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Andrea Paz Pazienza: l’uomo, l’artista, la poetica

La pazienza ha un limite, Pazienza no!

Montepulciano, undici gennaio 1988: il trentaquattrenne conduttore radiofonico e televisivo britannico, Clive Malcom Griffiths intervista il trentunenne Andrea Pazienza. Testimoni e voci di medesima epoca, generazione, siedono frontalmente, a distanza ridotta, nel mentre d’un colloquiare denso, pacato, cortese, un confidenziale discorrere al sorgere di disegni, da lasciare sensazione d’amicizia di lungo corso, tant’è tracimante aneddoti, cronistorie, considerazioni, battute e sorrisi: nell’informale riverbero d’un piacevole confronto e scambio segnato da vicendevole rispetto, l’uno attende, domanda, ascolta, osserva; l’altro racconta, riflette, alterna gioco a serietà, gesticola, dona attenzioni alla bassotta Salomé e poi disegna.

Fra interrogativi, pause, riflessioni, ricordi e risposte, si delinea un resoconto di maturo realismo, prospera creatività e pulsante voglia di vivere.

Ho trascorso anni di crisi. La crisi non mi è mai mancata, cioè una forma di conflitto interiore rispetto al mio lavoro, io non ho mai avuto la sfortuna di non vivere questo fastidio, perché è il fastidio che crea delle cose magari migliori di altre nella normalità, no? Il desiderio di tirare fuori la testa e dire «No, io, cazzo, voglio raccontare una cosa!», che per me, se non importante almeno sentita, cioè che sento e non solo storie di fantasmi, di astronavi o di gente risoluta che, non lo so, cioè io forse mi parlerò addosso, non credo di piangermi addosso. Però sicuramente, fungo un po’ da telecamera, da telescopio a volte, riguardo alle storie che faccio. Così è il lavoro della maggior parte degli artisti più qualificati sul mercato del fumetto, sono tutte persone che riescono a mettere fuori la testa più o meno spesso […] Io non sopporto la maniera, lo stile — diciamo, no — l’affrancarsi a un qualcosa che può funzionare, cioè ragionare secondo la logica […] Se non ride l’autore, se l’autore non piange, non piangerà neanche il lettore, mai, credo. Ma questo è sempre così e questo distingue l’autore più capace da quello meno capace, l’autore di maniera da quello che invece sente di più le cose. È difficile sentire le cose, poi è un gioco al massacro, però è l’unico che io riesca a portare avanti nel tempo.

Estroso, schietto, bizzarro, a tratti timido seppur estroverso, Andrea Pazienza eviscerò sentire attraverso impareggiabile dote fumettistica e non solo, lasciando imperituro eco in un universo che ne accolse la, disperatamente fugace, esistenza, costellata d’aspirazioni, traguardi, amarezze, brio e laceranti moti d’animo: d’Andrea Pazienza, poetica umana e genio artistico irruppero inesorabilmente imprimendosi, nella storia della da Hugo Pratt identificata, «letteratura disegnata», o, dallo scrittore e critico francese, Claude Beylie (1932-2001), «nona arte».

La romantica, ispirata e dal doloroso prologo, parabola umana ed artistica di Andrea Pazienza, Paz, illustratore, pittore e fumettista tra i più amati, intensi ed innovativi nella storia della «nona arte» o «letteratura disegnata» • TerzoPianeta.info • https://terzopianeta.info

Primogenito del docente d’educazione artistica Enrico Pazienza e dell’insegnante d’applicazioni tecniche Giuliana di Cretico — la coppia dopo di lui donando vita a Michele (1958) e Mariella (1965) — Andrea Pazienza emise natio vagito, il ventitré maggio del 1956, in quel di San Benedetto del Tronto, comune ascolano ov’era nata la madre, benché il nucleo familiare risiedesse a Foggia, nel paese originario del padre — ovvero San Severo — trascorrendo l’estate nel balneare borgo San Menaio, frazione di Vico del Gargano.

Fin dalla primissima infanzia, nel petto d’Andrea Pazienza prepotente s’elevò richiamo a congenita indole, intrinseca attitudine al disegno muovendone le minuscole mani, già a diciotto mesi egli difatti raffigurando un orso ricco di dettagli e perfettamente distinguibile, a conferma di quanto impellente fosse la brama di tratteggiar sghiribizzi, dal prodigioso bimbo spontaneamente auscultata ed espressa con istintiva spontaneità, affamata vocazione a livello genitoriale nutrita nel nobile atto d’Amore — per nulla scontato — di riconoscer nella prole sacrosanta unicità ed impegnarsi a favorirla con sollecito intento.

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Tredicenne, Andrea Pazienza partì per Pescara, soggiornando in un collegio di gesuiti ed in culla dannunziana intraprendendo studi presso il Liceo Artistico cittadino, sorto grazie all’illustre pittore, scultore e professore spoltorese Giuseppe Misticoni (1907-1998), colui che — nel 1947 — aveva avuto idea d’avviar fra mura domestiche una scuola privata, aperta a giovani che volessero apprender e perfezionare l’arte figurativa: la struttura divenne ente comunale dopo un triennio, provinciale una decade più tardi e statale in capo al 1968.

Nel convitto, Andrea Pazienza strinse vivace amicizia con GaetanoTaninoLiberatore, classe 1953, talentuoso disegnatore — all’epoca frequentante il terzo anno del Misticoni — proiettato a brillante carriera che, di lì a poco meno d’un trentennio, gli sarebbe valsa, fra le tante, copiosa ammirazione da parte del compositore, polistrumentista e cantante baltimoriano, Frank Vincent Zappa (1940-1993) — da cui veniva apostrofato «Michelangelo del fumetto» — che gli commissionò la copertina di The Man From Utopia, undicesimo album in studio del memorabile rockettaro, effigiato sul palco con paletta scacciamosche da una parte e chitarra spezzata dall’altra, in riferimento al concerto tenutosi il 7 luglio 1982 al Parco di Redecesio — in Segrate — nei pressi d’un minuscolo laghetto.

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Giuseppe Misticoni — a cui edificio scolastico verrà titolato nell’annata 1998/99 — ne fu direttore per trent’anni, oculatamente selezionando docenti d’avanguardia in grado di spronar ed assecondar alunni in linea con le naturali inclinazioni: terminato il biennio nel 1971 — poiché avanti d’un anno — fra banchi d’aule del triennio Andrea Pazienza ebbe, per l’appunto, la fortuna d’interagir in particolar modo con i professori Albano Paolinelli e Sandro Visca, ambedue perfettamente scienti del fatto che incasellarlo ed incanalarne temperamento, secondo prassistico e uniformante iter didattico, sarebbe stato difficoltoso — se non impossibile — ma, soprattutto, paradossalmente deleterio, controproducente, disonesto, ciò eventualmente significando carpar ali ad un predestinato a volar esclusivamente a bordo dell’impetuoso esploder d’autentica passione, per elevar all’ennesima potenza la qual sarebbe bastato valorizzarne evoluzione, anziché tentarne standardizzato instradamento verso classici canoni che ne avrebbero presumibilmente intrappolato slanci e quindi rischiando di chetarne famelica brama creativa.

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Visca e Pazienza

Ben lungi dal voler esser tempesta nel vasto mare artistico custodito in Pazienza e palesato con cristallina veemenza, Paolinelli e Visca — che prontamente l’intesero e lo navigarono — furono il porto in cui Andrea Pazienza approdò sull’onda di fiduciosa empatia, in un rapporto intessuto sul filo di frequentazioni anche in ambito extra-scolastico e piacevolmente confrontandosi, allievo elevando Visca a soggetto preferito da riproporre in caricature, a partir da quelle mostrategli al rivelargli quanto avrebbe voluto farne professione ed all’educatore — ironicamente ispirandosi ad universale capolavoro letterario di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616), il quale nel 1983, circa in concomitanza a comparsa nel dedicato a Caterina Mollica, Lupi, amore è tutto ciò che si può ancora tradire, del 1981, riprenderà calando nelle vesti del visionario eroe, Zanardi, in occasione della mostra tenuta alla galleria Nuages e titolata, Ten Zanardi’s Pictures Project — conferendo burlesche parvenze in Don Viscotte della Mancia, ritraendolo nudo, abbigliato d’una sola foglia di fico e girovago d’Abruzzo — seguitando a farne prediletto protagonista di scene, comprese quelle fissate, da sedicenne, sui muri della propria stanza, in San Menaio, a bomboletta, rosse e blu, firmando Paz 72 e riscoperte durante intervento di ristrutturazione attuato dal nuovo proprietario.
 

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Lupi, amore è tutto ciò che si può ancora tradire

 
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Dal canto suo, Enrico Pazienza — nient’affatto entusiasta delle intenzioni d’Andrea — chiese invano, sia a Liberatore che a Visca, d’intercedere affinché potesse focalizzarsi sui fondamentali della pittura e calcar ambizioni paterne, l’uomo essendo acquerellista ed auspicando ad erede un diverso, forse da meno interrogativi punteggiato, sentiero, peraltro egli tornando spesso a casa in visita e ben destreggiandosi come scenografo di taluni spettacoli tenutisi al sanseverese Teatro Verdi, nonché esponendo dipinti in varie mostre e nella galleria d’arte Convergenze, a Pescara, di cui fu socio insieme a Visca, Paolinelli ed altri, il laboratorio rimanendo attivo, in terra abruzzese, dal 1973 al 1981.

Ma ad Andrea Pazienza non allettava l’identificarsi ed il sapersi confinato in pennellate fra cornici che avrebbero trovato capolinea nell’addobbar pareti ed esser ammirate da acquirenti ed ospiti, tant’era l’eruttante necessità di raccontare un qualcosa che fuoriuscisse dai limiti della tela e sfondasse invisibili muri, frapposti fra generazioni, concetti, credenze, ragion per la qual contrasti col padre sfociarono nel non contemplarsi in volontà ed opinioni, tuttavia, attriti fra genitore e figlio — nell’ovvietà d’escludere situazioni estreme — mai nulla potendo sul primordiale e reciproco affetto, immune a logorii.

Trasferitosi a Bologna nel 1974, Andrea Pazienza s’iscrisse al corso di laurea in Discipline delle Arti, Musica e Spettacolo (DAMS), ritrovandosi nella città emblema di controcultura per antonomasia, ove nei giovani covava una latente e rabbiosa disillusione post-sessantottina che non riusciva ad identificarsi in alcuna rappresentanza parlamentare: nella Dotta degli anni Settanta — in affliggente disappunto conseguito alla fossilizzazione delle passate istanze — i tumulti erano all’ordine del giorno ed apice di protesta confluì nel noto Movimento del ‘77, radicalmente confutante un sistema politico-istituzionale ritenuto obsoleto, avulso dal contesto sociale e privo di qualsivoglia garanzia nei confronti delle problematiche correnti.
 

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Andrea Pazienza e Milo Manara

 
Andrea Pazienza si calò dunque in un contesto dal deflagrante fermento, dentro sé percependo rimbombante urgenza di narrarne l’estemporaneo accadere, acutamente scrutandone sfaccettature e — senza direttamente commentare — traslando impressioni in veste d’arguto fumettista: ne nacque Pentothal, immaginario personaggio, ambientato nei tumulti della Bologna di quegli anni, su di sé echeggiato e sviluppato in dieci tavole per tentar di pubblicar le quali, recarsi in territorio meneghino si sarebbe rivelata scelta obbligata, Milano essendo difatti centro nodale delle riviste più in voga, nel novero l’indimenticato mensile linus, ideato dal disegnatore, scrittore ed editore Giovanni Gandini (1929-2006), per il nome ispiratosi al popolare Linus van Pelt dei Peanuts, da lui precedentemente importato in Italia e tradotto, diffondendo nel Bel Paese la meravigliosa opera di Charles Monroe Schulz (1922-2000), in collaborazione con la moglie Annamaria Gregorietti.

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Linus, prima uscita

Se poesia vuol dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose, allora Schulz è un poeta.
Umberto Eco

Nel 1962, la donna aveva infatti rilevato, insieme ad un paio d’amiche, la libreria indipendente Milano Libri, gestendola nell’ottica di trascegliere e proporre novità estere, ben presto elitaria bottega divenendo punto di ritrovo d’intellettuali, scrittori, amici ed i lungimiranti coniugi decidendo di costituire omonima casa editrice — inizialmente appellata Future s.r.l. — per pubblicare Arriva Charlie Brown! (1963), seguito da Il secondo libro di Charlie Brown (1964), indi, dato il vasto e positivo riscontro, progettando una testata giornalistica dedicata ed il suddetto linus esordendo nell’aprile 1965, aprendo porte non soltanto al fumetto d’autore, ma a rubriche di varia argomentazione, accuratamente vagliate.

Quando nel 1972 Gandini cedette linus alla Rizzoli, il giornalista poggese, scrittore, traduttore, curatore editoriale, sceneggiatore e critico letterario Oreste Del Buono, ‘OdB’, (1923-2003), titolare d’una quota di minoranza dallo stesso mantenuta, ne ricoprì incarico direzionale, ampliando tematiche, disquisendo maggiormente di politica e, dal gennaio 1974, allegando un supplemento alternativo, sempre umoristico e d’avventura, ma più spiccatamente anticonformista, chiamato alterlinus ed ospitante autori di fama mondiale — fra i quali il summenzionato riminese creatore di Corto Maltese, Hugo Pratt, al secolo, Ugo Eugenio Prat (1927-1995) — ed esattamente tre anni dopo alterlinus passando da inserto a rotocalco indipendente, battezzato alteralter, che per qualità e contenuti diventò riferimento primo dei frequentanti il DAMS.

Fra il 1977 ed il 1981, Bologna ebbe a rivelarsi fulcro del mutamento culturale, dove esternar utopie, tentar ribellioni, aggregar marginalità e con tal proposito, fu nel corso d’una manifestazione a due passi da Piazza Maggiore che il fumettista, grafico, illustratore e scrittore bolognese, Filippo Scòzzari (1946) occupò un appartamento, sito al primo piano d’uno stabile di via Clavature 20, ne dipinse la porta d’ingresso di rosso e luogo tramutò in ritrovo artistico, accogliente chiunque fosse sospinto dal desiderio di confrontarsi, disegnare, far controinformazione, sperimentar nuovi linguaggi, comporre musica, ascoltarla, scrivere e vagheggiare in sconfinata libertà.

A quel portoncino scarlatto su cui la scritta Traumfabrik — letteralmente «Fabbrica dei sogni» — campeggiava dorata, un bel giorno bussò Andrea Pazienza, nell’immediato fra lui e Scòzzari preziosa amicizia concretandosi, adornata da condivise aspirazioni.
 
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Frattanto, deciso ad arrivar a Oreste Del Buono, Pazienza passò per le redattrici Nicoletta Pardi e Fulvia Serra, proponendo dieci tavole che — incassati anche gli apprezzamenti di Pratt — ottennero subitaneo elogio e programmazione d’uscita su alteralter d’aprile, al titolo Le straordinarie avventure di Pentothal, inaspettatamente però, conclusione di storia dovendo subire modifica ed in ragione di tragedia a Bologna accaduta venerdì 11 marzo: nei disordini sorti allo svolgersi di contestazione studentesca, verso le 13, all’incrocio tra via Inernio e via Mascarella, Francesco Lorusso (1952-1977), iscritto alla Facoltà di Medicina, fu mortalmente raggiunto da un proiettile dei 6 esplosi dalla calibro 9 d’ordinanza di un carabiniere di leva, in reazione a due molotov lanciate da dimostranti sul telone dell’autocarro di cui era alla guida; circostanza non poté che acuire la tensione e divenire ulteriore motivo perché le proteste, coadiuvate da militanti della sinistra extraparlamentare, tra episodi di guerriglia si prolungassero giorni anche oltre le mura del capoluogo emiliano. Interpretati eventi, Andrea Pazienza, di ritorno nella metropoli lombarda, richiese sostituzione dell’originale prologo con la versione appunto concepita e — mirabolante precorritore nel rivolgersi direttamente ai lettori — annettendo esplicativa spiegazione in didascalia.
 

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Pentothal

Mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa.
Le straordinarie avventure di Pentothal

In quel periodo, fibrillante mira comune si delineò all’orizzonte per Pazienza e Scòzzari allorquando, a Roma, Stefano Tamburini (1955-1986), Massimo Mattioli (1943-2019) e Marco D’Alessandro fondarono Il Cannibale, rivista di fumetti underground a cui Andrea e Filippo s’associarono, in un secondo momento al quintetto aggregandosi anche Tanino Liberatore.

Nonostante contenuti e forma fossero di lampante innovazione, lacune nella logica di mercato e conseguenti falle nella distribuzione, non permisero al Cannibale di superare i due anni d’attività, malgrado il sostegno, nel 1979, de il Male, settimanale satirico fra i più venduti e sul quale Andrea Pazienza miniaturizzò il presidente Sandro Pertini (1896-1990) con occhiali da sole, pipa, candido basco sul capo, maglione di lana e bastone, gettando le basi d’una serie — eccezionalmente scevra da mera dissacrazione — movimentata da Paz e Pert, soltanto due fra i divertentissimi personaggi a cui l’industrioso Pazienza diede vita, inventandoli di sana pianta oppur rimodellandone sembianze ed abitudini a piacimento, tant’è che anni addietro Liberatore si vide calato nel ruolo del dantesco Virgilio; in Perché Pippo sembra uno sballato è invece all’antropomorfo cane disneyano che tocca rifugiarsi in desertiche dune, per darsi alla fuga dagli stressanti ritmi degli studi di registrazione, per in ultimo rimetter piede sui set cinematografici, dietro persuasiva insistenza di Topolino e previa assunzione di cannabis, al fin di regger pressione recitativa.
 
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Perché Pippo sembra uno sballato
Prima pubblicazione in volume, 1983

 
Frattanto alla Traumfabrik, tra estasi creative e senso d’appartenenza, s’inserì lo spettro dell’eroina, subdola nell’insinuarsi fra migliaia di vite e smisuratamente in esse dilagando, a tentazione cedendo anche Andrea Pazienza, nondimeno mai perdendo slancio, all’opposto perseverando nell’incessante smania di reinventarsi: nel 1980, con Scòzzari, Liberatore, Tamburini, Mattioli e, in aggiunta, Vincenzo Sparagna (1946) — già alle redini del Male — inventò Frigidaire, magazine di fumetti, interviste, rubriche, inchieste giornalistiche e quant’altro che, in linea alle precedenti esperienze editoriali, discordasse dal pensiero borghese.
 
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Frigidaire (da sinistra): Tanino Liberatore, Vincenzo Sparagna, Filippo Scozzari e Massimo Mattioli; Stefano Tamburini e Andrea Pazienza, 1982


 
Nel quinto numero, datato marzo 1981, all’interno del fumetto, Giallo scolastico, Andrea Pazienza diede fattezze al liceale pluriripetente Massimo Zanardi, detto Zanna, sprezzante e vacuo ventunenne di notevole statura, smilzo, con ingombrante naso aquilino, lungo mento pronunciato, bionda chioma con ciuffo e due occhi azzurri nei quali regna asettica parvenza di noncuranza, compagna di riprovevoli e delinquenziali condotte messe in campo con imperturbabile impassibilità, priva di scrupoli; inseparabili amici ne son il complice di malefatte RobertoColasColasanti — belloccio del trio dalla mascella squadrata, capelli corti e corvini, sguardo penetrante, corporatura muscolosa — e SerginoPietraPetrilli, del trio il meno avvenente, sebben il più acculturato e perspicace, ma, verosimilmente per eccesso d’ingenua benignità, anello debole che i due scaltri amici persuadono e manipolano al bisogno.
 
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Zanardi, Frigidaire, 1983

 
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Autobiografia di Zanardi, 1983

 
Zanna, Colas e Pietra fanno uso di droghe, questione da Andrea Pazienza senza remora alcuna affrontata ed abilmente resa loquace all’interno di vignette volutamente funambole sulla realtà, sfumature biografiche ad essa miscelandosi, sebben in Zanardi non vi sia traccia del dinamismo presente in Pentothal, predecessore il cui avvinto ardore e resiliente vigoria, erompevano malgrado tutto da strips non ancor esclusivamente permeate da rassegnato disinganno, all’inverso traboccanti l’irriducibile bramosia d’esser principali attori del cambiamento desiato: a variare nel passaggio di staffetta fra decenni fu l’apparato scenico, gli anni Ottanta vertiginosamente sterzando la concezione del «Noi» verso un «Io» che divenne destinatario principe d’ogni attenzione, al focoso collettivismo del Settanta surrogandosi un massifico edonismo, in fede al qual il conseguimento d’appagante felicità personale calò sipario sulle passate ed unanimi filosofie di pensiero e relativi coinvolgimenti di massa.

Nondimeno sbigottito da siffatto — imperante — individualismo e maturando triste consapevolezza del non potersi più rivolgere ad una platea di lettori uniti dal filo rosso dell’obiettivo comune, Pazienza non mitigò indefessa prolificità, alacremente perseverando nello sfornar fumetti, mantener collaborazioni ad ampio raggio, tornar a dipingere ed esporre, illustrar copertine d’album musicali, manifesti cinematografici, videoclip, promozioni pubblicitarie e in più saggiandosi nel galvanizzante ruolo d’insegnante sia a Santa Cristina di Gubbio — presso la Libera Università di Alcatraz — che nel capoluogo emiliano, giostrandosi in cattedra al corso post diploma di fumetto e arti grafiche, tenuto dalla Scuola Zio Feininger e dell’appagante connessione instauratasi con gli allievi, accennò alla cara mamma, in una lunga missiva scritta di getto a dicembre del 1983 — dalla donna pubblicamente letta nella serata del 22 maggio 2016 a San Severo, durante l’apertura della rassegna Buon Compleanno Paz!, protrattasi cinque mesi circa al Museo Dell’Alto Tavoliere (MAT) — dalle cui righe traboccano lo smisurato Amore d’Andrea Pazienza per i familiari, l’incolmabile e sferzante nostalgia dell’esser da loro distante ed il profilo allora di un giovane dal cuore colmo di benevolenza, cortesia e consapevolezza del valore della gratitudine.
 
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In una Bologna a lui estranea, disorientante, per certi versi correa di biasimevoli atteggiamenti ed introspettive cupezze, Andrea Pazienza — oltre al resto affranto dall’interruzione del quinquennale fidanzamento con Elisabetta ‘Betta’ Pellorano e deciso a disintossicarsi dall’eroina — nel 1984 lasciò definitivamente la Romagna in favor di Toscana, scegliendo Montepulciano come catartico nido in cui accoccolarsi e rinascere: fra Valdichiana e Val d’Orcia, s’immerse nella rasserenante atmosfera del collinar entroterra senese — marciato in vivifiche camminate — ed inatteso sussulto sentimentale l’infatuò, l’anno seguente, della pittrice e fumettista romana, Marina Comandini (23 maggio 1963), ch’egli votò ad innamorante ed irrinunciabile presenza.
 

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Andrea Pazienza e Marina Comandini

 
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Partecipazione di nozze disegnata da Andrea Pazienza

Donna è la mia ragazza, donna è mia madre e ti dico che riposare una testa sconvolta in un grembo conosciuto e amato è quanto di più bello sia dato da vivere a un uomo. La femmina è meravigliosa.

Dopo lo stralunato Pentothal ed il cinico Zanardi, fu la volta di Pompeo — in debutto a puntate su alteralter nel 1985 — da Andrea Pazienza lucidamente, francamente, soffertamente e temerariamente scaturito in un viaggio a ritroso nel proprio passato, quasi a voler chiuder un cerchio sul trascorso e voltarsi a differente futuro, intenzione da Marina Comandini descritta in una video-intervista apparsa su Repubblica a metà giugno 2018, con fedele e limpida esposizione.
 
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Pompeo

Cari Voi che mi avete seguito sin qui. Così finisce l’ultima puntata di Pompeo e, presumo, anche un lungo capitolo della mia vita.

Eufoniche affinità elettive fra Marina ed Andrea Pazienza, s’accordarono in sinfonia nuziale il 7 giugno 1986, all’altare della locale Chiesa di San Biagio, egli inscindibilmente unendosi in matrimonio con la donna della vita, partecipazioni per gli invitati riportando quanto da lui dipinto — in matita e acquerello su cartoncino, tempera su rodovetro sagomato — celebrando con dilettevole figurazione la gaudente lietezza dei novelli sposi in volo su una liana, gioiosamente persi l’un nello sguardo dell’altra: per curiosa coincidenza del destino nati nel medesimo giorno, si convissero spartendosi un’infinità d’analogie, ramificate nell’inebriante feeling che li legò in arte, lavoro, viaggi, natura, animali, gente e quanto riuscirono a scambiarsi nei pochi anni a lor concessi, fugacità temporale risultando impotente sull’entità del loro interrelazionarsi, conoscersi e comprendersi, ella delicatamente sfiorandone luci, ombre, ilarità e malinconie, carezzandole e decorandone essenza, con egual soavità non di rado colorando i disegni del marito dietro suo espresso desiderio, come ad esempio nel libro, Favole, da Pazienza scritto nel 1986 e serbante due racconti per l’infanzia — improntati sul rispetto verso il prossimo — nell’edizione Gallucci, con toccante introduzione di Comandini e del giornalista, scrittore, disegnatore, conduttore radiofonico e televisivo Vincenzo Mollica (1953) — nel mondo di Paperino, Vincenzo Paperica — a Pazienza profondamente affezionato.

Nel settembre dell’86 eravamo sul Gargano. Consumavamo il nostro annuale periodo marino dal momento in cui per tutti le vacanze finivano fino a quando la stagione ce lo permetteva. Le case si svuotavano, e noi vivevamo senza chiederci che giorno fosse, dividendo il nostro tempo tra bagni e passeggiate, dalle quali non mancavamo mai di tornare con un ricco bottino fatto di frutti raccolti per strada, di piante, di fiori o di pietre, e qualche volta di animali bisognosi di cure. Tutto attirava la nostra attenzione e come bambini passavamo le ore a guardare un albero o una mucca. Andrea non resisteva mai a lungo nel contemplare una cosa: di qualsiasi natura fosse, doveva toccarla, palparla, maneggiarla. In questo modo prendeva coscienza della forma esteriore e della struttura interna delle cose ma soprattutto, considerandole in quel momento intensamente, lui ne raggiungeva il cuore. Quando poi si metteva a disegnare, era come se lui fosse in quel momento il soggetto del disegno, e ogni suo nervo e muscolo si tendevano nell’alta concentrazione di vivere in quell’istante in quell’aquila, o di salire su quell’albero e sentire col proprio peso la robustezza dei suoi rami. Penso che lui vivesse realmente ciò che immaginava. Era come un altro mondo parallelo da lui solo toccato, guardato e vissuto. Così, dal momento in cui una storia nasceva nella sua mente, era così reale che quasi gli bastava seguirla. Tutto corrispondeva come in un gioco a incastri. In quei giorni di fine estate, sul Gargano, Andrea ebbe modo di pensare a un bambino lontano appena nato, Lorenzo, e gli regalò, disegnandole, queste favole. Sono storie all’essenziale, in cui il gioco è incentrato sul significato delle parole, e tutto il resto è poesia. Colorai con i pennarelli questi bellissimi disegni ed entrai, per la prima volta accompagnata per mano dal suo autore, nell’incredibile mondo di Andrea Pazienza».
Marina Comandini Pazienza, Favole

A cavallo dell’impulso di rinnovamento in lui affiorato, Pazienza diede indirizzo storico e poetico ai propri fumetti, passando per Campofame dello statunitense Robinson Jeffers (1887-1962) — di cui copia speditagli nel 1987 dal poeta Moreno Miorelli, per illustrarne la storia d’un uomo che uccise la morte — continuando con un cavalleresco Zanardi medievale (1988) immerso in crociate e cimentandosi in Astarte, mastodontico molosso a cui — letto Annibale di Gianni Granzotto — affidò narrazione del conflitto punico fra Cartagine e Roma, purtroppo l’opera rimanendo incompiuta, causa la precoce scomparsa d’Andrea Pazienza — che in un battito di ciglia ne sfumò i molteplici e diversificati progetti — avvenuta nella notte del 16 giugno 1988, quando a trovarne il corpo esanime nella vasca da bagno, fu l’adorata moglie Marina; congedo comunque giungendo non prima che Pazienza, nella moltitudine di pubblicazioni e dipinti, avesse al tempo donato altri capolavori — taluni rimasti in ombra anni — quali il ritratto dell’amica Isabella Damiani, dal titolo, Isa d’estate (1975), il manifesto per il film di Federico Fellini, La Città delle Donne (1980), i Glamour Book, Madonna del Soccorso risalente al 1987 oppure ancora, il riscoperto e significativo murale largo 7 metri per 2,50 d’altezza, da Andrea Pazienza improvvisato di fronte a fortunati ed inevitabilmente da meraviglia colti spettatori, il 2 maggio 1987, in occasione della 4° Fiera del Fumetto di Napoli.
 
La romantica, ispirata e dal doloroso prologo, parabola umana ed artistica di Andrea Pazienza, Paz, illustratore, pittore e fumettista tra i più amati, intensi ed innovativi nella storia della «nona arte» o «letteratura disegnata» • TerzoPianeta.info • https://terzopianeta.info
 

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Campofame

 
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Astarte

 
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Murale realizzato in occasione della 4° Fiera del Fumetto di Napoli, 2 maggio 1987

 
Geniale, inafferrabile, vulcanico e disarmante nel sorriso, Andrea Pazienza si fece da filtro per le sensazioni del mondo attraverso un’incomparabile forma grafica libera, eloquente e non asservita ad univoco stile, all’inverso ricamata egualmente a note su pentagramma, tinta in un prisma di colori scomposti in aggancio a se stesso ed emanata nella volontà d’evocare reazioni emotive, pionieristicamente del fumetto facendo reportage, con ardimento aprendosi a metamorfosi e sui binari dell’effimera tratta vitale riservatagli, correndo, incalzante, senza mai voltarsi.
 
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Isa d’estate, 1975

 
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Manifesto per il film di Federico Fellini, La Città delle Donne, 1980

 
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Zanardi Don Quichotte all’Inferno, 1983 (Ten Zanardi’s Pictures Project)

 
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Glamour Book, 1984

 
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Glamour Book, 1986

 
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Madonna del Soccorso, 1987

Di me amate il riflesso, quella memoria che sale dalle cose che tocco, senza pensare di raggiungerlo.

Alla straordinaria eredità di Andrea Pazienza — affidata all’arte e non solo — targhe ricordo e titolazioni donano riconoscimento in strade, piazze e litorali, da Bologna a Napoli, da San Menaio a Pescara.
 
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Sinceri ringraziamenti per l’affabile e magnanima disponibilità, a Clive Griffiths e Marina Comandini.
 
 

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