Dodo, racconto e monito di un animale estinto
Dozzinale quanto mediocre convinzione di taluni che vi sia un’indiscutibile e scontata corrispondenza fra le sembianze fisiche ed il quoziente intellettivo (correlazione che in determinate personalità ha ragion di sussistere, pur non costituendo la regola), impoverisce dell’opportunità di scoprire il valore proprio ad ogni uomo indipendentemente delle fattezze corporali, precludendosi l’ulteriore possibilità d’interagire profondamente con l’universo circostante, compreso il floreale ed il faunistico, al di là della bellezza immediatamente percepibile.
Non di rado, animali con espressioni curiose del viso e goffaggini corporali, vengono scherniti e, di primo acchito, etichettati come incapaci di qualsiasi apprendimento, zotica opinione che all’umana ragione fornisce la semplice conferma di quanto alcuni uomini si ritengano erroneamente superiori alla totalità delle specie animali, precludendosi il privilegio di un reciproco arricchimento che nasca dal considerarne il valore esistenziale, parallelamente e complementariamente significante al proprio.
Plateale esempio di sottovalutazione, uno strambo pennuto endemico delle Mauritius (ove si presume sia giunto dall’Asia Meridionale) ed estintosi nella seconda metà del XVII secolo, che di sgraziataggine e stramberia corporale fu degno rappresentante, il quale racchiude nel raddoppio di una sillaba un nome originale ed immediatamente gradevole nel divertente suono fonetico, però non troppo gratificante nel significato. L’etimologia resta incerta, tuttavia alcune fonti affermano che possa derivare dall’olandese dodoor, «fannullone», mentre secondo altre prende origine dal termine portoghese doudo, ovvero «sempliciotto», ma il dodo, scientificamente denominato Raphus cucullatus, columbiforme, stando alla ricerca condotta dal team della biologa Eugenia Gold (sezione di Scienze Anatomiche della Stony Brook University) e pubblicata sulla rivista scientifica Zoological Journal of the Linnean Society, possedeva un’intelligenza oltre aspettativa, facoltà suggerita dalle dimensioni del cranio.
Inattesa sorpresa è stata, ad apertura di cranio e successive radiografie tridimensionali, la proporzione del cervello in rapporto al corpo, maggiore di quanto ipotizzato, oltre ad una capacità olfattiva desunta dalla grandezza dei bulbi, nettamente più grandi in riferimento ai propri simili, paragonandolo ai quali, al dodo è stata riconosciuta parità d’intelletto, fino a prima dello studio considerato di minor acutezza rispetto a quello di altri volatili affini; mistero ancora da svelare resta tuttavia il superiore sviluppo dell’olfatto rispetto alla vista, solitamente negli uccelli più evoluta rispetto allo stesso.
Valore aggiunto ai risultati ottenuti, si concretizza in dono nello sconfessar empiricamente un dubbio che pretendeva considerarsi verità in virtù di supposizioni meramente pregiudizievoli, quanto infondate, nell’azzardata negazione d’un acume intellettivo che come boomerang ritorna ai mittenti.
L’intelligenza è negata agli animali, solo da coloro che ne posseggono assai poca.
Arthur Schopenhauer
Il mondo del dodo
Appartenente, insieme ad altre 300 specie, alla famiglia delle Columbidae, a livello di classificazione scientifica unica famiglia dell’ordine Columbiformes, principale caratteristica corporale dei columbidi è la robustezza del tronco rispetto alla testa minuta, giallastre e resistenti zampe simili a quelle di una gallina e voluminoso e rigonfio becco lungo una ventina di cm, dall’uncinante forma del quale si evincerebbe che rompesse noci di cocco a fini alimentari. Ciò che distingueva il dodo dai suoi simili, solitamente eccellenti volatori dalle ampie ed aitanti ali, era la sua incapacità di volo, motivo per cui la nidificazione avveniva a terra, cosi come la ricerca del nutrimento, principalmente costituito da frutti, semi duri, preferibilmente quelli dell’albero di Sideroxylon grandiflorum, anticamente denominata Calvaria major, anche detto “albero del dodo”, e, può essere, piccoli crostacei. Terreno da cui resti i fossili recuperati hanno permesso di presupporne la progenitorialità in esemplari d’un metro circa d’altezza, la cui lunghezza doveva essere di poco inferiore ai 40 cm, aumento d’una quindicina di cm fu probabilmente dovuto all’evoluzione che portò gli ultimi dodi a raggiungere un probabile peso di circa 30 kg, modifica strutturale dovuta presumibilmente ad un favorevole habitat, in concomitanza ad una bassa presenza di predatori ed alle vantaggiose condizioni climatiche che ne favorirono di conseguenza l’annuale e perenne permanenza in loco, variabili alle quali fu consequenziale un progressivo atrofizzarsi delle ali ed accorciamento della coda che, pertanto, risultarono incompatibili con l’attività di trasvolata.
La pacifica esistenza del dodo in delicata ed intensa armonia con il proprio ambiente, emana un senso vitale che incanta nella misura in cui le modifiche dell’aspetto corporale, siano state conseguenza del benessere e della tranquillità nella quale si è potuto adagiare, prima che il tocco dell’uomo ne sciupasse l’interattiva attitudine. Il giungere sull’isola di portoghesi ed olandesi, con annessa importazione di specie alloctone, ossia specie viventi che, ad indiretta o diretta causa dell’uomo si trovano in costretto adattamento ad un ecosistema differente dal loro originario, rientra fra le verosimili variabili che, fra la razzia delle uova del dodo (solamente una ogni covata), in quanto più raggiungibili rispetto a quelle sopraelevate, la caccia al fine d’impossessarsi delle sue piume bianche, più pregiate rispetto alle grigie, e sopraggiunta attività predatoria, o gozzovigliante sul cibo disponibile, di cani, gatti, macachi, topi e maiali, dalla quale lo stesso, ormai impossibilitato a volare, fu ferocemente perseguitato, s’inserirono come deleterie modifiche di biosistema dannose per la fauna in esso dimorante, unite a disboscamenti dell’isola a favore dell’attività umana, in contrapposizione al benessere faunistico ad ampio raggio. Stupro della natura che, per il dodo, secondo le teorie più accreditate, si rivelò inevitabilmente fatale, estinguendone pietosamente e sfacciatamente l’intera specie, un dramma da ogni punto di vista, ineluttabilmente consumato nel corso dei tempi, da considerarsi tale qualora l’intervento umano venga a coincidere con la distruzione d’una parte dello stesso pianeta che, paternalmente ospitante, si trova depredato di alcuni suoi figli da coloro che dovrebbero considerarli fratelli, la cui sopravvivenza garantire.
Dallo studio delle ossa di ventidue esemplari, condotto nell’Africa del Sud, la vita del dodo, prima dell’umano sopraggiungere priva di predatori naturali, si è dedotta intrisa di euritmica ed interdipendente sintonia con Madre Natura, in deposizione di uova nel mese di agosto e successiva schiusa in settembre, con balzo di pulcini ai quali una celere crescita permetteva di affrontare l’ostile clima estivo australe fra cicloni e tempeste, pronti essi stessi per la riproduzione a partire dall’anno di età. La ricostruzione ossea, permettendo d’intuirne la camminata, oltre a fornire informazioni sulla struttura corporale, rivelatasi poi meno paffuta del previsto, ne ha inoltre rilevato la somiglianza con il piccione, del quale il dodo sembra la caricatura ingigantita; inoltre, l’assenza della cresta ossea, fondamentale in quei volatili che utilizzano le ali per combattere, ha permesso di supporne l’indole meno aggressiva di quanto si pensasse, in virtù di una maggiore docilità.
Il continuo e veloce aumento della propria taglia corporea farebbe inoltre pensare che, se l’uomo non fosse intervenuto, l’infinita evoluzione isolata (riferita ad una zona circoscritta) del dodo, sarebbe proseguita nell’incanto del suo melodioso modificarsi in reciproco riguardo all’ambiente circostante, mutazione per la quale la mancata frequentazione dei cieli che ne svigorì progressivamente le ali, fu parallela ad un crescente fiuto che gli permise di percepire i semi sotto il livello del terreno, aiutandosi nello scavo con le possenti zampe.
Il commovente e simbiotico interagire del dodo con la natura circostante, simbolicamente si concretizza nell’esclusiva interazione biologica e lo stretto legame che lo stesso parrebbe aver instaurato con la Calvaria major, vegetale monoico (a sessi separati) i cui frutti eran custoditi da una sottile buccia, una morbida polpa ed un legnoso nocciolo notevolmente compatto, il cui spessore di 15 mm parrebbe esser stata la causa d’una difficoltà di germinazione degli stessi semi, nonostante questi apparissero fertili e ben formati. Ipotesi dell’ornitologo Stanley A. Temple suggerita dal fatto che, oltre ai secolari, non furono all’epoca ritrovati giovani esemplari, motivo per cui l’interrogativo che alcuni studiosi si posero, ha ricondotto la scientifica tesi all’estinzione del dodo come intoppo riproduttivo della pianta che, sulle prime in protettiva evoluzione mirata a difendere l’endocarpo dai “colpi di becco” del dodo, ne sviluppò una maggiore consistenza millimetrale, divenuta allo stesso tempo eccessiva barriera per lo sboccio dei semi i quali, proprio grazie alla meccanica azione digestiva del pennuto, rigurgitati o defecati dallo stesso, avrebbero ritrovato occasione di germoglio. Ad avallare tale supposizione, sembrerebbe essere l’arrestarsi riproduttivo della C. Mayor, successivo all’estinzione del dodo, tristemente scomparso dalla faccia della terra fra il 1662 ed il 1681, sebbene le affermazioni di Temple, ad un solo anno dalla pubblicazione sulla rivista Scienze, furono progressivamente polemizzate da vari scienziati i quali, dopo la scoperta di alcuni giovani esemplari di alberi, seppur rari, confutarono definitivamente la correlazione da Stanely sostenuta.
Al di là della reale motivazione che portò la C. Major a diminuire drasticamente la propria attività riproduttiva, resta l’incanto degli effetti che la relazione fra due esseri viventi ha emanato nel corso dei tempi, sviluppandosi con estremo riguardo nei confronti dell’ecosistema di cui l’uomo, con ingrato colpo di spugna, ha cancellato alcune parti senza possibilità di ritorno.
Il dodo, simbolo dell’estinzione
Insieme al panda, il dodo rappresenta, come animale simbolo del World Wildlife Fund, il fiducioso messaggio di conservazione e rispetto nei confronti della natura.
Estinto l’uno ed a rischio di diventarlo l’altro, ad unire il triste destino delle due amabili creature è lo sfregio dell’uomo sul rispettivo habitat che, nel caso del panda, oltre allo smodato bracconaggio, è causa prima della graduale scomparsa del bambù dalle foreste, fondamentale nutrimento del simpatico orsetto dai malinconici occhi, che il pittore naturalista Sir Peter Scott scelse ad emblema del WWF, numerose iniziative richiamano, il paffuto volatile dal grande becco per diffondere un messaggio di sensibile coinvolgimento nei confronti del pianeta, dei suoi abitanti e a sostegno degli ambientalistici progetti.
Ad ampio spettro, l’immagine del dodo si è diffusa nel tempo in maniera capillare anche attraverso i media, in particolar modo tramite fiabeschi programmi per fanciulli fra i quali, nel 21 maggio del 1990, L’albero azzurro, innovativa trasmissione nata dalla mente del produttore Franco Iseppi e rivolta alla fascia d’età prescolare ad intento prettamente pedagogico, il cui protagonista indiscusso era Dodò, un pupazzo a pois le cui sembianze rimandavano ad un cucciolo di dodo.
In cocomitanza al rosato cane dal ciuffo fucsia Uan, peluche animatore della concorrente trasmissione, Bim, bum, bam (rivolta anche a bambini più grandi ed in onda dal 1983), Dodò allietò i pomeriggi degli infanti più piccini girando il mondo in compagnia del signor Cavalli e dimorante in un magico albero azzurro sempre pronto ad aiutarli fra proposte di gioco, filastrocche e canzoni stimolanti gli innocenti e puerili animi alla bellezza del mondo, raccontato attraverso elementi naturali, temporali ed emotivi, passando per la concretezza degli elementi di comune incontro quotidiano e domestico, in una sorta di avvolgente esperienza sensoriale su più fronti e deputata all’apprendimento di manualità in elaborazione di pulsioni.
Dodò e Uan, nonostante vari conduttori si siano alternati alla presentazione dei pomeridiani programmi succitati, sono state le uniche due presenze fisse sull’intero percorso, intrecciando i televisivi destini sul filo della fiducia loro concessa dai piccoli spettatori, quasi che le menti degli stessi, di sovrastrutture ancora flessibili, siano maggiormente in grado, rispetto alle adulte, d’interazione in purezza.
La percezione della natura in genere, in particolare modo per quanto riguarda la fauna sua figlia, parrebbe godere di maggiore energia nell’infanzia, in una sorta di fratellanza inversamente proporzionale alla crescita, dove l’aumento dell’età sembrerebbe svigorire l’intensità del rapporto. Indubbiamente divertente e deliziosamente appagante appare infatti la vista d’un fanciullo che si rotoli in un prato o, ancora, della magica intesa fra corse e sguardi tra lo stesso ed un cucciolo domestico, così come il bambinesco annusare d’un fiore, lo scorrersi tiepida sabbia fra le dita o lo stupirsi di fronte ad una cascata. Genuinità d’animo da proteggere, stimolare ed evolvere in virtù d’una cortesia nei confronti del pianeta che sia da considerarsi fondamentale al crescere e sacra all’esistere, specialmente nell’attuale epoca ove l’incessante progresso, il conseguente inquinamento e la scarsa considerazione delle fragilità ecosistemica, hanno gradualmente condotto l’umanità verso un pericolosissimo punto di non ritorno raggiungendo il quale, l’assidua ed incessante ricerca di benefici e rientro economico presenteranno un conto difficilmente sostenibile, oltre che sul lungo tempo devastante.
Già nel 2005, i risultati d’un progetto di ricerca di valutazione degli ecosistemi del millennio denominato Millenium Ecosystem Assessment (MEA), ad opera d’un migliaio abbondante di scienziati di differenti provenienze ed intrapreso a fini valutativi nel tentativo di azzardare futuri scenari, considerando gli ultimi andamenti, hanno tristemente certificato un degradamento delle risorse naturali, anticipandone l’esponenziale deterioramento nel giro di mezzo secolo.
L’ingannevole (faziosamente ed inegualmente redistribuito) benessere conseguito all’industriale e tecnologico progredire, il crescente consumo di acqua dolce, nutrimento, legname e l’estremo impiego di fonti energetiche, uniti al consequenziale avvelenamento atmosferico, sono stati agenti incommensurabilmente ed irrimediabilmente logoranti la biodiversità ambientale, allargando per l’assurdo l’irrefrenabile divario esistente fra popolazioni in condizioni di povertà e benestanti, allontanando sempre più il traguardo che gli MDG (Millenium Development Goals), ossia gli otto obiettivi di sviluppo del millennio che gli stati membri dell’ONU si prefiggono di raggiungere entro il 2015, ossia:
• sradicare la povertà estrema e la fame nel mondo
• rendere universale l’istruzione primaria
• promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne
• ridurre la mortalità infantile
• ridurre la mortalità materna
• combattere l’HIV/AIDS, la malaria e altre malattie
• garantire la sostenibilità ambientale
• sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo
(fonte: Wikipedia)
Cosciente proposito d’inversione dei processi mortificanti i biosistemi ed a tutela delle necessità prime di tutti i popoli, sostenuta dal progetto di ricerca internazionale MEA, il cui obiettivo consiste nell’individuare lo stato degli ecosistemi globali, valutandone l’impatto che il cambiamento degli stessi ha sull’uomo ed ipotizzarne scientifiche soluzioni di rimedio, nobile progetto per il quale si rende necessaria una responsabile revisione delle politiche mondiali con attiva e motivata partecipazione da parte di tutte le istituzioni, al fine di supportare la vita a livello ambientale e nutritivo, con particolare supervisione dei cambiamenti climatici e nell’assoluto rispetto della variabilità delle differenti culture.
Un immane rincorsa al salvataggio della sfera terrestre, consumata, bistrattata ed impoverita a tal punto dall’esser sull’orlo d’un disfacimento senza precedenti, tentando una virata di pensiero che parta da un approccio concettuale in grado di onorare della degna considerazione anche il più minuscolo degli esseri viventi, ritornando a concepire l’esistenza come un insieme di creature la cui sopravvivenza è fondamentale e necessaria al benessere universale. Oltre alla galoppante estinzione di numerose specie animali, recenti dati sull’ecatombe d’insetti ne prevedono l’estinzione nella misura del 40% in pochi decenni, ad una velocità che supera di ben otto volte l’estinzione di rettili, uccelli e mammiferi, una silenziosa tragedia a risvolti sconvolgenti sul futuro dell’impollinazione (minata e soprattutto dalla riduzione delle preziosissime api ed affini), del riciclo nutritivo dei suoli ai quali gli stessi provvedono e della catena alimentare fluviale e lagunare da loro costituita, come nutrimento primo per rettili, pesci ed uccelli. Medesimo destino per grilli e cavallette, alimento primo di numerosi animali nonché cibo del futuro per l’uomo, oltre che per farfalle e falene, sensibili al clima e pertanto fondamentali indicatrici dei cambiamenti climatici, decimate dall’inquinate atmosfere, dalle violente deforestazioni, dall’eccessivo utilizzo di fertilizzanti e dal continuo aumento delle temperature, fattore, quest’ultimo, a beneficio di altre specie d’insetti, meno importanti per la conservazione ambientale, come mosche e scarafaggi, in deciso e celere aumento.
Un deplorevole stravolgimento ad opera umana di equilibri costituitisi a cavallo di ere e magicamente intrecciatisi in un’armonia tristemente trascurata e vergognosamente sfregiata, scivolata nell’oblio di animali estinti i cui occhi, come quelli del dodo, emanano una nostalgia di fondo che trafigge al solo pensiero di come alcuni uomini fatichino a capire d’esser l’infinitesimale anello d’una catena in cui tutti gli anelli dovrebbero convivere in armonico e stretto aggancio, allentato purtroppo dal loro ostinato ed ottuso non comprendere quanto ogni essere vivente vada considerato nel contesto universale che tutti ci accoglie, bieco atteggiamento che, quando adottato fra uomo ed uomo, sfocia in atteggiamenti denigratori, esempio primo i bullistici atti che avvelenano la nostra epoca, nonché la mancata coscienza che dovrebbe garantire ad ogni persona in stato di difficoltà d’essere sorretta da un mano fraterna e non indicata a giudizio e scherno dal turpe dito della stessa.
E tutte le creature che sono sotto il cielo, ciascuna secondo la sua natura servono, conoscono e obbediscono al loro creatore meglio di te, o uomo.
San Francesco d’Assisi
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