Fotografie che hanno immortalato istanti di storia
Muhammad Ali, Toronto, 1966, Bettmann/Corbis
Fotografie, fra migliaia, il cui emblematico valore, a merito della prodigiosa potenza dell’immagine, permane immutato allo scorrere del tempo come perpetuo monito e indelebile memoria dell’umana parabola.
Quello che mi piace delle fotografie è che catturano un momento che è finito per sempre, impossibile da riprodurre.
Karl Lagerfeld
Dall’avvento della macchina fotografica, l’obiettivo ha concesso all’uomo la possibilità d’immortalare l’estemporaneo stupore dell’istante, permettendo di osare viaggi nel passato e rivivere umane vicissitudini consumate negli erti sentieri della trasformazione politica, sociale, dell’emancipazione, della ricerca artistica o puramente estetica, offrendosi quindi risorsa di conoscenza, divulgazione, riflessione o di semplice, non banale, lietezza.
Attimi trasognanti all’ombra dell’Eiffel
Di memorabile e indubbio impatto estetico furono le fasi di costruzione della ferrea ed imponente Tour Eiffel, inaugurata il 31 marzo 1889, annata a celebrazione del centenario della Rivoluzione francese, evento per il quale era stato previsto un monumento sul parigino Champ-de-Mars, posto ad inizio delle varie esposizioni che avrebbero adornato l’Exposition Universelle de Paris, che si svolse dal 6 maggio al 31 ottobre.
Il bando, a cui parteciparono un centinaio d’artisti, venne vinto dal grandioso progetto dell’ingegnere civile e architetto francese Émile Nouguier (1840-1897) e dell’ingegnere strutturale franco-svizzero Maurice Koechlin (1856-1946).
La fabbricazione fu dunque affidata alla Maison Ateliers de Constructions Métalliques, società fondata nel 1867 dall’architetto, imprenditore, ingegnere specializzato in ponti e strutture metalliche Alexandre Gustave Eiffel (1832-1923), il quale, fondatore della società Maison Ateliers de Constructions Métalliques — a fine carriera lasciata nelle mani dello stesso Koechlin che, divenendone amministratore delegato ne mutò denominazione in Societé de construction de Levallois-Perret, comune in cui aveva sede — per ergere struttura s’avvalse anche della collaborazione dell’architetto Charles Léon Stephen Sauvestre (1847-1919), unico erede dell’insegnante di scuola femminile per famiglie disagiate, Clarisse Clairian (1810-1892) e del giornalista, scrittore, poeta e fervido attivista anticlericale, Charles Sauvestre (1818-1883).
Gli oltre 18.000 pezzi metallici, preparati con certosina precisione ed assemblati con due milioni e mezzo di rivetti, vennero ovviamente montati sul posto, a partir dal 1 luglio 1887, su fondamenta iniziate a gennaio, per mano di centinaia di operai che al cantiere si dedicarono anima e corpo, nella titanica creazione portata a termine in poco più di due anni, utilizzando circa 8 tonnellate di ferro realizzato tramite puddellaggio, una metodologia ai tempi innovativa che prevedeva una lavorazione siderurgica con ossigenazione di manganese, carbonio, fosforo e silicio, allo scopo di miscelarli in forni deputati al trattamento della ghisa, per ricavarne un materiale maggiormente duttile e malleabile, l’acciaio.
L’altezza inizialmente prevista, di 80 metri, venne più che triplicata, sollevando fino a 300 metri la vetta, su cui, alle ore 13:30 del giorno inaugurale, fu issato lo stendardo nazionale e subito dopo, sulle note della Marsigliese, dalla seconda piattaforma vennero sparati 21 colpi di cannone.
Il 15 maggio l’apertura al pubblico e ancor oggi, a distanza di secoli, il graduale erigersi de La Dame de fer si può visualizzare e rivivere grazie ai fotogrammi che fissarono agli occhi del mondo il maestoso monumento dai 1665 gradini, inizialmente nato come provvisorio, considerato il suo programmato smontaggio previsto nel 1909, viceversa definitivamente dominando su Parigi a simbolo di progresso e grandezza della Francia.
Nato esattamente a 23 anni e una dozzina di giorni dall’inaugurazione della Tour Eiffel, fu al cospetto dei suoi femminei e ferrosi archi che il fotografo francese umanista Robert Doisneau (1912-1994), celebre per il suo approccio poetico alla street photography, fece dell’area circostante l’ideale spiazzo sul quale volteggiar nell’aria le spensierate e libere falcate di fanciulli in frizzante e liberatoria corsa, rubandone alle veritiere e pure bocche, risate di gola, nel meraviglioso gioco delle loro ombre che si proiettano sul terreno, rendendo tanto la percezione del calore solare quanto la vivacità e l’esultanza proprie dell’età, la medesima d’una bambina, la quale, fiera sui suoi pattini, avvinghia le vesti di un coetaneo in bicicletta e dallo stesso si fa trascinare sullo sfondo di meravigliosi bianchi e neri magistralmente accostati, dove il cielo sembra quasi assumere la conformazione d’una mezza sfera sotto la sua colossale e contemporaneamente aggraziata torre, il cui ammaliante profilo è fascinoso retroscena a baldi tuffi di prestanti giovanotti nelle fresche acque della Senna, in salto dal Pont d’Iéna, collegante l’area monumentale Trocadéro alla Tour Eiffel.
Il più bello, il più semplice di tutti è il riflesso spontaneo con il quale si tenta di fermare una attimo di gioia destinato a scomparire.
Robert Doisneau
Amante delle periferie parigine ed in costante ricerca di gentilezza, non a caso nato a Gentilly, insita predisposizione di Doisneau fu il cristallizzare tramite obiettivo lo stile di vita dei suoi connazionali da più punti di vista, fotografando monumenti, botteghe tipiche, ma, soprattutto, come un languido romanziere, narrando della sacrosanta genuinità degli infanti e della romantica gestualità degli innamorati e sfiorarsi di labbra raggiunse la fama al titolo di Le Baiser de l’Hôtel de Ville, fotografia scattata nel 1950, durante un servizio fotografico per il periodico americano Life.
Ritratti furono la studentessa di teatro Françoise Bornet e il suo fidanzato Jacques Carteaud, ai quali Robert Doisneau chiese di posare, ciò nonostante rimanendo la loro identità nascosta fino al 1992, anno in cui, a seguito di denuncia di una coppia che sosteneva d’esser stata ritratta senza consenso, il garbato e sensibile fotografo, allo scopo di smascherare l’infame menzogna, si vide costretto a rivelare la verità, vale a dire che nel suo vagabondare per Parigi al fine di lasciarsi ispirar dalla meraviglia della quotidianità, tanto fu colpito dalle tenerezza d’effusioni che i due stavano scambiandosi fra le mura di un bar, da volerne perpetuare la delicata bellezza.
Patinato bacio risalente ad un quinquennio prima, V-J i Times Square, appassionato slancio amoroso fra una donna in camice bianco ed un marinaio americano, a New York, mentre veniva annunciata la fine della guerra: lo scatto porta data 14 agosto 1945 e firma del fotografo e fotoreporter tedesco, naturalizzato statunitense, Alfred Eisenstaedt (1898-1955), colui che, con la sua adorata Leica M3, obiettivo da 35 mm, alla mano, il giorno in cui la piazza di Manhattan si vestì a festa per l’avvenuta vittoria contro il Giappone, camminando tra la folla vide un aitante uomo di mare nell’atto di baciar ardentemente qualsiasi donna gli capitasse fra le braccia; Alfred notò l’infermiera poco prima che lo stesso l’avvinghiasse e sul quel deciso contrasto di vesti, ricamò sull’infinito sublime desiderio di calore e leggerezza.
La foto, una settimana dopo apparsa in pubblicazione sulle pagine di Life, rapidamente assurse a icona del frangente storico suscitando la curiosità di scoprire l’identità della coppia, tuttavia nulla si seppe, perlomeno fino al 1980, quando tal Edith Shain (1919-2010) scrisse ad Eisenstaedt asserendo d’essere la donna dell’abbraccio, ma il tempo — riconoscendo nell’uomo George Mendonsa — ne tradì probabile e mera sete di notorietà, dando volto e nome della reale protagonista d’iconico bacio, ossia, nell’allora infermiera del Doctor’s Hospital, Greta Zimmer Friedman (1924-2016), nata Grete Sara Zimmer, in Austria, da famiglia ebrea e quindicenne, emigrata in America fuggendo dall’implacabile persecuzione nazista.
V-J, acronimo di Victory over Japan day, fu appunto utilizzato a memoria della resa giapponese e susseguente conclusione del secondo conflitto mondiale; commemorazione del festoso evento avviene in concomitanza con il giorno in cui ne venne dato annuncio, dunque il 15 agosto 1945, che negli Stati Uniti corrisponde alla giornata del 14.
Ad Eisenstaedt, che le atrocità dei combattimenti aveva vissuto sulla sua pelle, combattendo durante la Grande Guerra, appena diciassettenne, come artigliere nelle Fiandre, quel clima di festa dev’esser entrato in circolo nelle vene; lo stesso Doisneau, del resto, aveva tastato con mano il sapore della lotta armata durante la seconda belligeranza intercontinentale, aderendo alla Resistenza e adoperandosi come abile litografo nella falsificazione di documenti.
Coglier sorrisi e sentimento a bordo strada per i due fotografi fu un modo d’esplodere al mondo il fascino assoluto della letizia per mezzo di realistiche riproduzioni d’appiccicar agli occhi dell’umanità, come purtroppo, all’opposto, immagini belliche, d’una brutalità indescrivibile a parole, si stanziarono negli occhi dei migliaia di malcapitati, feriti o, peggio, uccisi dalla sua inesorabile barbarie.
La fotografia è l’arte di mostrare di quanti istanti effimeri la vita sia fatta.
Marcel Proust
Fotografie d’amore e d’orrore
A seguito del secondo dopoguerra, quello che doveva esser un breve scontro fra statunitensi e vietnamiti, nella ferrea intenzione degli americani di contrastar l’insurrezione locale sorta nel tentativo di riunificare il paese — dopo che nella Conferenza di pace di Ginevra del 1954 gli Stati Uniti avevano tentato una trattativa di pace, affidando le redini della repubblica popolare del Vietnam del Nord al rivoluzionario, politico e patriota filo-comunista Nguyễn Sinh Cung, Hô Chi Minh (1890-1969) e il Vietnam del Sud al governo autoritario filo-americano del cattolico Nguyễn Sinh Cung (1901-1963) — si tramutò in anni di feroce lotta con incalcolabili perdite umane e la cui inclemente violenza venne fermata per sempre in molteplici scatti che ne divennero metafora, a testimonianza d’una delle pagine più infelici e cruente scritte sul libro della storia di quel periodo, al punto che la concreta percezione dell’insensatezza di quanto accadde, venne respirata da milioni di persone, negli USA moltiplicandosi a vista d’occhio i movimenti pacifisti a riguardo, che trasformarono strade e piazze in pulsanti arterie di sentita protesta.
Due fra gli scatti che maggiormente scossero cuore e coscienze furono l’esecuzione di un Việt Cộng e la fuga di una bimba nuda, urlante per le bruciature riportate da un bombardamento al napalm, emulsione altamente infiammabile, derivata dagli acidi naftenico e palmitico e utilizzata per bombe, mine incendiarie e lanciafiamme.
Dalla prima foto — risalente all’1 febbraio 1968, in quel di Saigon, durante l’Offensiva del Têt, il notevole attacco a sorpresa scatenato dalle milizie nord-vietnamite due giorni prima — traspare l’imperturbabilità del politico, generale di brigata dell’Esercito della Repubblica del Vietnam e capo della Polizia Nazionale, Nguyễn Ngọc Loan (1930-1998) nell’atto di sparare ed uccidere a sangue freddo il prigioniero, ufficiale superiore e attivista appartenente al Fronte di Liberazione Nazionale, Nguyễn Văn Lém (1931/32-1968), davanti a un cameraman dell’NBC e al fotoreporter Edward Thomas ‘Eddie’ Adams (1933-2004), dell’agenzia giornalistica Associated Press, sulla tacita motivazione di dover vendicare l’assassinio di uno dei suoi più cari amici, di sua moglie e dei loro sei figli, ai quali il Việt Cộng era accusato d’avere spietatamente tagliato la gola, dopo il rifiuto dell’uomo di mostrargli il funzionamento dei carri armati sequestrati.
L’istantanea in sé, vincitrice del premio Pulitzer nel 1969, fermando il solo attimo dell’esecuzione, ebbe un riscontro universale a cui seguirono copiose polemiche d’accusa nei confronti del generale, per ipotizzata violazione della Convenzione di Ginevra del 1949, derivata dal non sottoporre Nguyễn Văn Lém a regolare processo, sebbene, in realtà, la stessa definisca prigionieri di guerra, garantendone i diritti, coloro che, «membri delle forze armate di una Parte belligerante […] delle milizie e degli altri corpi di volontari, compresi quelli dei movimenti di resistenza organizzati», arrestati in operazioni militari, «rechino un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; portino apertamente le armi» ed alla mancata esibizione d’uniforme da parte dell’attivista, il Generale Loan, dette ragione d’esecuzione all’insigne ed indomita giornalista e scrittore, Oriana Fallaci (1929-2006), che lo interrogò — scovandolo in degenza ospedaliera a causa d’una ferita ad una gamba — riportandone testimonianza nel saggio Niente e così sia: «[…] io non riesco a rispettare un uomo che spara senza indossare l’uniforme. Perché è troppo comodo: ammazzi e non sei riconosciuto. Un nordvietnamita io lo rispetto perché è vestito da soldato come me, e quindi rischia come me. Ma un vietcong in borghese… Mi ha preso la collera. Mi ha accecato la rabbia. Mi sono detto tu, vietcong, non paghi il prezzo di questa uniforme, puoi nasconderti tu… E gli ho sparato».
Nella verità che rimase sospesa tra un fotogramma, divenuto raffigurazione pacifista e una parziale visione dei fatti priva del suo contesto di riferimento, si trovò psicologicamente ingabbiato lo stesso Eddie Adams, che si sentì mordere la coscienza a tal punto, per aver involontariamente riportato una storia parziale, quindi attendibile per metà, da sentirsi in dovere di porre le proprie scusa a Nguyễn Ngọc Loan ed ai suoi familiari, per lo sconfinato discredito a loro procurato nel corso degli anni, nonché, alla morte dello stesso, lodandone le azioni come mosse da giusta causa.
Nessun dubbio di veridicità per quanto concerne invece la seconda fotografia succitata, fuoriuscita dal click, in data 8 giungo 1972, per conto dell’Associated Press, del fotografo Nick Út, natali a Long An nel 1951, che raffigura la disperata corsa di Phan Thị Kim Phúc, la donna vietnamita nata nel 1863, al momento dei fatti d’appena nove anni, personificazione vivente delle devastanti atrocità provocate dalla guerra, nel suo caso a definitivo sfregio sull’animo e sull’epidermide, ampiamente ustionata su gran parte del giovane corpo, nonostante tutto custode di una smisurata e lodevole forza concentrata nelle sue piccole gambe d’infante che divenne gazzella in fuga dagli inferi, senza sapere quanto la sua toccante angoscia sarebbe stata assunta a simbolo primo degli orrori bellici.
Nick Út (1951), Kim Phuc, al centro, mentre ustionata sulla schiena e braccia fugge dopo dopo un bombardamento al napalm delle forze aeree del Vietnam del Sud, 8 giugno 1972
Le famigerate bombe erano state sganciate dalla Forza Aerea del Vietnam del Sud sul villaggio di Trang Bang, dopo stanziamento in esso delle truppe del Nord e alla piccola, completamente travolta da quel micidiale veleno, non restò che levarsi i vestiti di dosso e scappare, purtroppo a causa di un triste equivoco, infatti la fanciulla si stava dirigendo verso postazioni di sicurezza con una schiera di civili, che sciaguratamente venne per sbaglio identificata come nemica da un pilota sud-vietnamita e, nella sfortuna dell’accaduto, germinò un affettivo legame fra lei e Nick Út, l’amorevole fotografo seguendone passo passo la sua lunga e difficoltosa riabilitazione, durante i quattordici mesi di degenza e i diciassette interventi chirurgici subiti, grazie ai quali, stringendo i denti e ribaltando un pronostico medico che la dava per spacciata, Phan Thị Kim Phúc rinacque a nuova vita sulle macerie, per esperienza diretta del dolore attualmente adoperandosi in prima persona nella KIM Phuc Foundation, come ambasciatrice UNESCO donando prezioso sostegno ai bambini vittime di guerra.
Quanto sicuramente avrebbe voluto correre come lei, ogni soldato mandato al fronte nel fior fior dei propri anni e quante immagini ne riportano alla luce gli innocenti sguardi sacrificati per il sistema, come quello cristallino e benevolo del soldato Larry Wayne Chaffin, in barba a tutto buono e sorridente, che, immerso in quella scioccante situazione nella 173rd Airborne Brigade Combat Team, a strenua difesa della pista di atterraggio Pouch Vinh, South Vietnam, venne rapito dallo scatto del fotografo tedesco Horst Fass (1933-1985) il 18 giugno 1965, sempre per Associated Press, nel suo pensiero inciso sull’elmetto: War is hell.
Inferno che, qualora giunga benedizione di ritorno, infido e logorante, spesso persiste nei meandri più fondi della mente spalancando orridi psichici, ripercuotendosi e lacerando la carne, come accadde, somatizzando le sofferenze viste a Sebastião Salgado e ad Horst Fass, sciaguratamente colpito non a livello inconscio, ma deceduto sol trentanovenne per complicazioni diabetiche, verosimilmente ammalandosi, prestando servizio civile, a seguito d’esposizione all’Agente Arancio, defoliante abbondantemente irrorato dalla forza armata statunitense, sul territorio vietnamita meridionale.
Alla scritta, altro soldato, eternato in sospirante meditazione nel distretto rurale di Cu Chi, elmo adornò del viso dell’amata, quasi a mariana corona, stringendo speranze di promesse e preghiera di rifugio dai funesti boati, sibili plumbei, fatal insidie d’inumana barbarie insensatamente falcidianti moltitudini di figli, anime da ogni all’aldilà inattese.
War and Conflict, The Vietnam War, Cu Chi, South Vietnam, foto: maggio 1968, Un soldato americano ricorda costantemente la sua ragazza a casa, con il suo elmetto pieno della sua fotografia (Foto di Rolls Press / Popperfoto via Getty Images / Getty Images.
Avessero potuto sventolar un candido fazzoletto in segno di resa o di pace, tutte quegli incantevoli e innocenti animi costretti alla più bieca delle dannazioni, innalzando una bandiera collettiva in segno della ritrovata serenità, quand’invece vessillo incorniciato in leggendaria istantanea divenne quello del fotografo statunitense Joseph John Rosenthal (1911-2006), premio Pulitzer per U.S. Marines raising the flag on Iwo Jima, colto sulla scia della battaglia di Iwo Jima nell’azione di sei Marines al loro orgoglioso elevar nazionale drappo per l’avvenuta conquista del dorsale d’un promontorio dominante l’isola, importantissima espugnazione, data la posizione strategica che avrebbe permesso ai bombardieri pesanti agevolate partenze verso il nipponico continente.
All’appello i caporali Rene Arthur Gagnon (1925-1979) e Harlon Herry Block (1924-1945), il sergente Michael Strank (1919-1945), sergente, il veterano Ira Hamilton Hayes (1923-1955), il soldato scelto Franklin Runyon Sousley (1925-1945), ed infine John Henry ‘Jack Doc’ Bradley (1923-1994), autori d’un gesto la cui autenticità fu oggetto di diffuse titubanze, con Rosenthal frequentemente ed argutamente accusato d’aver predisposto a priori la scena privandola di naturalezza, visione ovviamente smentita dal professionista fino al suo ultimo giorno d’esistenza, caparbio nel dichiararne la spontaneità.
Se sulla sfera terrestre il dubbio è destinato a rimaner irrisolto, sul suo unico satellite bandiera degli Stati Uniti venne piantata fra crateri, il 20 luglio del 1969, dall’astronauta, aviatore e ingegnere Buzz Aldrin, nato nel 1930 come Edwin Eugene Aldrin Jr, secondo uomo ad aver avuto il privilegio di calcare superficie lunare nella missione Apollo 11, in compagnia del collega, comandante e aviatore, Neil Armstrong (1930-2012).
Solamente sette mesi prima, nel bel mezzo dell’Apollo 8, seconda missione spaziale con equipaggio, attivi gli astronauti Frank Frederick Borman II e James ‘Jim’ Arthur Lovell Jr, entrambi classe 1928, oltre a William Alison Anders, d’un quinquennio più giovane, rara opportunità agli stessi si presentò di poter entrare nel campo gravitazionale della luna e da lì ricever l’invidiabile dono di poter osservare il globo terrestre nella sua interezza, oltre a poter cortesemente invadere con lo sguardo il lato nascosto della Luna, della sublime esperienza portando a memoria stupefacenti istantanee della Terra, le prime a colori, una in particolare, le celeberrima Earthise di William Alison Anders, nella quale il Pianeta blu dall’oscurità affiora esibendo suprema beltà, lasciandosi sorprendere in un fotogramma prima d’inabissarsi nuovamente nei neri oceani spaziali.
L’immagine appare come un’armoniosa biglia azzurra, da candide e schiumose sfumature screziata, leggiadramente sospesa nel mistero del creato e a guardarla verrebbe da chiedersi come sia possibile e solamente pensabile indegnamente infangare l’onore della stessa e dei suoi figli, nostri fratelli, all’interno del cui petto palpita un personalissimo e intimo pianeta a forma di cuore, che nessun altra melodia dovrebbe suonare se non l’Amore in tutti i suoi accordi, di sé lasciando fotografia a immagine e somiglianza del moto primo che muove ogni tenue ingranaggio.
Facciamo fotografie per capire cosa significano per noi le nostre vite.
Ralph Hattersley
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