Istanbul, viaggio tra Oriente e Occidente
Incastonata sulle rive del Bosforo, Istanbul, è per estensione, densità di popolazione, valenza storica, culturale, economica e meraviglia paesaggistica, tra le principali città della Repubblica di Turchia.
A Istanbul, a differenza di quanto succede nelle città occidentali con le vestigia dei grandi imperi del passato, i monumenti storici non sono reliquie protette ed esposte come in un museo, opere di cui ci si vanta con orgoglio. Qui le rovine convivono con la città. Ed è questo ad affascinare viaggiatori e scrittori di viaggi.
Orhan Pamuk, Istanbul
Presenza umana sul suolo d’Istanbul, come confermato da reperti neolitici, risale almeno al VI millennio a.C., tuttavia considerandosi l’inizio concreto della sua storia, come cittadina, attorno al 660 a.C. circa, periodo in cui i coloni greci, provenienti dalla remota Megara — della quale mitologico sovrano Byzas — ne gettarono fondamenta all’originario nome di Bisanzio, in brevissimo tempo, grazie alla strategica posizione egemonica sul Bosforo, ossia lo stretto che collega il Mar Nero al Mare di Marmara, portando l’acropoli a divenire centro di rilevante importanza al punto da esser oggetto di contesa fra Sparta ed Atene, durante la seconda Guerra del Peloponneso, che le vide avversarie fra il 431 a.C. e il 404 a.C.
Dopo circa sei secoli, nel 196 d.C. la città venne assoggettata a dominio romano sotto il governo dell’imperatore Lucio Settimio Severo Augusto (146 d.C. – 211 d.C.), nei due anni precedenti subendo totale devastazione in quanto schieratasi contro lo stesso, in alleanza con l’usurpatore dell’Impero Pescennio Nigro (135/140 – 194), ma dallo stesso Severo riportata velocemente ai suoi antichi splendori.
L’ascesa al potere di Costantino I (272 d.C. – 337 d.C), conosciuto come Costantino il Grande, ne apportò un’ulteriore e significativo sviluppo, ispirandosi il suo complesso di costruzione direttamente alla città di Roma, motivo per cui Bisanzio cedette nome a Nova Roma — successivamente Costantinopoli in omaggio all’imperatore romano — il territorio della stessa arricchendosi d’un Foro, d’un palazzo imperiale e d’innumerevoli edifici religiosi e civili, divenendo talmente prospera da aggiudicasi il merito d’esser proclamata, nel 330, capitale dell’Impero Romano e, nel 395, dell’Impero Bizantino; fra le tante opere di Costantino I, degno di nota fu l’ampliamento dell’Ippodromo precedentemente eretto da Settimio Severo, fulcro sportivo-sociale cittadino, non di rado protagonista di rivolte o manifestazioni popolari.
A quell’epoca Costantinopoli, che tale nome avrebbe mantenuto fino al ventesimo secolo, si trovava all’apice della gloria, con la sua postazione, fra Tracia ed Anatolia, collegando Europa ed Asia, unica metropoli a mondo suddivisa tra due continenti, pertanto divenendo mondiale riferimento commerciale, politico e culturale, oltre che farsi culla del diritto romano grazie al Corpus Iuris Civilis, raccolta di documentazioni giurisprudenziali, in lingua latina, su sprone dell’imperatore bizantino Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano (482-565), noto come Giustiniano I, allo scopo di mettere ordine nel sistema giuridico corrente.
La popolata, ampia e florida cittadina conservò sontuosità e cristianità, di stampo ortodosso, per quasi un millennio, riuscendo a proporre una struttura politica equilibrata, nonostante gli inevitabili attriti interiori, tuttavia iniziando lieve decadenza al termine del regnare di Basilio II Bulgaroctono (958-1025) e, un settantennio più avanti, data la razzia conseguente alla quarta crociata (1202-1204), capeggiata dal marchese Bonifacio I del Monferrato (1150-1207), creandosi, da lì al 1261, uno stato feudale sotto governo dei crociati, passato alla storia come Impero latino di Costantinopoli (o d’Oriente).
Cedute le redini nelle mani, rispettivamente, degli imperatori Michele VIII Paleologo (1223-1282) e Andronico II Paleologo (1258-1332), la gestione militare di quest’ultimo, nell’ottica del ridimensionare le milizie a difesa della città, si fece vassoio d’argento per l’attacco dell’esercito ottomano che, con ingegnosa tattica militare, nel 1453 conquistò definitivamente Costantinopoli dopo otto settimane d’assedio, facendone la capitale dell’Impero Ottomano.
A capo delle truppe il sultano Mehmed II (1432-1481), detto il Conquistatore, il quale, nell’immediatezza, s’adoperò, tramite imam, per promulgare credo islamico a partir dalla Basilica di Santa Sofia, tramutata in moschea, dunque completamente restaurando Costantinopoli dal punto di vista urbano-strutturale e valorizzandola in speciale modo nel suo centro cittadino, cospargendola di sfarzose moschee e in più ripopolandola aprendo porte a differenti nazionalità europee, inglobando nei suoi confini una comunità multietnica, forte della ricchezza di più culture al suo interno.
Attraversate, nel sedicesimo secolo, drammatiche pestilenze che ne decimarono la popolazione, florido incremento demografico e rinascita architettonica-artistica seguirono sotto il regno di Solimano il Magnifico (1494-1566), o Suleiman I, l’artigianato ottomano prosperando in meravigliose opere di vetro colorato o ceramica, oppure manifestando meraviglia nell’arte della miniatura e della calligrafia.
Corposa modernizzazione fiscale, amministrativa e militare si verificò sotto l’innovatrice guida di Mahmud II (1785-1839), il cui anno della morte corrispose al Decreto di Tanzimat, da cui l’omonimo periodo storico successivo, fra il 1839 e il 1876, ereditario di tutte le riforme concepite dal deceduto sultano, attraverso la prosecuzione della sua attività tramite i figli Abdulmejid I (1823-1861) e Abdulaziz (1830-1876), allo scopo di una completa riorganizzazione dell’Impero ottomano nel tentativo di rafforzarne la sua potenza in antitesi al nascente spirito nazionalista in virtù al quale, a partir dal diciannovesimo secolo, le minoranze etnico-religiose non musulmane avanzarono richieste d’identità e autonomia, dando vita a numerose ribellioni nel tentativo di scongiurare le quali Abdulmejid I tentò, invano, di varare nuove leggi affinché i non musulmani e i non turchi venissero aggregati alla società ottomana e lo fece in assoluta fede all’ottomanismo, pensiero secondo cui l’unica possibilità di sostenere integrità dell’impero sarebbe stata quella di favorire una coesione sociale al suo interno, per evitare che lo stesso si disgregasse sotto i colpi dei nazionalisti, concetto d’integrazione a cui s’ispirò la bandiera nazionale turca, adottata nel 1844.
Nonostante il declino dell’impero ottomano fosse alle porte — a partire infatti dal 1908 il movimento dei Giovani turchi avrebbe con successo iniziato rivoluzione al fine di trasmutare l’Impero in una monarchia costituzionale, con ripristino del Parlamento — durante il periodo Tanzimat, Costantinopoli si rinnovò strutturalmente e tecnologicamente, svecchiando dal punto di vista tanto idrico quanto elettrico, in più collegandosi per via ferroviaria alla rete europea, per mezzo di collegamenti costruiti sul Corno d’Oro, principale corso d’acqua urbano e insenatura del Bosforo nell’attuale Istanbul.
L’ufficialità della fine dell’impero ottomano, nel frattempo sconfitto durante la prima guerra mondiale, porta data 1° novembre 1922, con conseguente fondazione della Repubblica di Turchia, nel 1923, e spostamento della capitale da Costantinopoli ad Ankara; di lì ad un quinquennio Costantinopoli avrebbe variato nome in Istanbul, su volontà e spinta dello stato di dare nomi turchi alle proprie città.
Ovviamente deviate maggiori attenzioni sulla nuova capitale, Istanbul venne inizialmente tralasciata, tuttavia, fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta rifiorendo soprattutto sotto la conduzione politica di Ali Adnan Ertekin Menderes (1899-1961), che ne le migliorò la rete stradale ed accrebbe la costruzione d’industrie, garantendole deciso sviluppo; grandi opere sono tutt’oggi ancora in corso e se da una parte ne fortificano l’assetto economico, dall’altra rischiano d’offuscare l’oggettiva bellezza di una cittadina senza tempo, oltretutto minata da vari attacchi terroristici e dal celere aumento demografico dovuto alla cospicua migrazione, a partire dagli anni settanta, da parte degli abitanti dell’Anatolia, con conseguente necessità di nuovi quartieri, di frequente abusivi, a discapito delle zone naturali, tuttavia dal 2010 Istanbul comunque annoverandosi con onore fra le capitali della cultura ed alcune sue aree storiche entrando a far parte dell’UNESCO, a riprova del suo originario incanto completamente da scoprire fra sete di sapere ed appagamento panoramico, sullo sfondo d’una città cosmopolita colma di storia e vicissitudini da ripercorrere passeggiando fra sue pulsanti arterie.
Istanbul fra storia, spiritualità…
Magnificente esempio architettonico plasmatosi evolvendo in base ai cambiamenti storici susseguitisi, la Basilica di Santa Sofia, o Grande Moschea Benedetta della Grande Hagia Sofia, è imponente edificio religioso da sempre principale luogo di culto di Istanbul.
Attuale sede del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, la basilica venne eretta in tre chiese, nel 350 la prima, e nel 405 la seconda, con rispettive inaugurazioni nel 360 e nel 415, quindi, nel 532 partendo la costruzione di una terza chiesa da sostituire alla seconda — in quanto distrutta da un incendio — su volere dell’imperatore Giustiniano I il quale, con assiduo trasporto, si premurò di seguire ogni fase lavorativa e, ad opera ultimata, nel 537, stupefatto nel posare lo sguardo sul sublime manifestarsi agli occhi dell’architettura bizantina, non potendo che dichiararsi pienamente soddisfatto del risultato ottenuto, per raggiungere il quale egli fece arrivare materiali da più parti dell’impero, impiegando circa 10.000 persone per il completamento dell’immane impresa.
Fra le mura della stessa trovarono solenne alloggio capolavori artistici d’inestimabile valore e fattura, sparsi fra mosaici a fondo d’oro, colonne in pregiati marmi, in granito o in porfido, disegni adagiati su marmoree lastre, reliquie, icone, decorazioni figurative, sacra oggettistica e affreschi con scene di vario genere, il tutto contenuto in tre navate ed un’abside, sormontate da una cupola con quaranta finestre che rendono agli interni un particolarissimo gioco di luci dall’effetto mistico, calamitante innumerevoli visitatori che, naso all’insù, s’appagano del sorprendente spettacolo luminoso.
Fra il 562 e il 1054 culla delle religione cristiana, cattolica e bizantina, fra il 1054 e il 1204, oltre che fra il 1261 e il 1453 ortodossa, fra il 1204 e il 1261 cattolica di rito romano, infine, fra il 1453 e il 1931 di culto islamico, la struttura venne sconsacrata nel 1935 e trasformata in museo dal primo presidente turco Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), il cui decreto è stato annullato dall’odierno presidente Recep Tayyip Erdoğan il 10 luglio 2020, con nuova delibera a favore di una ripresa professione della religione islamica all’interno di quella che è tornata ad essere una moschea.
A ricoprire paritetica rilevanza in terra turca, sebbene le minori dimensioni rispetto a quella di Santa Sofia che, insieme all’Ippodromo di Costantinopoli, si trova nelle adiacenze, restando il trio di stabili situato nel quartiere di Sultanahmet, è la Moschea Blu, o Sultanahmet Camii, il cui nome direttamente nasce dalle più di ventimila piastrelle turchesi incastonate nella cupola e nelle pareti, lasciando che celeste sfumatura prevalga nell’ambiente, riflettendo il chiarore che proviene dalle 260 piccole finestre che generosamente si fanno mezzo di passaggio alla luce esterna e ricreando un’atmosfera incantevole, coinvolgente e quasi onirica.
Testimonianza di stile architettonico ottomano, ultimata nel 1616, dopo circa otto anni di lavoro, intrapreso su direttiva del sultano Ahmed I (1590-1617), nell’intento di renderlo il luogo di culto più importante dell’impero, a rafforzamento del potere ottomano, egli stesso s’adoperò nella scelta dell’architetto a cui affidare il progetto, nella persona di Sedefkar Mehmet Agha (1540-1617), risultando una struttura provvista di sei minareti dorati ed un ampio cortile, dal quale si può osservare la meticolosa e ricercata proporzione del palazzo, all’interno piacevolmente abbandonandosi all’atmosfera turchina succitata, dove tappeti sparsi e lucenti lampade pendenti dall’alto incorniciano la sala della preghiera; maioliche e arabeschi catturano istantaneamente l’attenzione e fra gli stessi domina una marmorea loggia che custodisce un frantume della sacra Pietra Nera, una roccia, delle dimensioni di un pallone da calcio, incassata nella remota costruzione, denominata Kaʿba, interna alla Sacra Moschea, al centro della Mecca, in Arabia Saudita, davanti alla quale si fermano brevemente i pellegrini, baciandola in segno di devozione.
I vari stadi d’edificazione della Moschea Blu vennero riportati in otto tomi preservati nella biblioteca del Topkapı Saray, palazzo, quest’ultimo, realizzato all’incirca a partire dalla metà del quindicesimo secolo, al cui interno è ospitato il museo maggiormente visitato di Istanbul, interessante dal punto di vista culturale in quanto storica dimora di sultani tra la fine del quindicesimo secolo e l’inizio del ventesimo, all’epoca strategico centro di potere, data la sua collocazione in affaccio sul Bosforo.
Progettato su volontà del sultano Maometto II (1432-1481) come nuova residenza, la zona scelta per iniziare un’edificazione monumentale protrattasi per una decade fu la parte più alta di Costantinopoli, garantendo l’altezza del promontorio maggior capacità difensiva e desiderata tranquillità quotidiana da trascorrere all’interno di 70.000 metri quadri ricoperti da chioschi, giardini, fontane ed edifici di varia utilità per condurre una serena e privilegiata esistenza all’interno di fortificate mura.
Il maestoso complesso è suddiviso a in quattro vaste corti:
• nella prima è la vegetazione a farsi protagonista, con pendii terrazzati che degradano direttamente verso il mare e, di quel poco sopravvissuto al tempo, si può vedere la Zecca imperiale e la Chiesa bizantina di Santa Irene, allora anche utilizzata come armeria, oltre che una fontana nella quale si narra che i giazzinieri, unità di fanteria domestica poste a guardia del sultano, lavassero le spade dopo aver eseguito esecuzioni;
• la seconda, alla quale s’accede oltrepassando il Cancello del Saluto, apre porte agli ambienti culinari, ivi potendo ammirare argenti, cristalli e porcellane cinesi di mirabile valore e quelli che furono la panetteria, le scuderie imperiali, l’ospedale di palazzo e il locale dove si riuniva il Dîvân-i humâyûn, «Gran Divano», ossia il Consiglio Imperiale Ottomano, ma interessante e prolungata sosta merita l’Harem, residenza di spose e concubine, oltre che dello stesso sultano, dei suoi figli e d’eventuali parenti, dunque una struttura in grado d’ospitare centinaia di persone, con innumerevoli vani;
• è il Cancello della Felicità a permetter d’accedere alla terza, dove, oltre alla Biblioteca di Ameth III (1673-1736), sensazione di procedere a ritroso nel tempo la si può provare entrando nelle Camera delle petizioni, un chiosco con 22 colonne dove il sultano riceveva in udienza i propri interlocutori, l’intero ambiente reso ancor più principesco dalla presenza di un trono a baldacchino, foderato di broccato e smeraldi, da pareti e soffitti con preziosissime decorazioni, fra mosaici e gioielli, e da abiti d’epoca ed annessi monili del Tesoro imperiale, fra cui il Diamante del Fabbricante di Cucchiai, che con i suoi 86 carati risulta essere il quinto al mondo per grandezza, inoltre al centro della corte, nel padiglione denominato, del Mantello Sacro, «Hirka-i-Saadet», sono preservate le reliquie di vari profeti, fra le quali quelle dello stesso Maometto II.
• la quarta e ultima corte è occupata da vari padiglioni ricreativi e appellata Giardino dei Tulipani, in quanti gli stessi fiori, ai tempi presenti in grandi quantità e curati, prediletti da Ameth III, comprende una spettacolare terrazza panoramica affacciata sul Bosforo, luogo, con vasca in marmo e un baldacchino in rame, l’İftariye Kameriyesi, voluto da Ibrahim I (1615-1648), nel quale si racconta che il sultano amasse trascorrere le serate, in completo rilassamento, cenando dopo il digiuno imposto dal Ramadan.
Oltrepassata la prima cinta muraria di Topkapı, si può visionare il grandissimo Museo Archeologico, un incommensurabile raccolta di reperti, ragguardevole a livello mondiale, fondato alla fine del diciannovesimo secolo dal pittore e archeologo turco Osman Handi Bey (1842-1910) il quale, all’apice della sua nomea in campo pittorico, si mise alla conduzione di scavi archeologici in terre libanesi, a Sidon, recuperando numerosi sarcofagi d’inestimabile valore, per lo più di provenienza greco-romana, e da lì ideando progetto d’esporli in un museo — insieme a varie statue, tra le quali una splendida testa di Saffo — per donarne visione pubblica; la realizzazione del progetto, durata dieci anni con inaugurazione nel 1881, venne affidata alla competenza dell’architetto franco-ottomano Alexandre Vallaury (1850-1921), il cui estro diede alla facciata dell’edificio, di stampo neoclassico, la forma del Sarcofago di Alessandro, il più importante fra quelli riportati alla luce.
Altro reperto degno di nota è il Sarcofago delle Donne Piangenti, il quale ancora trattiene in sé tracce di colore che in un baleno catapultano in epoche lontane; concede divertimento ai più piccini un museo loro dedicato.
Tre sono le strutture, oltre al museo principale di archeologia, vi sono infatti due stabili di minori dimensioni, il Museo dell’Antico Oriente, in cui poter visionare collezioni di oggettistica pre-islamica, basso/altorilievi, statue, documenti con antiche scritture e il Museo dell’Arte islamica, nel quale sono serbate le famose ceramiche ottomane di Iznik, prima Nicea, risalenti all’impero medievale musulmano sunnita, in capo alla dinastia Selgiuchide, governante dall’undicesimo al quattordicesimo secolo e informative sull’evoluzione tecniche nel corso dei secoli completa degnamente l’interessante percorso.
Ulteriore sito degno di visita è la Yerebatan Sarnıcı, che in lingua turca significa «cisterna sommersa», in quanto appunto trattasi di un’antichissima ed enorme cisterna sotterranea, ultimata da Giustiniano I nel 532, sui resti di quelle che si dice fosse una remota basilica, in stile architettonico romano, ottenendone un capolavoro in cui purpuree luci soffuse, il caratteristico e deciso aroma dell’umidità permeante le narici ed il silenzio diffuso, fanno da rilassante sottofondo all’osservazione delle 336 colonne, a variegata conformazione in quanto provenienti da diversi templi, distribuite su 12 file di 28; tra le stesse, ad attirare maggiormente sono quelle in cui vennero scolpite delle lacrime in omaggio agli schiavi morti durante i lavori — ne vennero impiegati all’incirca 7.000 — e le due su cui dominano teste di Medusa, una capovolta e l’altra di profilo, il che per evitare di guardare dritto negli occhi colei che, in tal caso, avrebbe trasformato in pietra chiunque avesse osato guardarla.
Durante l’epoca bizantina la cisterna conteneva le acque cittadine, il cui ricambio era garantito da un acquedotto localizzato ad una ventina di chilometri, dopo la costruzione del Topkapı Saray oltretutto divenendone fondamentale approvvigionamento idrico.
Immediato piacere distende i pensieri nel frizzante e curioso girovagare tra i viali del Grande Bazar d’Istanbul, il mercato coperto più grande della città, traboccante migliaia di bancarelle e botteghe d’ogni genere che si stagliano su 45.000 metri quadri di superficie, suddividendosi su una sessantina di strade, con più porte d’accesso e il che rende in un istante l’idea della sua magnificenza, gradatamente raggiunta nei secoli, a partire da quel lontano 1455 in cui Maometto II ne decise costruzione, iniziando da edifici che commerciavano tessuti e gioielli, da allora sorgendo eterogenei ed assortiti laboratori artigianali che, decennio su decennio, giunsero all’attuale organizzazione.
Prima della ristrutturazione avvenuta a seguito di terremoto del 1894, la particolarità del mercato consisteva nel fatto che i commercianti non vendevano la loro merce all’interno di negozi, ma sedendo su legnosi divani davanti agli scaffali, o armadietti sotto chiave, esposti a bordo strada, in predeterminati spazi detti dolap, «stallo», permettendo ai visitatori una sosta che diveniva arricchimento al di là dell’oggetto da acquistare, nell’amabilmente conversazione intrapresa con il mercante sedendosi al suo fianco e magari sorseggiando un caffè turco, in tal modo portando a casa un pezzo di folklore, gentilmente acchiappato e gelosamente custodito, fra cuore e udito, attraverso la potenza di parole e ospitalità oltre confine.
Ciò che è rimasto intatto nella disposizione, ora come allora, è il concentrarsi di attività similari nelle stesse vie, spesso nominate in base alle attività, gli stessi delineandosi come numerose arterie pulsanti la cultura d’una città che mai come altre rappresenta le multiformi diramazioni d’una nazione tuttora radicata nel suo trascorso.
Abbiamo tutti più di un padre in questo paese. Il governo, Dio, il sultano, il padrino…Senza un padre, in Turchia non si può vivere.
Orhan Pamuk, La donna dai capelli rossi
…Arte e natura
Per viceversa immergersi nell’arte contemporanea, irrinunciabile tappa di viaggio è l’Istanbul Modern.
Fin dal 1987 a Istanbul s’avviarono le prime mostre d’arte contemporanea al nome International Istanbul Contemporary Art — oggi Biennale di Istanbul — di fatto durante quegli anni variando più volte la sede, perlomeno fino alla fondazione, nel 2004, dell’Istanbul Modern, inizialmente ricavato in un ex-deposito marittimo sul Bosforo, dove rimase fino al 2018, venendosi a creare, in quel magazzino del ‘50, una soluzione su due piani, l’inferiore ospitante le mostre transitorie, l’Istanbul Modern Cinema e una biblioteca, il superiore dedicato all’esposizione permanente (composta da artisti turchi e internazionali), oltre alla presenza di sale dedicate alle progettazioni educative, un punto vendita commerciale e un ristorante; dal 2018 il museo s’è temporaneamente trasferito nell’Union Française su Meşrutiyet Avenue, storico stabile concepito nel 1896 dal succitato Vallaury, dove resterà fino al 2021, in attesa d’ultimazione di una nuova location nella quale trapiantarsi definitivamente.
La fondazione dell’Istanbul Modern sottintese la volontà di portare alla ribalta e divulgare la vena artistica turca, seppur nel rispetto della propria identità culturale e l’attuazione di questo proposito avvenne e avviene tramite la presentazione d’opere d’arte, design, architettura, fotografia, cinema e nuove tecnologie, nella costante ricerca di partnership internazionali; svariate attività interdisciplinari, rivolte a tutte le fasce d’età, si propongono di coltivare l’amore per l’arte a livello trasversale, indipendentemente dal ceto sociale di provenienza.
Con l’obiettivo d’esportare il patrimonio multiculturale turco, collaborazioni di spessore sono costantemente intraprese con vari paesi, una su tutte quella intrecciata da tempo con il MoMA, reciprocamente condividendo esperienza e innovazione nel settore e attirando a sé sempre maggiore interesse e considerazione a livello planetario, nell’attesa che la nuova struttura, progettata dall’eccelsa mente dell’architetto Renzo Piano, possa aprire i battenti dando adito a nuove avventure.
Istanbul non è solo storia, arte e cultura in genere, ma bellezza naturale da scoprire addentrandosi nei suoi molteplici parchi, fra i quali l’Yıldız Parkı, che s’offre alla vista come storica area verde urbana fra le più grandi della città, in passato appartenente al giardino imperiale del Palazzo Yildiz, durante il regno del sultano Abdul-Hamid II (1842-1918), in epoca bizantina foresta e in periodo ottomano anche utilizzata per battute di caccia.
Ad oggi il parco, sul quale antropica mano ha disegnato due laghetti artificiali, ingloba una moltitudine di giardini, che accolgono fra i loro terreni piante e fiori provenienti da più parti del globo, con remoti padiglioni nei quali ristorarsi e ritrovare il contatto con la natura che solamente la vicinanza della flora riesce a rispolverare, fra una camminata e l’altra solleticati nello spirito dalle fronde di cedri, tassi, ippocastani, frassini, querce, pini e cipressi, altrettanto stimolati nell’olfatto da alloro e magnolie, con possibilità di soffermarsi a contemplare la fabbrica di porcellane tuttora in attività e una rasserenante occhiata al fascino del Bosforo.
L’assortita varietà della vegetazione rende colori e profumi in ogni periodo dell’anno, divenendo l’oasi una specie di magico boschetto in cui ritirasi, affrancandosi dai rumori e dalle pressioni della quotidianità, dedicandosi momenti di necessarie coccole e rigenerante relax, benché in piena metropoli, quindi concludendo giornata all’insegna del piacere più arcaico.
A contendersi primato di grandezza con l’Yıldız Parkı è l’Emirgan Parkı, una remota area che in era bizantina era completamente ricoperta di cipressi, attualmente recintato da elevate mura e disteso ai piedi di una collina, sulla costa europea del Bosforo.
Anch’esso dotato di un paio d’artificiosi laghi, ne adornano la superficie circa 120 specie di alberi, alcuni molto rari, fra i quali piccoli spazi ricreativi sono stati appositamente studiati per ospitare i visitatori con degna accoglienza, quindi predisponendo aree picnic e piste da jogging, riagganciando il passato storico turco la presenza di tre padiglioni in legno, sorti nel diciannovesimo secolo per desiderio del governatore ottomano Ismāʿīl Pascià, il Magnifico, (1830-1895).
Il Padiglione giallo, dagli anni ‘80 aperto al pubblico con servizio di caffetteria, è una capiente costruzione in legno su due piani, simile a uno chalet, anticamente predisposta come dimora di caccia, i cui interni sono decorati con raffinata e tradizionale arte ottomana, fra dipinti e incisioni d’eccellente manifattura.
Il Padiglione rosa e il Padiglione bianco, anch’essi su due piani, egualmente ornati con maestria ed ambedue preposti a caffetteria come quello giallo, si predispongono in più a divenire, rispettivamente, locale atto a congressi e cerimonie, il rosa, ristorante serale, con offerta di pietanze tipicamente turco-ottomane, il bianco.
Esperienza unica all’Emirgan Parkı è il festival nazionale dei tulipani che, dal 2005, si svolge ogni anno in onore al fiore che rappresentò la pacifica epoca ottomana, storicamente nota come Periodo dei tulipani, «Lâle Devri», compresa tra il 1718 e il 1730, originandosi la definizione dalla tradizionale e diffusa pratica di coltivazione del fiore, ai tempi ritenuto simbolo di aristocrazia.
Attrazione turistica per antonomasia ed eccezionale punto panoramico è il Ponte di Galata, tratto congiungente la parte vecchia e nuova della città, percorribile tanto da veicoli a motore, quanto da pedoni e completato nel 1994 per quanto riguarda la sua ultima costruzione, derivata da altri precedenti quattro ponti fabbricati negli anni 1845, 1863, 1975 e 1912, per i turchi metafora dell’unione di tutte le culture presenti nella loro amata terra.
Lambito dalle acque del Corno d’Oro, percorrerlo significa attraversare secoli di storia e mettere a bagaglio un patrimonio di conoscenze, inoltre godendone sia dal punto di vista architettonico, sia folcloristico, trovandosi nel suo livello più basso numerosi locali dove poter gustare piatti tipici turchi.
Ponte che peraltro si erge dove l’estuario si getta nel Bosforo laddove questi si immette nel Mar di Marmara, non lontano dalle nove Isole dei principi — Büyükada, Heybeliada, Burgazada, Kınalıada, Sedefada, Yassıada, Sivriada, Kaşıkada e Tavşanada — d’estasiante appariscenza, nonché memoria di nobili e reali bizantini in esilio, perciò della ricevuta denominazione.
Raggiungendole mediante traghetto si possono trascorrere giornate alternative ripercorrendo quelle che furono le antiche abitudini, essendo le stesse sprovviste d’automobile ed avvenendo gli spostamenti ancora a bordo di carri trainati da cavalli, i fayton, o di semplici biciclette, oltretutto abbellendone il profilo dell’aria sfarzosi edifici in stile vittoriano.
Ci si porta in tasca frammenti di libertà, abbandonandosi in questo sognante arcipelago fra spiagge e colline, arricchendo i piedi di erranti passi e magari sciogliendo stanchezza sul calar della sera, nel sorseggiare un aperitivo fra la melodia delle onde ed un verso di gabbiano.
Escursione a pari merito indimenticabile è una Crociera sul Bosforo, della quale vi sono varie tipologie, a seconda delle personali preferenze di tragitto ed orario, in quest’ultimo caso scegliendo in base al proprio desiderio di farsi cullare dall’acqua al chiarore della sfera solare nel pieno della sua potenza oppure se goderne nelle sfumature degli arancioni che la screziano al tramonto.
In ogni caso, comodità di battello condurrà il viaggiatore nelle membra di un Istanbul frazionata fra Asia ed Europa, nel complesso del tour potendo osservarne le costruzioni che ne vestono le sponde, quindi palazzi storici, abitazioni caratteristiche, castelli, torri, chiese, ponti e quant’altro la cittadina sia in grado di mostrare di sé attraverso le rive dello stretto che ne lambisce i dolci fianchi.
Ma il culmine del romanticismo spetta di diritto alla Torre della Fanciulla, «Kiz Kulesi», o Torre di Leandro, armonicamente posata su in isolotto a sud del Bosforo, in una posizione dalla quale è visibile da qualsiasi punto della fascia costiera, la cui struttura originaria parrebbe risalire al 408 a.C., eretta dal generale e politico ateniese Alcibiade (450 a.C. – 404 a.C.) a fini di controllo sul circolo delle navi, poi ricostruita nel 1110 dall’imperatore bizantino Alessio I Comneno (1048-1118) a scopo di sbarramento, infatti la stessa venendo collegata con una catena ad un’ulteriore torre localizzata sul litorale; ne seguirono svariati restauri, fino alla definitiva edificazione in pietra del 1763.
Raggiungerla, tramite piccole imbarcazioni messe appositamente disposizione di chi desideri poggiarvi piede, significa potersi graziare lo sguardo, a 360 gradi, dell’ampio e ricco panorama accampato sulle coste del Bosforo, in quello che oggigiorno è divenuto un faro all’interno del quale è possibile deliziare palato nel Maiden’s Tower Restaurant, oltre a brindisi al bancone del Kuledebar, sia sulla cima del torrione che sulla punta del proprio cuore, qualora si condividesse esperienza in compagnia della propria anima gemella, dunque cioccando vetri come palpiti e scambiandosi gli occhi nell’apprendere le numerose leggende che gravitano sull’aura della torre.
Kiz Kulesi è un ammaliante sito in cui porsi all’ascolto d’ogni pietra che lo compone, ciottoloso scrigno di perdute vicende. È uno spiazzo dove abbandonarsi, fra mare e cielo, alla seducente melodia di onde che si amalgamano fra due continenti, come se il faro ne fosse bottone in aggancio di confini. È luogo che può diviene nido indelebile alla memoria, per amanti miscelatisi in quella specie d’incantesimo che è l’amore. Ma soprattutto è una meta di viaggio, un gradevole indugio di marcia, una meritata pausa durante la quale esplorare a colpo d’occhio tutto quanto visitato, stando seduti come acquietati viandanti in pellegrinaggio sul mondo, nella certezza che la fine d’un viaggio corrisponda sempre ad una nuova partenza e in questa ottica Istanbul è attracco e distacco, è città nella quale girovagare inciampando nelle sue eclettiche radici attecchite in svariati imperi — il romano (330-395), il bizantino (395-1204 e 1261-1453), il latino (1204-1261) e l’ottomano (1453-1922) — e relative religioni dagli stessi professati, tuttavia perfettamente in grado d’accogliere la diversità all’interno delle sue frontiere, che divengono abbracci in cui stringere i propri figli e mano tesa ai viandanti.
Non è vero. Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: «Non c’è altro da vedere», sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.
Josè Saramago
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