Casaletto Spartano, borgo campano dipinto da storia, natura e leggenda
Salerno è una piacevole scoperta, c’è fermento, cultura, una cultura che viene da lontano, che si respira nel paesaggio, nei monumenti, tra la gente.
Franco Zeffirelli
Culla d’arte e di storia, l’Italia è costellata di meravigliosi territori, ogni regione vantando peculiarità culturali e paesaggistiche, da esplorare e conservare ad imperitura memoria; fra queste, all’interno della provincia di Salerno s’estende Casaletto Spartano, paese d’origini medioevali, compreso nell’entroterra del Cilento meridionale, costituito da decine di contrade rurali e dalle due frazioni principali: Battaglia — la maggiore — e Fortino, amministrativamente gestito in contemporanea dalla Basilicata, poiché a cavallo di confine e in minor parte compreso nel comune potentino di Lagonegro.
Casaletto Spartano s’adagia su un piccolo altopiano collinare e a dividerlo da Battaglia è una gravina nella quale si riversa il Bussentino, o Rio Casaletto, immissario di sinistra del fiume Bussento — a sua volta nascente dalle falde del monte Cervati, sull’Appennino lucano — che dopo aver inglobato l’affluente suddetto, sfocia nel golfo di Policastro.
Fino agli anni Sessanta dell’Ottocento semplicemente Casaletto — in probabile derivazione da «casale» qual era — riguardo all’origine del secondo toponimo, leggenda locale vuole che Spartano sia retaggio dell’antico villaggio di Spartoso, presso il quale primo nucleo del paese conobbe sviluppo, ma versione accreditata d’origine, indica provenienza dalla pianta erbacea perenne, Sparto (Stipa tenacissima, Linneo), appartenente alla famiglia delle Poaceae o Graminacee e, dalla resistente fibra, dai contadini estirpata in copiose quantità, largamente utilizzata per la produzione di reti, cesti, cordami o stipata su carri e bastimenti, prossima all’essere commerciata come fonte di ricchezza, dalla quale ricavare un dignitoso sostento per le proprie famiglie. Adozione si rese necessaria, allorché, successivamente ad Unità d’Italia, come da nota datata 14 luglio 1862 inviata ai sindaci, Ministero dell’Interno, onde ovviare ad «equivoci ed imbarazzi» causati da casi di omonimia rilevati lungo il territorio, invitò con delibera i Sindaci, «se non di cambiare affatto l’attuale denominazione, farvi almeno qualche aggiunta che desumere si potrebbe dalla speciale situazione topografica secondo che il comune si trova nel monte o nel piano, al mare, o sopra un fiume o un torrente» e da Consiglio Municipale, riunitosi il 21 agosto, decisione ratificata da Regio Decreto del 14 dicembre, fu quindi di battezzare cittadina, Casaletto Spartano.
A collocare storiografia del centro campano, è una lapide in pietra, datata al 1177 e posizionata all’interno della Chiesa di San Nicola da Bari, con scritta in latino a ricordarne la consacrazione, voluta da Mons. Giovanni II, Vescovo di Policastro: eretto nel dodicesimo secolo, l’edificio venne più volte ricostruito in seguito ai gravi danni provocati da scosse telluriche, in particolare modo dal sisma del 16 dicembre 1857.
Da secoli principale ritrovo spirituale della comunità religiosa spartanese, l’attuale chiesa madre — sita nella centrale Piazza Municipio e sulla cui sinistra s’erge la torre campanaria — è suddivisa in tre navate dalle tinte lievi, abbellita da statue, stucchi napoletani e adornata da un paramento con rappresentazioni decorative in onore all’omonimo Santo patrono; ad impreziosirla ulteriormente, l’organo a cinquecento canne risalente al ventennio d’inizio Novecento ed opera del fabbricante Francesco Venditti: strumento tornato a diffondere sacre note fra mura ecclesiastiche dopo circa un centennio di silenzio, a gennaio 2023, a merito del delicato lavoro di restauro dell’avellinese strorica impresa artigianale, Antica Bottega Organara.
Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti.
Sacrosanctum Concilium
L’8 settembre 2020 — su richiesta d’un trimestre addietro, da parte del parroco di Casaletto Spartano — titolo di Santuario Diocesano è stato riconosciuto alla Chiesa della Madonna dei Martiri, emblema d’incrollabile fede degli abitanti e nella navata sinistra custodente una piccola fontana, i cui saltuari e imprevedibili zampilli vengono considerati miracolosa manifestazione, per via d’un racconto tramandatosi fra generazioni, narrante d’una pastorella che perse una giovenca durante il pascolo degli animali: la ritrovò mentre s’abbeverava in una pozzanghera e, al voltarsi, le apparì la Beata Vergine, avvenimento da cui sarebbe nato il proposito di realizzare la remota cappella.
Celebrazione d’un triennio fa, non è avvenuta in giorno e mese casuali, dato l’esser l’8 settembre 1943 il giorno nel quale venne istituita ricorrenza — in concomitanza della Natività di Maria Santissima — da allora annualmente festeggiata ogni 13 maggio e 15 agosto, con i fedeli unendosi in processione e, intonando canti, inni e preghiere, accompagnando la statua della Madonna del Buon Cammino dalla Chiesa Madre di San Nicola, al Santuario Diocesano, lungo un erto tragitto, intrapreso in ora mattutina, di alcuni chilometri e celebrato dall’avvolgente suono di zampogne: raggiunta destinazione, la scultura viene collocata internamente, affianco alla figurante la Madonna dei Martiri, dando così inizio alla funzione religiosa, a conclusione della quale, segue partecipata festa rallegrata da musica e danze finché, al tramonto e dopo recitazione del Rosario, marcia riprende riportando a luogo d’origine la Vergine.
Forse a seguito d’una frana avvenuta nell’estate 2014, dalla parete montana sottostante la mulattiera dove si svolge la processione, una parte di pietra s’è lievemente staccata: rimembrando le sembianze della Santissima Vergine, da quel momento viene venerata come Madonna della Roccia, con centinaia di turisti che ogni anno accorrono a vederla.
A Battaglia, sulle ceneri d’un vecchio monastero — dedicato a Nostra Signora quando, attorno al 1300, si passò dal rito greco a quello latino — sorse la Chiesa di Santa Maria della Stella, la cui scultura troneggiante sull’altare, con Gesù bambino fra le braccia; dopo numerose ricostruzioni, ad oggi si presenta a navata unica e con campanile retrostante, sulla fiancata destra.
Contenuta, graziosa e con soffitto ligneo del diciottesimo secolo, è la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, unico complesso rimasto dell’antico convento francescano dei Frati Minori Osservanti, in attività fino al 1850 circa, allorché i monaci all’epoca regolarmente spendendosi nell’educare e sostenere i curati delle parrocchie di località contigue.
Fra i vari luoghi di culto del circondario, il centro storico s’apre ai visitatori in viottoli lastricati, piazzette, dimore patrizie e relativi portali in pietra, botteghe e cibi tradizionali, fra i quali spiccano il formaggio di capra — prodotto e stagionato esclusivamente da pastori locali, che allevano il bestiame allo stato brado — e il prosciutto casalettano — di tonalità rosso scuro e da gran parte delle famiglie ricavato a livello domestico, attraverso tecniche di lavorazione e conservazione segretamente perpetuatesi e perfezionatesi nel tempo.
Edificato sul finir del Quattrocento, dunque al sorgere di Umanesimo e Rinascimento, Castello Baronale dei Gallotti è maniero dal fascino da allora serbato sia nei rigogliosi giardini, sia negli ambienti interni, le sale conservando opere d’arte, arredamento d’antiquariato, imponenti camini, maestose scalinate e vetrate dagli sgargianti colori; abitandolo, gli eredi lo gestiscono e se ne prendendo cura con dedita assiduità, rievocando atmosfere d’altri tempi.
A cingere Casaletto Spartano, sentieri naturalistici dai quali offrono meraviglia grotte carsiche pressoché inesplorate, passatoie di legno, un ponte in pietra normanno e caratteristici mulini, testimonianza d’una terra da sempre dedita all’agricoltura: a sostenere l’economia di Casaletto erano svariate attività artigianali, fra cui una gualchiera per lavorare canapa, lino, lana e ginestra; il macchinario — in uso dall’epoca romana al Novecento — fu trasversale protagonista delle economie agresti e venne citato da Giosuè Carducci (1835-1907), in una strofa del componimento Il canto del’amore.
Pe’ casolari al sol lieti fumanti
Tra stridor di mulini e di gualchiere,
Sale un cantico solo in mille canti,
Un inno in voce di mille preghiere.
Giambi ed Epodi, Libro II
Traslando discorso da poetico inchiostro a suggestivi giochi d’acqua, a destare emozionante stupore è l’assistere allo spumeggiante discendere delle Cascate dei Capelli di Venere, attrazione turistica di rilievo, difficilmente obliabile: a formare l’incantevole spettacolo naturale è l’armonioso incontro fra il Bussentino e il dislivello roccioso sul quale saldamente s’arrocca la felce Capelvenere, da cui deriva il nome della cascata, limpida, gelida, serpeggiante tra muschi e licheni, scivolando sui quali, si crea un estatico e sublime sovrapporsi di naturali cromìe.
Catalogata alla nomenclatura binomiale Adiantum capillus-veneris, nel 1753, dal naturalista svedese, Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778), la pianta possiede soavi fronde, rachide fulgido e corvino, foglie di tonalità verde brillante e dalla forma rassomigliante a delicati ventagli, eleganza di chioma venendo appunto paragonata a quella di Venere — divinità romana d’eros e bellezza — e in mitologia tale felce essendo legata alle Nàiadi, ninfe delle acque.
Fatto sei di segreto e di freschezza.
Fatte sono di làtice
fluido e d’umide fibre le tue membra.
Il tuo spirto, dal fonte come il salice
ma senza l’amarezza
nato, le amiche naiadi rimembra;
tutte le polle sembra
trarre per le invisibili sue stirpi.
E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli,
ha neri gambi il verde capelvenere.
(Gabriele D’Annunzio, Il fanciullo, Alcyone)
Raggiungibili presso l’incontaminata Oasi Capello — a poco meno di due chilometri da Casaletto Spartano, da percorrere anche in camminata attraverso corroborante itinerario fra monti, con aree appositamente attrezzate per pranzi al sacco e ricreazione dei bambini — le cascate sono oggetto di trasmessa leggenda riguardo alla loro origine: in un’accaldata giornata di sole, si racconta che la dea Venere sia capitata nel refrigerante luogo, sull’immediato restandone rapita e scegliendolo a rifugio ideale in cui rinfrescarsi e trovar quiete in solitaria, sennonché lo stato di pace a cui frequentemente s’abbandonava — sdraiandosi nell’erba a serenamente ascoltar le melodie del Creato o ballando — venne inaspettatamente interrotto da un pastore, casualmente di passaggio.
Al vederla danzare, costui se ne infatuò ardentemente e fulmineo sentimento assunse i contorni d’una folle fissazione, per assecondar la quale, l’uomo iniziò a nascondersi quotidianamente dietro a un albero, osservandone per ore i dorati, lunghi e soffici capelli ed iniziando a bramarli a tal punto, da avvicinarla di notte, approfittando del fatto che dormisse, nello smanioso tentativo di tagliarglieli: bruscamente destatasi, Venere lo vide fuggire con la sua chioma fra le mani, meditando vendetta e facendo in modo che le ciocche depredate si tramutassero in abbondante acqua, che di lì a poco lo avrebbe annegato, poiché incapace di nuotare.
A salvarlo fu il di lei buon animo: vedendolo annaspare, si dispiacque, trovando equilibrio fra perdono e condanna, dunque decidendo di concedergli di restarle accanto, ma trasformandolo in felce nell’esatto punto in cui, dai suoi capelli, erano nate cascate.
Se da sfondo alla leggenda è un paradisiaco angolo terrestre, in Alcyone è la Natura in generale a rappresentare il panismo dannunziano, ossia la profonda percezione del legame fra la stessa e l’animo del “Vate”, concetto cardine del Decadentismo e sentimento comune a svariati poeti.
Fra questi, Cesare Pavese, che nell’ultimo romanzo scritto poco prima di morire, narrò del soprannominato Anguilla — emigrato in America da molti anni prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale — e del di lui ritorno in visita, a conflitto cessato, nelle natie Langhe; in compagnia dell’amico d’infanzia Nuto, l’uomo rivede la propria e mai dimenticata terra, in un’esplosione di sensi ricollegandosi al passato e risentendosi finalmente a casa.
(Cesare Pavese, La luna e i falò, cap. XXXI)
Oltre a Gabriele D’Annunzio e a Cesare Pavese, l’immagine della Capelvenere riflessa, appare nel romanzo filosofico-fantastico Il giuoco delle perle di vetro, ultima e intensa opera dello scrittore tedesco, poeta e pittore, Hermann Hesse (1877-1962):
Dasa obbedì di corsa e aveva in cuore l’idea del commiato
poiché era l’ultima volta che scendeva alla fonte,
l’ultima volta che portava la ciotola leggera dall’orlo liscio e consunto
a quel breve specchio d’acqua nel quale si riflettevano il capelvenere,
la volta delle fronde, e in alcuni punti luminosi l’azzurro del cielo.
Il Rio Casaletto — il cui incedere fu e rimane naturale scultore di rocce calcaree cretaciche — nasce a Fortino e grazie alla sua pendenza è meta prediletta per gli amanti del torrentismo; nella valle, molti sono i sentieri percorribili, fra i quali:
• Le Rocche: collega — in tre chilometri — Casaletto Spartano al Santuario della Madonna dei Martiri ed è quello maggiormente noto, sia in quanto via principale sulla quale in passato ci si spostava fra i vari rioni che per la cerimonia religiosa sovradescritta;
• Capello-Cannati: percorribile in una novantina di minuti e collegante — su 2850 metri — l’oasi Capello alla contrada Cannati, s’annovera fra i percorsi rurali belli da esplorare;
• Capello-Cerreta: lungo duecento metri in più rispetto a Le Rocche, una volta a Cerreta, ci si trova nei pressi delle Grotte del Vottarino — in alternativa raggiungibili dalla carreggiata comunale Sisamo-Fortino — che insieme alle Grotte di Mariolomeo sono di forte interesse speleologico, benché l’accesso sia consentito poche volte l’anno e riservato a esperti del settore;
• Capello-Ponte Sottano: tragitto di 1200 metri, con arrivo nelle vicinanze del Ponte Sottano, da cui si diramano sia il sentiero Rupazzi — con capolinea a Tortorella — e quello con arrivo al Mulino di Felice Bello.
Rivolto ad attività di trekking, birdwatching od a semplice escursionismo, il sentiero Valle della Lontra permette di partire da Casaletto Spartano, costeggiare il Bussentino, proseguire per i sentieri Rupazzi e Farneto e infine giungere a Morigerati, dove si trovano le Grotte del Bussento — riserva curata dal WWF — degna di menzione e meritoria di visita, data la singolarità e la commovente interazione tra ambiente, fauna e flora selvatiche, sullo sfondo di molteplici spelonche, uniche nel loro genere.
Dei mulini sparsi sul territorio, la struttura posta addentrandosi nell’Oasi Capello è stato oggetto di ristrutturazione e riqualificazione, con allestimento di sale espositive, al cui interno è possibile visionare la primaria strumentazione; oltre a mostre ed eventi, il luogo è centro di monitoraggio di geo/biodiversità e si presta a visite didattiche, durante le quali portare gli studenti a diretta conoscenza di vecchi mestieri e analizzarne il contesto storico-culturale.
Casaletto Spartano è solamente una della quindicina di soste previste della Via Silente, splendido cammino — di quasi 600 km — che attraversa tutto il Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni: istituito nel 1991 e dal 1998 dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, il parco è area protetta — selvaggia e poco pianeggiante — magnificamente disegnata da catene montuose, insenature, litorali e ricoperta da ricca vegetazione ed altrettanti habitat, favorevoli alla sopravvivenza di più specie animali, nel delicato equilibrio degli ecosistemi.
I Monti Alburni — nome derivante dal termine latino “albus”, «bianco», per la presenza di rocce d’origine calcarea e data somiglianza morfologica, detti Dolomiti campane — si stagliano tra la valle del Tanagro e quella del Sele, abbracciando cavità, doline, voragini: le Grotte di Pertosa-Auletta preservano quanto è sopravvissuto d’un villaggio a palafitte, databile al secondo millennio a.C. e sono le uniche, su suolo nazionale, ad avere un fiume sotterraneo — il Negro — navigabile in barca con visite guidate, passando per ambienti a cui sono stati attribuiti nomi ammallianti.
Il Vallo di Diano è un fertile bacino tettonico dall’importante patrimonio archeologico e artistico, lasciato in eredità dal cospicuo passaggio d’antiche civiltà, i cui reperti minuziosamente adunati ed esposti al Museo Civico Etnoantropologico di Montesano sulla Marcellana.
Insieme al Cilento, Monti Alburni e Vallo di Diano rappresentano una sorta di Eden terreno, in cui l’uomo trovò dimora a partir dalle passate ere, di sé lasciando permanente traccia e in Salerno antropiche strutture, cultura e folklore, racchiudendosi in minuscoli borghi d’irresistibile fascino.
Salerno, con le sue più antiche memorie, è immersa nel mondo classico,
che è poi, nel canto dell’epos,
il mondo dei miti,
mondo fantasioso della fanciullezza del gruppo etnico greco-latino.
Ha una nobiltà epica lo stesso nome…
Lievemente circonflessa lungo il litorale,
come la nascente falce di Cintia,
essa contempla,
quasi intenta ad ascoltare,
il suo golfo lunato,
sul quale passa eterno I’epos di Omero e di Virgilio.
Luigi Guercio
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