Sebastião Salgado, l’uomo e la Terra nella fotografia
Sebastião Salgado è della fotografia poeta, memoria, voce accorata eppur fidente nell’uomo che ha narrato ritraendo il cammino dei popoli, i volti dei lavoratori, le gesta e altrettanto la brutalità, mostrando guerre, ingiustizie e le conseguente sofferenza, dipingendo con medesima passione la solennità della Natura celebrandone l’imponenza e l’ingegneria, la delicata saviezza e la perpetuità. Filantropia e sensibilità espresse in un’arte da cui venne catturato all’improvviso, all’inizio degli anni ’70, quando lontano dal Brasile che lo vide nascere l’8 febbraio 1944, stava brillantemente entrando nel mondo dell’economia. Una carriera desiderata e inseguita che non esitò ad abbandonare, conservando però il ricordo di studi attraverso i quali aveva dato respiro a una lungimirante visione d’insieme poi riversata in una fotografia concepita come strumento d’informazione, tramite per muovere le coscienze, proporre riflessioni sulle problematiche sociali e ambientali, comunicare incanto e dissenso.
Sebastião Salgado Ribeiro Junior è cresciuto nella zona sudorientale di Aimorés, nello Stato di Minas Gerais, in un quartiere chiamato Expedicionário Alício come tributo al cittadino Alício Clara Simeão che nel corso della Seconda Guerra Mondiale, partì alla volta dell’Europa con le donne e gli uomini della Força Expedicionária Brasileira per combattere a fianco degli Alleati durante la Campagna d’Italia e sull’Appennino modenese, perì durante i violenti scontri avvenuti nel comune di Montese.
Verso il 1960, Salgado fu però costretto a trasferirsi per portare a termine gli studi, all’epoca la comunità offriva solo il biennio di scuola secondaria e così oltrepassò i confini e raggiunse lo Stato di Espírito Santo stabilendosi nella capitale Vitória, città costiera interamente circondata dall’acque dell’Oceano Atlantico. Il Brasile stava vivendo un periodo di notevole industrializzazione, progresso che alimentò il suo già forte interesse per la macroeconomia e finanza pubblica, per cui non appena concluse l’istruzione superiore proseguì la formazione iscrivendosi alla facoltà di economia dell’Universidade Federal. Per sostenere le spese trovò lavoro come contabile presso l’Alliance Française, ente privato che allora come oggi promuove la lingua e le culture francofone con una rete con oltre 1000 sezioni dislocate in 136 Nazioni. Nel 1964 quell’impiego gli dette modo di conoscere una 17enne educatrice elementare e insegnante di pianoforte: Lélia Deluiz Wanick, l’amore, l’amica, la collaboratrice di una vita, la donna senza la quale con ogni probabilità la fotografia non avrebbe annoverato fra i suoi maestri Sebastião Salgado.
L’avvento del regime e la fuga dal Brasile
Il 1° aprile di quell’anno però, avvenne il colpo di stato che mise fine al governo di João ‘Jango’ Goulart e vide il maresciallo Humberto de Alencar Castelo Branco inaugurare la dittatura dei gorillas, un regime militare efferato e criminale che avrebbe soffocato il Paese per oltre due decadi. I due giovani brasiliani, vicini all’area radicale di sinistra, condivisero l’impegno politico partecipando attivamente alle proteste, finanziando organizzazioni che si battevano contro un dispotismo che nel 1968, reagì all’intensificarsi delle contestazioni arrestando, torturando e uccidendo oppositori del governo, leader di movimenti politici, sindacali, studenteschi, persino artisti come Caetano Veloso e Gilberto Gil finirono in carcere a causa delle loro canzoni, salvo poi uscire dietro obbligo di esilio; una lontananza dalla patria a cui alla fine dovettero cedere anche loro.
La resistenza era ormai divenuta lotta armata e la coppia troppo esposta per le idee e le attività legate a gruppi rivoluzionari, tra cui l’Ação Libertadora Nacional guidato dallo scrittore e guerrigliero Carlos Marighella, spina nel fianco del regime e autore dei celebri e discussi Minimanual do Guerrilheiro Urbano e Pela Libertação do Brasil, si trovarono a dover scegliere fra allontanarsi dal Brasile oppure rimanere e vivere come clandestini in un clima di crescente repressione e gli stessi dissidenti che gli erano accanto, considerandone l’età e il matrimonio che avevano da poco celebrato, li esortarono a lasciare il Paese.
..E que eu por ti, se torturado for,
possa feliz, indiferente à dor,
morrer sorrindo a murmurar teu nome..
(Carlos Marighella, Rondó da Liberdade)
Ignari del fatto che i servizi segreti li avrebbero a lungo seguiti, nel 1969 salutarono le coste atlantiche per stabilirsi a Parigi, la ville lumière già dipinta da fotografi come Brassaï, Eugène Atget, Robert Doisneau, rifugio di tanti sudamericani in fuga e icona di libertà e democrazia, ambita meta d’ogni intellettuale brasiliano. Abitavano in un alloggio della centrale Cité internationale Universitaire, lo storico complesso dichiarato monumento nazionale ch’è da sempre il più importante luogo di accoglienza francese per studenti e ricercatori anche provenienti dall’estero. Salgado in patria si era laureato e conseguito un dottorato nella città di São Paulo a cui ebbero accesso un’élite di 20 studenti selezionati in tutto lo Stato, per cui niente ostacolò il suo ingresso alla prestigiosa Scuola Nazionale di Statistica e Amministrazione Economica, mentre Lélia Wanick, colpita dall’improvvisa scomparsa di entrambi i genitori, cancellò il pianoforte ed entrò all’Università di Belle Arti per dedicarsi all’architettura.
Studi che presto le richiesero essere in possesso di una fotocamera e così, durante un breve soggiorno nell’Alta Savoia acquistò una Pentax Spotmatic II con obiettivo Takumar 50 mm, non immaginando come quella macchina avrebbe stregato Salgado e dato una svolta alla loro esistenza: «Ho fotografato Lélia seduta vicino alla finestra. Quella è stata la mia prima foto. E ho provato una profonda gioia. Siamo usciti a fare una passeggiata in campagna ed ero inebriato dal pensiero di poter dar forma a tutto quello che vedevo […] Il contesto, la luce, il movimento, l’emozione provata…Un insieme di elementi che fanno di un concetto un’immagine. E’ un potere immenso. Una magia che ha invaso la mia vita».
Rientrati a Parigi creò una camera oscura nella dimora universitaria e nonostante la scintilla fosse ormai scoccata, era ancora l’economia ad avere il ruolo centrale. Tutto però iniziò a cambiare nel 1971, quando dalla sede londinese dell’International Coffee Organization gli arrivò un’offerta di lavoro che lo avrebbe impegnato in Africa in missioni affiliate alla Banca Mondiale per sviluppare nuovi sistemi di produzione e distribuzione. Un impiego che Salgado non esitò ad accettare e insieme alla compagna si trasferì in Inghilterra, in un appartamento nei pressi di Hyde Park. Sin dal primo viaggio rimase oltremodo colpito da un continente che ammetterà sentire come una sorta di seconda patria, «l’altro mio Brasile», territori e popoli che durante gl’incarichi cominciò a ritrarre focalizzando l’attenzione sulla condizione umana, ambientale e percepì quella strada appartenergli più di quanto non lo fosse l’economia e le prospettive di sviluppo.
Si parla molto, si fanno molte conferenze, ma si fa ancora troppo poco di concreto, non si fa abbastanza tra le persone, là dove le cose si realizzano.
Alla fine un nuovo dilemma da risolvere prese forma: seguire la ragione e continuare a svolgere un lavoro che un giorno avrebbe permesso loro di far ritorno in America ricoprendo qualche incarico di rilievo, oppure seguire il cuore e i turbamenti per ciò che aveva visto e a loro affidarsi gettandosi in un’avventura senza alcuna garanzia di riuscita. La storia perse un economista e ricevette in cambio un fotogiornalista che ne avrebbe descritto i luoghi dimenticati e violentati dando loro eco mediante sconvolgenti immagini di odio, carestie, esuli, fino a provarne il dolore sulla propria pelle e poi risorgere nei miracoli del Pianeta.
Nel 1973, sostenuto dalla moglie, Sebastião Salgado si concesse alla vocazione e come freelance si recò in Burkina Faso, Etiopia, Niger, documentando la fame e la sofferenza per la devastazione di raccolti e la perdita di intere mandrie a causa di prolungati e continui periodi di siccità. Fotografie che vennero pubblicate sulle pagine di varie riviste e l’anno successivo intraprese una collaborazione con l’Agenzia Sygma eseguendo reportage in Angola, Mozambico, Portogallo e del ’75 cooperò con la Gamma, facendo ritorno in Africa, girando l’Europa e l’America Latina, dove iniziò un prezioso e complesso saggio incentrato sugli indigeni, i contadini, la gente comune, il ritratto povero del continente terminato solo nel 1984 e due anni più tardi, con il titolo Altre Americhe, uscì simultaneamente in Brasile, Francia, Spagna e Stati Uniti.
Sebastião Salgado, l’orrore e la malattia
Nel frattempo Lélia Wanick concluse gli studi di architettura e soprattutto gli fece dono di Juliano, nato nel ’74 e rimasto per un lustro in attesa del fratello Rodrigo, arrivato in famiglia lo stesso momento in cui Salgado rispose all’appello della leggendaria Magnum Photos dei fondatori Capa, Cartier-Bresson, Seymour, Eisner, Rodger e Vandivert, rimandovi legato per 15 anni, quando l’amarezza e lo sconforto nei confronti dell’uomo presero il sopravvento sulla speranza, persino sulla salute e si allontanò dalla sua fotografia, quella realtà in bianco e nero avvolta da infinite sfumature di grigio che per tanto tempo aveva toccato e poi offerto perché fosse creduta.
Dall’84 all’86 insieme Medici Senza Frontiere aveva attraversato Senegal, Mali, Nigeria, Ciad, Sudan, Eritrea, compiendo scatti che urlavano la disperazione di gente massacrata dalla mancanza di cibo e acqua, bambini i cui occhi avevano smarrito l’età, donne e uomini consumati nell’anima prima che nei corpi. Immagini che Sebastião Salgado presentò con il volume Sahel: Alla Fine della Strada, donando i proventi del libro e delle successive esposizioni all’organizzazione umanitaria.
Cosa ho imparato? Il potere della dignità. E’ un potere così forte che ho speranza possa mettere fine alla miseria, alle guerre e all’ingiustizia sofferte da questa gente. Il popolo africano è assai lavoratore, tuttavia non ha case, non ha sanità, non ha istruzione. E’ ora che cominci a ricevere un poco di quel tanto che gli hanno tolto.
Nel ’90 con Un Incerto Stato di Grazia mostrò i minatori brasiliani sepolti nell’argilla alla ricerca dell’oro, dopodiché elevò l’essere umano santificandone il sacrificio, la resistenza, la capacità di adattamento con La Mano dell’Uomo, quando era già stato in Kuwait, in quella che dodici anni più tardi sarebbe diventata la Prima Guerra del Golfo.
Ne dette attestazione esibendo l’inferno di 700 pozzi petroliferi, incendiati dall’esercito di Saddam Hussein per ostacolare il cammino della coalizione guidata degli Stati Uniti. Fotografie che ritraggono pompieri e tecnici impegnati a fermare la follia per cui quello stesso petrolio – causa di una guerra che avrebbe visto l’Iraq affrontare 35 nazioni, la più imponente alleanza militare mai formata prima – andare in fiamme e concludersi in un colossale disastro ambientale, soffi e lingue di fuoco che Sebastião Salgado ricorda come «la fine del mondo, un mondo intriso di nero e di morte».
Nel 1994 iniziò anche il percorso che lo porterà in 40 Paesi di tutti i continenti per creare In Cammino, più di 400 pagine dove illustrava il fenomeno delle migrazioni, argomento di cui si era occupato già nel ’79, esaminando il grado d’integrazione degli immigrati concentrandosi principalmente in Francia, Olanda, Germania, Portogallo e Italia, anticipando ampiamente quindi l’attenzione globale: «Credo che da voi ci sia un problema di percezione del fenomeno. Queste migrazioni ci sono sempre state, ma solo ora l’Europa si accorge che esistono, perché tutte queste persone fuggono verso l’Occidente. Ho lavorato su questo tema per oltre sette anni, e posso dire che la situazione non era migliore o peggiore di come è ora. L’unica differenza è che ora tutto sta accadendo all’interno dei vostri confini».
La fotocronaca vide la luce nel 2000 e poi integrato in Exodus nel 2016, ma il 1994 è stato anche il momento in cui gli effetti dei drammi respirati a pieni polmoni per traslarne la verità in fotografie, esplosero quando si fece testimone del terrificante genocidio avvenuto in Ruanda e l’abominio divenne malattia: «Vidi la brutalità totale, vidi la gente morire a migliaia al giorno. Persi la fiducia nel genere umano. Non credevo che fosse più possibile per noi vivere. Iniziai ad avere infezioni dappertutto». Malessere e perdite di sangue, che lo spinsero a farsi visitare da un medico di Parigi e la diagnosi fu tristemente sorprendente, tanto da non lasciarlo indifferente. La malattia era la morte alla quale troppe volte era stato accanto e se da lei non si fosse allontanato, lo avrebbe portato con sé: «Devi smettere – gli consigliò il dottore – altrimenti ne morirai».
Crollato in una crisi tanto grave da smorzare la fiamma che lo aveva spinto a farsi cronista di lacrime, emarginazione, indifferenza e orrori, Salgado fece ritorno in Brasile, nella fattoria dei genitori dov’era cresciuto e raccolse la proposta che gli lanciò la moglie, ovvero ricreare l’ecosistema che un cieco progresso aveva dilapidato, riportando quindi quella parte di selva tropicale ad avere l’aspetto rigoglioso di un tempo, quando la sua maestosità non era ancora stata deturpata dalla costante deforestazione.
In pochi anni, oltre 2 milioni e mezzo di alberi appartenenti a più di 300 differenti specie, andarono a ripopolare quello che ormai somigliava sempre più a un deserto e l’esperienza fu cura per lo spirito e ispirazione. Impugnò nuovamente la fotocamera e trasformò quella rinascita in un progetto dall’eloquente nome: Genesis. Dopo tante pubblicazioni in cui la vicenda umana era stata assoluta protagonista, questa venne catturata a margine e all’interno del regno della Natura.
Pubblicato nel 2013, è stato il risultato di una ricerca che Sebastião Salgado ha condotto dal 2004 al 2012 andando alla scoperta di universi incontaminati, immergendosi fra montagne, animali, deserti, popolazioni distanti e ignote, restituendone la dimensione con la consueta intensità e gentilezza di chi nutre amore per la Terra e ha il privilegio di saper ascoltare il reale.
Adoro vivere con la gente, osservare le comunità, gli animali, gli alberi, le pietre. È un’esigenza che proviene dal profondo
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