Alekos Panagulis, un Poeta Visionario
Era il 21 agosto del 1973, quando Alekos Panagulis lasciò quella cella semi-interrata, alla quale sopravvisse negli ultimi tre, dei 5 anni di prigionia.
Un incubo che ebbe inizio il 13 agosto del 1968, quando l’allora 28enne Panagulis, fallì l’attentato dinamitardo ai danni di Georgius Papadopulos, dittatore greco salito al potere l’anno precedente.
Catturato e tratto in arresto, affinché svelasse i nomi dei complici e i retroscena dell’attentato, è vanamente sottoposto a terrificanti sevizie per mesi. Panagulis non parla fino al processo tenutosi a novembre e davanti alla corte, anziché tentare una difesa si dirà pentito «soltanto di non essere riuscito a ucciderlo» e benché intollerante verso ogni forma di violenza, concluderà affermando che questa si rende necessaria «quando un governo si impone con la violenza, con la violenza impedisce ai cittadini di esprimersi e addirittura di pensare».
Ad attenderlo c’è la fucilazione, ma quando tutto sembra ormai scritto, l’opposizione internazionale riesce a sospenderne l’esecuzione. Panagulis è quindi condotto nelle prigioni di Boiati e per lui, sarà l’inizio di un calvario atroce, un tempo reso infinito dalle continue e brutali torture alle quali tenterà di sottrarsi tentando più volte di evadere.
Alèxandros Panagulis, questo il nome per intero, è stato un uomo che munito unicamente di ideali democratici, ha combattuto fino allo stremo contro la corruzione e l’oppressione di una tirannia, che prima di crollare ha tentato inutilmente di non farne un martire-eroe, dapprima revocandogli la condanna a morte, poi restituendogli la libertà con una grazia immediatamente ripudiata: «Non l’ho chiesta io. Me l’hanno imposta loro. Io son pronto a tornare in prigione anche subito».
Quando il 1 maggio 1976 muore in un incidente d’auto, la cui dinamica non è mai stata chiarita, i funerali sono invece proprio quelli di un eroe, salutato da una folla immensa che urlando “Panagulis vive!”, lo celebra simbolo di una resistenza, per la quale non smise di combattere neppure da uomo libero, continuando a raccogliere materiale che comprovasse i rapporti fra il nuovo governo greco e il vecchio Regime dei Colonnelli, documenti che il 5 maggio, avrebbe presentato in Parlamento.
Il 23 agosto del ’73, Oriana Fallaci vola ad Atene per intervistare Panagulis, un incontro che prima di trasformarsi in un amore intenso e travagliato, si conclude con una domanda alla quale non è certo facile rispondere: «Cosa significa essere un uomo?».
«Significa avere coraggio, avere dignità – la risposta di Panagulis – Significa credere nell’umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata “Se”».
“Un Uomo”, sarà poi il titolo di quello che è forse il capolavoro di Oriana Fallaci, un libro nel quale lo scrittore – come amava definirsi – narra la parabola di un ex ufficiale dell’esercito greco, di un visionario e non per ultimo, di un poeta.
Un poeta che durante gli anni di carcere, scrisse i propri versi con il sangue e quando non aveva nulla su cui imprimere le parole, lasciò che fosse la memoria a conservarle e tenerle vive oltre la follia, che in quel sepolcro di 2 metri per 3 dov’era chiuso, chiunque avrebbe almeno sfiorato.
Alekos Panagulis, descriveva la poesia “un urlo” e nessuno potrà darne un’immagine migliore e definirne l’essenza in modo più corretto.
Componimenti che saranno voce sulle note del Maestro Ennio Morricone, urla di fede e solitudine come quelle contenute in “Ricorda“, un dialogo con la cella che lo ospita ormai da tre anni e alla quale affida la memoria perché nulla venga dimenticato.
Cella che i tuoi muri sono scritti
con le scritte della Lotta
a quanti verranno dopo di me
ricorda tutti gli istanti che ho vissuto qui dentro
Se i miei pugni adesso non piegano le sbarre
e se il sangue che gocciola è il mio sangue
Non è questo che mi fa vergognare
[…]
e per i giorni che mi hai visto soffrire la fame
tanti giorni
e per i miei occhi che hai visto piangere
e le mani contratte
[…]
e per il mio disprezzo
che così evidente dimostro ai tiranni
Ricorda
non c’è istante che voglio che si dimentichi
e non c’è un istante che mi vergogni
Sangue che diventa “La Tinta” con la quale scrivere, trovando la forza di schernire quelle guardie che gli tolgono carta e penna; e allora la stupidità diventa infinita come la crudeltà.
Ho dato voce ai muri
gli ho dato voci
perché mi facciano un po’ di compagnia
I secondini cercano e ricercano
dove ho trovato la tinta
I muri della cella
tengono il segreto
i mercenari frugano e rifrugano
e lo stesso non trovano la tinta
Non gli è venuto in mente
di frugarmi le vene
Se è stato un eroe, tradizione vuole che questi siano soli o lasciati soli quando si fa pericoloso o semplicemente faticoso stargli accanto, quando si fa scomodo più che stargli contro. Ieri come oggi, indifferenza e non-partecipazione sono esattamente come il servilismo.
Panagulis si scaglia contro il silenzio e l’arte d’adeguarsi, con la stessa rabbia che prova verso la tirannia, è “Tempo di Collera“:
Voi, tombe che camminano
insulti viventi della vita
asassini del vostro pensiero
fantocci in forme umane
[…]
Voi che avete dimenticato il passato
che vedete il presente con occhi appannati
che non avete interesse per il futuro
che respirate solo per morire
[…]
Sappiate allora voi
scuse viventi di ogni tirannia
che i tiranni li odio tanto
tanto quanto ho schifo di voi
Ad animarlo è stata la Libertà e il profondo significato che ha in sé, una tra le parole più abusate. Lasciata cadere nella banalità, difesa mai abbastanza, troppe volte data per scontata o vivendo con l’illusione d’averla e non provandone continuamente l’esistenza, uscendo dal silenzio per cercarne il contatto.
Libertà ch’è come amore, e se in amore donare non può mai esser sacrificio, nei pochi versi di “Devi Vivere” c’è quanto serve per vedere il fuoco che gli ha permesso di resistere e sopravvivere a torture fisiche e mentali, che in questa poesia, sembrano avergli lasciato segni solo nella carne.
Se per vivere,
o Libertà
chiedi come cibo la nostra carne
e per bere vuoi il nostro sangue
e le nostre lacrime,
te li daremo
Devi vivere
Versi tratti dalle poesie pubblicate in “Altri seguiranno” (1972) e “Vi scrivo da un carcere in Grecia” (1974).
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