Alberobello e Shirakawa-go: unione di tradizione e cultura
Sono diecimila chilometri scarsi a distanziare il comune pugliese d’Alberobello e la nipponica cittadina di Shirakawa-go, fra le due essendo in itinere un percorso di futuro gemellaggio il cui progetto materializzatosi sulla somiglianza delle caratteristiche costruzioni, infatti fra i rispettivi trulli e le case rurali giapponesi in stile gasshō-zukuri sussistendo analogie che ne accomunano conformazione e popolarità, Oriente ed Occidente legandosi sull’onda d’antiche e tradizionali realizzazioni dall’intramontabile ed incantevole fascino.
Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente.
Ígor Stravinskij
I trulli di Alberobello
Nel dialetto locale appellato «Larubbèdde», Alberobello è situato nella parte sud-orientale del capoluogo pugliese, Bari, primo intervento antropico sul territorio concretizzandosi all’inizio del sedicesimo secolo per mano di famiglie contadine inviate in loco — a fini di bonifica e coltivazione, con vincolo di corrispondere decima del raccolto — dal condottiero, letterato, gran siniscalco e conte di Conversano, Andrea Matteo III Acquaviva d’Aragona (1458-1529), il cui casato avendo acquisito il feudo, fino al 1481 di proprietà dei duchi Caracciolo di Martina Franca e iniziale attività urbanistica venendo avviata dal subentrante, nobile, militare, politico e mecenate Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona (1600-1665), detto ‘Guercio di Puglio’, il quale, a partire dal 1635, dopo aver eretto una locanda con annessi oratorio e taverna, diede via libera all’edificazione di minuscole case dalla particolarità d’essere costituite da “muri a secco”, ossia con blocchi di pietra — nello specifico, carsica e calcarea — posizionati senza utilizzare leganti, il nascente centro abitato costellandosi gradualmente più di 1500 trulli e Alberobello, unico quartiere dell’intera regione a possederne in cosiffatta quantità e concentrazione, il 27 maggio 1797 affrancandosi da servitù feudale su decreto del monarca Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie (1751-1825).
Riconosciuti nel 1996 come bene protetto dall’UNESCO, i trulli nacquero dunque in conseguenza al tentativo di Giangirolamo II d’evitare versamento d’imposte al Regno di Napoli, in quanto un’ordinanza del XV secolo — storicamente nota come Pragmatica de Baronibus — imponeva un tributo ad ogni nuovo centro urbano, legge che venne appunto aggirata con la costruzione senza uso di malta o cemento, per modo da rendere l’idea di abitazioni transitorie — pertanto non soggette a tassazione come le permanenti — e per innalzare le quali i contadini si procuravano pietre nelle campagne oppure ricavandole dai terreni dopo avervi installato cisterne sotterranee, quindi rendendole tonde o quadrate per mezzo di lavorazione approssimativa e infine accatastate con paziente precisione, secondo tecniche che si presumono di preistorica provenienza.
Nonostante a riguardo sussistano differenti teorie, la maggior parte degli storici, pur non potendo escludere con inconfutabile certezza autoctona genesi dei trulli — ne ipotizza un’influenza del Vicino Oriente, data l’innegabile similitudine architettonica con i thòlos, monumenti funerari risalenti alla tarda Età del Bronzo e a successivamente il 1500 a.C., diffusisi in un’ampia area del Mediterraneo — soprattutto nella regione greca ad opera della civiltà micenea — nondimeno i terreni pugliesi e la composizione calcarea e stratificata del sottosuolo offrendo lauta quantità di materiale direttamente sul posto, prime coniche strutture essendo formate da un solo vano e adibite a transitorio alloggio o magazzino per attrezzi agricoli, nel tempo le stesse ingrandendosi ed assumendo ruolo di definitiva abitazione in conseguenza al sempre maggiore popolamento delle campagne per effetto del feudalesimo e della ripartizione dei fondi feudali, al locale principale aggiungendosene modularmente altri di minori dimensioni e solitamente destinati a ridotte stanze per il riposo notturno degli infanti; a contrastare la scarsa luminosità dovuta alla presenza di piccolissime finestrelle e d’un unico ingresso, era l’antica usanza di sistemare davanti a quest’ultimo del mobilio che contenesse almeno uno specchio a riverbero di luce, la tondeggiante muratura perimetrale di cospicuo spessore da un lato svantaggiosamente riducendo eccessivamente gli spazi interni, ma per rovescio di medaglia dall’altro mantenendo il calore e proteggendo dal freddo durante il periodo invernale, viceversa garantendo frescura nella stagione estiva, in una sorta di primitiva bioarchitettura in anticipo sui tempi.
Il tetto, diversificatosi a seconda delle varianti, segue la pianta pressoché circolare del trullo, elevandosi tramite la sovrapposizione di pietre in cerchi — perfettamente in equilibrio fra loro — che si riducono ad ogni livello, nell’insieme formando una specie di gradinata rientrante nella quale all’interno rimangono le pietre più spesse, dette «chianche», mentre all’esterno le lastre più sottili — le «chiancarelle» — e solitamente il vertice terminando con una chiave di volta spesso scolpita con decori simbolici, esoterici o di buon auspicio, al posar del pinnacolo ornante le sommità seguendo celebrative festicciole inaugurali e ad oggi le artigianali dimore rappresentando il principale richiamo turistico della Puglia, stoicamente donandosi allo sguardo dei visitatori in tutta la loro peculiare attrattiva, derivata dall’operato di maestri trullari che prima d’iniziare edificazione sterravano un quadrato oppure un cerchio — a seconda della forma desiderata — contemporaneamente assicurandosi di aver scavato un fossato in grado di raccogliere adeguatamente l’acqua proveniente dalle gronde.
Delle architetture religiose presenti ad Alberobello è la Chiesa Sant’Antonio di Padova unica al mondo ad essere stata innalzata come trullo — fra il gennaio 1926 e il giugno 1927, in cima al Rione Monti su terre gentilmente donate da Antonia Cammisa — per volontà del sacerdote del paese don Antonio Lippolis (1886-1972) il quale, dopo averla fatta realizzare in tempo record su progetto dell’insigne disegnatore e falegname Martino De Leonardis e messa in opera di maestranze rigorosamente locali allo scopo di mantenerne concezione tipica del luogo, la dedicò al Santo che fu «martello degli eretici», Lippolis pertanto proponendosi, attraverso un novello luogo di culto, di recuperare le anime protestanti della zona; la chiesa sorge su pianta a croce greca, la cupola raggiungendo i ventun metri e mezzo d’altezza, il campanile, alto quasi diciannove, ospitando sei campane e le mura custodendo opere dello scultore e pittore barese, Adolfo Ugo Rollo (1898-1985) — fra cui il Cristo dominante l’abside e la statua raffigurante il beato mentre porge pane ad un povero — dal primo gennaio 1945 decreto del vescovo di Conversano, mons. Gregorio Falconieri da Nardò (1885-1964) adibendo la basilica a seconda Parrocchia, diramatasi dalla Chiesa Madre Santi Medici Cosma e Damiano come servizio alla popolazione della zona, considerato il netto aumento demografico verificatosi dopo il ritorno dal fronte dei soldati — in seguito all’armistizio tra Italia ed Alleati avvenuto l’8 settembre 1943 — e dei loro nuovi nuclei familiari nascenti.
Altra contrada adornata da quattrocento trulli abitati e separata dal Rione Monti tramite largo Martellotta è il rione Aia Piccola — il cui nominativo, in base a quanto riportato da uno dei maggiori storici alberobellesi, Giuseppe Notarnicola (1883-1957), derivante dalla passata consuetudine di battere il grano, appunto in un ristretto spiazzo creato quando la ben più grande piazza delle Erbe del rione Monti, risultò insufficiente a contenere la crescente quantità dei raccolti — nel medievale borgo attualmente vivendo all’incirca 1300 persone e le pittoresche viuzze animandosi di un ammaliante presepe vivente durante le festività natalizie.
Titolo di più antico trullo di Alberobello, oltreché l’unico a due piani, è l’imponente Tullo Sovrano, tranne l’ala sinistra risalente al Seicento, innalzato all’alba del XVIII secolo dal reverendo Cataldo Perta (1744-1809) — da cui l’originaria denominazione di Corte Papa Cataldo, all’epoca altresì riferita all’intero quartiere — ad oggi ancora ospitante arredamenti e oggettistica originali che gli sono valsi il riconoscimento, nel 1923, di Monumento Nazionale, la cupola, attorniata da una dozzina di coni più bassi, svettando verso il cielo per quattordici metri e l’edificio rappresentando la via della transizione nell’essere uno dei primi a venire costruito con la malta; all’interno una volta a padiglione sovrasta il salone principale, susseguendosi una cucina padronale con dispensa, camino e apertura sul giardino, una cucina secondaria — sorta su un precedente forno per il pane in fase di restauro accorpato nel nuovo ambiente — la sala da pranzo e il piano rialzato — al quale si accede grazie ad una scala muraria interposta fra sala e cucina — destinato sia a stanza per gli ospiti che alla tessitura, tra il pavimento e la volta d’ingresso ricavandosi un capiente deposito di grano chiuso da una botola.
L’integrarsi dei vani è deliziosamente caratteristico dei trulli — così come le canaline che permettono all’acqua piovana d’instradarsi alla cisterna sottostante — e ad a sommare ulteriore bellezza al complesso è la parte esterna, nella quale salvia, gelsomino, olivo, melograno, lavanda, alloro, santolina, corbezzolo e lentisco levano nell’aria mediterranee essenze in pacifica armonia.
Il permesso all’utilizzo di materiale legante fu successivo al riconoscere Alberobello come Città Regia da parte del succitato Ferdinando I di Borbone e il primissimo trullo a superare l’imposizione del muro a secco fu Casa D’Amore, dal cognome del proprietario Francesco, edificata con malta costituita da calce mescolata ad un peculiare e rossastro terriccio locale e sul frontone a sottolineare l’avvenuto cambiamento post-liberatoria, un’epigrafe recante la scritta «Ex Auctoritate Regia Hoc Primum Erectum a.d. 1797» e l’edificio, Monumento Nazionale dal 1930, attualmente sede dell’Assessorato al Turismo, peraltro dal 18 febbraio al 1° maggio 2022 aprendosi — a celebrazione del venticinquesimo d’Alberobello Patrimonio UNESCO — la mostra d’arte contemporanea “Segni Elementari”, durante la quale opere di ventidue artisti, nazionali e internazionali, verranno esposte all’interno dei fascinosi trulli.
Indubbiamente meritevoli di visita anche il Trullo Siamese, sito sugli affioramenti rocciosi in vetta al Monte Nero e fino al termine del secondo conflitto mondiale domicilio di una famiglia contadina, nota distintiva essendone i due coni sormontanti ed uniti fra loro in magistrale insellarsi, le mura — prive di finestre e con doppio ingresso ciascuno dei quali affiorante in differenti strade — racchiudenti un basso focolare e più ambienti, anticamente collegati fra loro e ad aleggiare nell’aria a chiarimento della suddivisione sopraggiunta è la leggenda di due fratelli che abitavano il trullo in beato affiatamento, perlomeno fino a quando la promessa sposa del maggiore non s’infatuò — divenendone appassionata amante — del minore, tesa rottura di rapporti familiari dapprima sfociando in un’agguerrita contesa di proprietà e ritrovata pace concretizzandosi al frazionamento della stessa, su comune accordo, da una parte vivendo il fratello abbandonato e dall’altra l’innamorata coppia, da allora la doppia dimora allegorizzando quanto il destino possa separare nonostante i legami di parentela e l’amorosa narrazione delineandosi sullo sfondo di curiosità, storie e segreti nella Puglia dei trulli tramandate fra pietre e generazioni, nell’assoluto carisma di vissuti passati, tenuti in vita dal seducente folclore alberobellese a cui abbandonarsi in contemplative camminate, arricchenti cuore e cultura.
I trulli, come tutti sanno, sono case a cupola conica. Le mura di grossi conci calcarei, sovrapposti l’un l’altro a secco, vengono ricoperte da un tetto circolare, fatto con la stessa tecnica, digradante in cerchi concentrici, simile nella forma ad uno spegnitoio o al cappello di un mago. Il cono finisce in un foro, chiuso da una grossa pietra e sormontato da un pinnacolo decorativo. L’origine di queste costruzioni è piuttosto oscura. Vi è chi le vorrebbe importate dal lontano Oriente. Non è chiaro nemmeno quando abbiano avuto inizio. Alcuni le rimandano molto indietro nei secoli, ma la più vecchia di quelle arrivate a noi è di quattro secoli fa. Qualunque sia la loro origine, esse tuttavia fanno parte dell’orientalismo pugliese, e il senso dell’età si perde.
Guido Piovene
Le gasshō-zukuri di Shirakawa-go
Storico villaggio giapponese sotto la prefettura di Gifu, nella regione di Chūbu, Shirakawa-go ricevette ufficialità istituzionale — a seguito del moderno sistema dei comuni — il primo luglio 1987, il suggestivo paese, adagiato nella vallata del fiume Shō-gawa, nel 1995 venendo annoverato insieme a Gokayama nella lista UNESCO dei patrimoni dell’umanità, ambedue ataviche realtà in passato isolate dal mondo e fieramente indipendenti nel mantenersi allevando bachi da seta e coltivando profumati gelsi, in una sorta d’auto-equilibrio esistenziale in piena e poetica assonanza con il naturale ambiente circostante e individuale tratto distintivo magnificamente esprimendosi nelle specifiche strutture gasshō-zukuri, abitazioni dagli spioventi tetti in paglia raccolta in fasci i quali, a discapito della fragilità nell’immediato supponibile, sapientemente ancorati alla struttura e opportunamente inclinati — di circa sessanta gradi — fungono da resistente protezione nei confronti delle gravose e costanti precipitazioni nevose, a conferma di questo la durata media degli stessi, compresa fra i trent’anni e il mezzo secolo, complice anche l’esposizione delle facciate a nord e a sud per moderare la vigoria del vento.
Antica progettazione ne organizzò gli spazi in maniera eccellente e funzionale, le costruzioni solitamente sviluppandosi su tre o quattro livelli, per modo da poter accogliere nutriti nuclei familiari e simultaneamente permettendo efficace svolgimento di attività dedite all’artigianato ed essendo l’adiacente zona montuosa fittamente ricoperta di foreste, in epoche nelle quali ancora non ci si poteva avvalere della comodità di moderni mezzi di trasporto la sola via percorribile, quindi consona all’urbanizzazione e alla pratica agricola, era la ridotta fascia terriera attigua alla sponda fluviale, ciò non impedendo agli abitanti di condurre vita all’insegna dell’operosità, utilizzando i piani inferiori per produrre nitrato di potassio — composto chimico alla base della polvere da sparo — e i superiori all’accennata bachicoltura.
Attualmente le gasshō-zukuri si prestano a pernottamenti turistici, la zona per antonomasia dove osservarne un abbondante centinaio — talune con due secoli e mezzo di storia sulle spalle — è il quartiere Ogimachi, il più grande fra tutti e sul cui suolo è possibile inebriarsi lo sguardo, specialmente nel periodo invernale quando, accantonate comuni titubanze dovute agli incomodi provocati dalle forti nevicate, si può scegliere di orientare il proprio stato emotivo all’estatica contemplazione del paesaggio, imbiancato da uno o due metri di gelido e soffice candore, per l’occasione venendo appositamente predisposti giochi di luce calamitanti i viaggiatori, fra le 17:30 e le 19:30 accendendosi gli interni delle case e fino alle 22:00 tutta Ogimachi rimanendo fievolmente illuminata in fiabesca atmosfera, a fine giornata ed a spettacolo goduto, ovattante ristoro avvolgendo corpo e mente all’interno delle folcloristiche casupole dalla lignea configurazione, molte delle quali ospitanti negozi caratteristici, in aggiunta autunno e primavera allietando la vista rispettivamente nel caldo melange del fogliame che s’appresta a meritato riposo e lo strabiliante sbocciare dei ciliegi, foderanti l’intera borgata e profumanti il diafano e terso etere, lietamente fresco di fioritura.
Visitabili dagli errabondi gitanti sono la Casa Wada e Nagase, varcando uscio delle quali è possibile partecipare — sia come spettatori che direttamente cimentandosi — a mestieri manuali d’un tempo riproposti in pratica, oltre che apprendere passo per passo quelle che furono le originarie metodologie di costruzione delle gasshō-zukuri, nel frattempo ammirando entrambe nelle specificità d’ognuna: Casa Wada — la più grande di Shirakawa-go e costruita attorno alla metà del periodo Edo (1603-1868) da agiati mercanti — si sviluppa su tre piani, il primo e il secondo riservati alla bachicoltura, il pian terreno comprendente zona giorno con focolare il cui calore in ascesa tutela la paglia dei tetti da deleteri stati di umidità e presenza d’insetti, stanze da letto delle quali una preparata per gli ospiti, un ariosa entrata e un altare buddhista, a contornare un muretto di argilla e nel giardino uno stagno di modeste dimensioni; Casa Nagase — cinque piani per undici metri d’altezza — è coperta da un immenso tetto ed offre l’esperienza di un particolareggiato percorso fra gli attrezzi che hanno scritto l’operosa storia del luogo, soprattutto strumenti medici appartenuti alle prime tre generazioni di dottori facenti parte della famiglia Nagase, per ben 250 anni ininterrottamente proprietaria del sito.
Centosessant’anni circa tratteggiano l’età della Kanda, abitazione dell’omonimo e antico nucleo familiare — qui trasferitosi dopo essersi bipartito dalla famiglia Wada — in essa fondante un birrificio, la struttura edificandosi in un’architettura estremamente elegante e palesata in speciale modo dalle lunghe travi del tetto, gli ambienti interni effondendo la fragrante essenza del legno e ad accogliere gli ospiti — previa accortezza loro richiesta di accedervi senza calzature — dissetante tè verde da sorseggiare in apertura di visita, sviluppabile su più piani in cui il perfetto stato di manutenzione consente d’immergersi oltre tempo nelle abitudini che furono, respirabili attraverso fotografie, oggettistica e arredamento, al di fuori toccando con sguardo una delle migliori tecniche costruttive attuate per mano di un esperto carpentiere — proveniente dalla prefettura di Ishikawa — e a fine percorso congedandosi nella gradevole gentilezza dei proprietari, generosamente accoglienti.
Sulla sponda opposta a Shirakawa-go, il Gassho-zukuri Minkaen comprende più di venti case che nel 1968 alcuni residenti di altro distretto desiderarono spostare e ricostruire in quello che oggi è un museo a cielo aperto in cui mulini ad acqua, la sala principale di un tempio e un santuario sono precisamente preservati, nell’armonioso paesaggio fermandosi le lancette del tempo sull’incanto suscitato dall’insieme, una fresca cascatella e frizzanti ruscelli portando in danza l’udito e inno al ritrovo della perduta lentezza ritemprando mente e corpo, con placida rilassatezza osservando costruzioni, oggetti e attrezzi agricoli come ad esempio quelli deputati alla produzione del cotone, visionando il tutto dall’alto trovandosi al cospetto di cartoline naturali e variopinte talmente belle da sembrare irreali, un’eventuale spolverata di neve aggiungendo al magnifico dipinto vivente un tocco d’autentico charme.
Una trentina di gasshō-zukuri del periodo Edo sono state traslocate da Shirakawa-go al Villaggio Tradizionale di Hida Minzoku Mura — sulla collina dominante la valle di Takayama — e aperte al pubblico nell’intento d’immergere totalmente i villeggianti nella ricreata atmosfera di un tempo, a tale proposito all’interno allestendo apposite esposizioni di libri, vestiario, utensili vari, manufatti artigianali tessili, per tintura, intaglio del legno e laccatura o impiegati nell’allevare i bachi da seta e ad inizio giornata appicciando i camini le cui fiamme stimolanti sensoria esperienza affiancante il culturale tragitto, ogni edificio narrando la propria storia e volendone abbracciare quanti più possibile in un battito di ciglia, panoramica è concessa dal Shiroyama, promontorio dal quale fissare a indelebile memoria uno spaccato di tradizione giapponese ancora fortemente radicata nello spirito culturale della popolazione, estremamente collaborativa quando si tratta di ristrutturare i tanto amati tetti, infatti all’eventuale restauro partecipando l’intero paese con tanto di festeggiamenti finali.
Letteralmente gasshō-zukuri significa «costruire con le mani in preghiera» ed è proprio su cotale disposizione svettante verso la volta celeste che si è pianificato il gemellaggio con i memorabili trulli, un baratto simbolico tramite cui intersecare storia ed usanze di due popoli, gli uni con gli altri valorizzandosi nel ricevere — parallelo al donare — inestimabili gemme di diversità da integrare alla propria cultura, saziandola di quell’eterogeneità incoraggiante l’apertura mentale necessaria al non depauperarsi in limitanti chiusure, in qualsiasi luogo del pianeta abbandonandosi alla percezione oltre i cinque sensi, predisponendosi emozionalmente.
Le cose migliori e più belle non possono essere né viste né udite, ma avvertite con il cuore.
Helen Keller
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