci resti appiccicato
magma proiettato…
Poi vengono gli amici dell’arte
e con distacco osservano l’opera sanguinante.
Poi arrivano i fotografi.
arte nuova scrivono sui giornali.
E le riviste specializzate
le danno un nome che finisce in ismo.
_
Io sto all’erta
io non sono qui
io sono nella profondità…
sono lontano…
io sono tanto lontano…
Io ardo con i morti
Tra il 1900 e il 1905, ormai conseguita la laurea, Paul Klee viaggiò per l’Italia toccando Napoli, Roma, Firenze e poi ancora in Francia. Ad impressionarlo sono le opere di Van Gogh, Leonardo ed in quegli stessi anni ad ammaliarlo sono però anche i lavori di William Blake, Paul Cézanne, Francisco Goya, Gustave Klimt.
A questo periodo risalgono la serie di incisioni dal titolo Invenzioni, i quadri eseguiti utilizzando un ago su una superficie di vetro precedentemente affumicata o ricoperta di bitume, una tecnica simile a quella dei cliché-verre e che utilizzerà nel 1906 per il Ritratto di Mio Padre, mentre sul diario appuntava: «Sono discretamente soddisfatto delle mie incisioni, ma così non può continuare perché non sono uno specialista. Ho avuto un attimo di speranza, quando, giorni fa, incidevo su una lastra di vetro affumicata. Uno scherzo su porcellana me ne ha dato l’idea. Dunque il mezzo non è più la linea nera, bensì quella bianca. Il fondo non è luce bensì tenebra; che l’energia abbia la facoltà di rischiarare corrisponde alle leggi della natura. Così mi avvio lentamente verso il nuovo mondo della tonalità».
Paul Klee, la folgorazione per Kairouan
Negli anni a venire continuò a viaggiare in Europa, conobbe artisti come Alexej von Jawlensky, Franz Marc, Vasilij Kandinskij e con loro, come protesta per l’esclusione di un quadro di quest’ultimo da una mostra, diede vita al Der Blaue Reiter, Il Cavaliere Blu, nome derivante dall’amore per i cavalli da parte di Marc e quello per la tonalità di Kandinskij.
Organizzarono varie mostre in Germania e Klee proseguiva con le sue sperimentazioni, ma il momento decisivo per il suo percorso artistico, arrivò nel 1914, quando insieme all’espressionista tedesco August Macke ed il pittore svizzero Louis Moilliet, si recò per un breve soggiorno in Tunisia.
Qui ebbe come l’illuminazione, un’esperienza che si rivelerà tanto significativa per lui, quanto per l’arte moderna: «Una quintessenza da ‘Mille e una Notte’, con il novantanove per cento di realtà. Che aroma, penetrante, inebriante, e che dà chiarezza, a un tempo. Cibo, vero cibo e bevanda stimolante. Inebria e tonifica. Profumo di legna ardente. La patria?». È quanto scrisse di Kairouan, città che Hassan Hosni Abdulwahab, storico tunisino, ebbe a definire «benedetta, gioiello del Maghreb e perla del patrimonio architettonico arabo».
Klee ne rimase estasiato e nei giorni successivi continuò ad appuntare la sua meraviglia e fu allora che dipinse il suo primo quadro puramente astratto, Nello Stile di Kairouan, e ancora nei suoi diari scrisse: «Un senso di conforto penetra profondo in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Quest’è il senso dell’ora felice, il colore ed io siamo tutt’uno. Sono pittore».
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Paul Klee fu chiamato alle armi, tuttavia, questo non gli impedì di continuare a dipingere, difatti, espose in numerose mostre e furono più di ottanta le opere realizzate nei due anni di servizio militare, tra cui il celebre Ab Ovo ed inoltre, prima che per lui arrivasse il giorno del congedo, stese il saggio La Confessione Creatrice, dove si trovano le parole iniziali: «L’arte non riproduce il visibile, ma lo rende visibile», sulle quali costruì le teorie sulla forma ed il colore.
Nel 1920, dopo che l’Accademia d’Arte di Stoccarda si era rifiutata di affidargli una cattedra, fu l’architetto Walter Gropius a volerlo docente al Staatliches Bauhaus, scuola di arte, design e architettura, da lui fondata l’anno precedente a Weimar. L’artista svizzero insegnò qui dal gennaio 1921 al marzo 1931, dirigendo il laboratorio di legatoria, poi occupandosi del laboratorio di pittura su vetro, tenendo il corso di Teoria compositiva elementare della superficie e al Bauhaus, divenne stella polare del movimento moderno.
Quegli anni gli valsero il soprannome di Buddha, per i suoi allievi era difatti stato sorta di oracolo; Gropius lo definì «estrema istanza morale del Bauhaus», ma l’avvento del nazismo interruppe le attività della scuola ed altrettanto proibì a Klee di proseguire nell’insegnamento, in quanto come accadde ad altri contemporanei, la sua fu etichettata come arte degenerata ed oltre 100 opere presenti in collezioni pubbliche furono sequestrate e fatte sparire.
Lasciando qualcosa come 9mila opera d’arte, Paul Klee si spense il 29 giugno del 1940.
Nel mondo terreno non mi si può afferrare perché io abito altrettanto bene tra i morti come tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione e ancora troppo poco vicino.
Ridurre!
Vogliamo dire qualcosa in più della natura,
e si fa l’incredibile errore
di volerlo dire con più mezzi,
invece che con meno strumenti.
La luce e le forme razionali
sono in lotta,
la luce le mette in movimento,
piega angoli retti,
curva parallele,
costringe i cerchi dentro gli intervalli,
rende l’intervallo attivo.
Da tutto questo
l’inesauribile varietà.
La creazione vive come genesi sotto la superficie visibile dell’opera.
A ritroso la vedono tutti gli intellettuali.
Avanti, nel futuro, solamente gli artisti.
Due Montagne
Ci sono due montagne dalle cime chiare e luminose,
il monte degli animali e il monte degli dei.
Tra l’uno e l’altro sta la fosca valle degli uomini.
Se mai uno leva lo sguardo in alto
è pervaso da un vago, insopprimibile desiderio
– egli che sa di non sapere –
di quelli che non sanno di non sapere,
di quelli che sanno di sapere.
Ultima
In fondo al cuore,
unica preghiera,
un eco di passi
come di gatta:
l’orecchio suo trangugia suoni
il piede si leva alla corsa
lo sguardo
riluce dovunque
dal suo volto non v’è scampo,
bella come un fiore,
ma irta d’armi,
e in fondo,
non ha nulla a che fare con noi.
A Eveline
Eveline è un sogno verde fra gli alberi, il sogno di un bambino nudo addormentato su un prato. Poi mi fu negato di essere ancora tanto felice, quando capitai fra gli uomini e non potei più allontanarmi da loro. Liberato dalla violenza del dolore, mi rifugiai nei campi e mi stesi su un pendio assolato. Qui ritrovai Eveline, più matura, ma non invecchiata. Solo spossata dall’estate.
Ti ho promesso di essere un uomo onesto.
Io voglio sopportare il tuo sguardo.
Devo inginocchiarmi davanti a Dio.
Poi Eveline salvami tu! Perché non ho nessuno!
Giocavo col veleno
e mi sono avvelenato,
perché ho voluto chiamarmi fuori?
Ma in fondo,
tenevo troppo al bene.
Maledetta colpa,
forse è maggiore
di quanto pensassi.
Dimenticare lei con te!
Ma prima, se puoi, mi dovresti perdonare.
Ti saluto in lontananza.
Epigono
In me scorre il sangue di un tempo migliore.
Attraversando come un sonnambulo il presente sono devoto alla vecchia patria, alla tomba della mia patria.
Il sole del Mezzogiorno
non allontana i miei dolori.
Quasi un Prometeo
Eccomi davanti a te, Giove,
perché ne ho la forza.
Tu mi hai eletto e questo
mi obbliga a te.
Sono saggio abbastanza da pensarti
ovunque e non cerco il potente ma il dio buono.
Sento la tua voce dalle nubi:
Tu ti tormenti, Prometeo.
Da sempre il tormento è il mio destino perché sono nato per amare.
Spesso chiedendo e pregando
ho guardato a te: ma invano!
Batta dunque alla tua porta
.
La grandezza del mio scherno!
E se non basto io, ti lascio con la tua superbia. Tu sei grande, è grande la tua opera.
Ma solo grande all’inizio,
incompiuta.
Un frammento.
Compila!
Allora griderò l’evviva!
Viva lo spazio, la legge
che lo attraversa e misura.
Ma non griderò l’evviva.
Soltanto l’uomo che lotta
ha la mia solidarietà.
E il più grande sono io
che lotto con la divinità.
Per le sofferenze mie e di molti
ti condanno,
perché non hai compiuto l’opera.
Il tuo figlio migliore ti condanna,
il tuo spirito più audace,
a te affine,
eppure tanto lontano da te.
Guardando un albero
Gli uccellini sono da invidiare,
evitano di pensare al tronco e alle radici
beati si dondolano tutto il giorno,
loro che sono leggeri
cantando sull’orlo dei rami.
Con fiori,
io uomo bambino,
voglio incoronare il tuo pallido viso.
Sulle bianche pareti si legge.
Che i crisantemi sono vicini.
Le tue fredde labbra
hanno bisogno di una lieve febbre,
forse un bacio le difende dall’arsura.
Come sei bella ora,
i tuoi colori,
sono solo apparenza di colori.
I miei occhi voraci
volevano raccogliere
nuovi fantasmi.
So che fondamentalmente sono un poeta; questa conoscenza non dovrebbe essere un ostacolo nell’arte.
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