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La filatura del bisso, l’antica arte tessile donata dal mare

Lo spettacolo del mare fa sempre una profonda impressione. Esso è l’immagine di quell’infinito che attira senza posa il pensiero, e nel quale senza posa il pensiero va a perdersi.
Madame de Staël

Disegnano abbracci le onde marine, potenti, intense, figlie dell’armonioso ed empatico ballo tra vento ed energia in danza sublime fra cielo e terra. Giungono alla battigia maestose, canterine, spumeggianti, virili nel loro schiaffeggio sentimentale agli adorati scogli smussati nell’amarsi, inarcate su se stesse in sensuale amplesso con granelli di sabbia avvolti e roteati in passo di walzer od in amabile direzion d’orchestra, nel trascinar poliedrici sassi fra coste e fondali.

Canta storie d’amore, il mare, nobile insegnante del rispetto nel suo delicato infranger delle proprie creste in ossequio al mondo, custode di segreti e tesori, musa di poeti e narratori. È femmina e maschio insieme, decantato, pennellato, immortalato in fotogrammi di grazia e potenza, delicato nelle albe, struggente nei tramonti, violento nelle tempeste. Stuprato dall’uomo, avvelenato nelle sue acque, ferito nei propri figli, tenace ribelle ed orgoglioso guerriero, infinitamente docile e mansueto nell’accondiscendente plasmarsi a compagno di gioco nel secchiello d’un fanciullo.

Verrebbe da immergervi i pensieri più belli, adagiandoli come isole che paion piattelli di terra posati a fil d’acqua, quasi non avessero fondo se non quello marino, impercettibilmente galleggianti fra storie e leggende, saperi e tradizioni, carezzate dal passo di popoli erranti e mormorate dalla poetica di genti lontane. Giunse a passo d’esilio dall’antica Mauretania, colui il cui nome venne congiunto ad isola sarda, Antioco, medico africano, santo e primo martire di Sardegna, sfregiato dalla barbarica furia di Adriano per il sol fatto di professar parola di Cristo, pose dunque piede nella medesima terra che, diciotto secoli dopo, concederà natali ed incantevole maestria ad una donna che del mare tesserà il filo, ricavandone seta dorata e tramandando una delle più emozionanti artigianerie, a sua volta ereditata: la filatura del bisso.

 

L’oro della Pinna Nobilis

L'arte millenaria della lavorazione del bisso, la dorata seta del mare offerta dalla Pinna Nobilis, ch'è intreccio d'amore fra essere umano e natura. (https://terzopianeta.info)Nel cuor del Mediterraneo, ad una profondità che va dai quattro ai quaranta metri, spesso accoccolata fra sinuose praterie di Posidonia oceanica, trascorre la sua pacifica esistenza la Pinna nobilis (più semplicemente conosciuta come pinna comune, nacchera o cozza penna), un bivalve filatore le cui dimensioni (può superare il metro di lunghezza) la rendono il bivalve più grande del suo adorato mare nel quale si fissa, tra sabbia e roccia, con la parte di sé più appuntita, quasi a freccia di Cupido nel cuore del proprio amato.

Organismo sessile, ossia incapace di muoversi, aspetto bruno a chiazze chiare ed ego madreperlaceo, arriva a superare le due decadi di vita, nutrendosi e respirando acqua nelle cavità del proprio mantello, in una sorta di gioco marittimo fra baratto e rispetto. Ella è gentile nel porsi, ospitando al suo interno crostacei decapodi e facendo rigido giaciglio del proprio guscio per differenti organismi. Della stessa gentilezza è il suo abbraccio ai fondali, ov’essa s’ancora con filamenti sottili e cheratinosi, originatisi da una bava, prodotta dal massaggio continuo delle valve sulla sua ghiandola setacea, che la pinna nobilis offre alle acque ed al contatto con le quali si solidifica, creando un intreccio tanto delicato quanto resiliente, attraverso il quale la sua vita si lega indissolubilmente agli abissi.

Un’arruffata “chioma di conchiglia” denominata bisso, che solamente dita maestre e sognanti riescono a pettinare, filare ed intrecciare in lavorazioni di particolar suggestione. Mani di fata, verrebbe da definirle, come quelle di Maria Maddalena Rosina Mereu (Leonilde), maestra tessitrice di sant’Antioco che, levando piede da quel piccolo lembo di terra abbigliato d’ottantasei nuraghi e collegato all’isola madre sarda da un esile istmo, s’immergeva completamente vestita per la delicata raccolta di quel “filo di nacchera” che avrebbe dato vita ad arazzi dal sapore antico, tramandando nel tempo la propria passione alla nipote Chiara Vigo, una delle ultime donne in grado di tessere ilfilo del mare”. Una tessitura d’anima danzante e devota che s’offre in sposa al Mediterraneo tramite giuramento sussurrato e che par legarsi a lui nel profondo, innamorando il proprio sentire a quell’azzurro salino che ristora e rigenera, nelle carezze d’un vento che dona respiro e fa trama di vocaboli in una promessa d’amore che toglie il fiato:

 

Ponente, Levante, Maestro e Grecale
Prendi la mia Anima e buttala nel fondale

Che sia la mia vita

Per Essere, Pregare e Tessere
Per ogni gente che da me viene e da me va
Senza terra, senza nome, senza confini, senza colori, senza denari.
Per essi tesserò il filo dell’Acqua che a tutti apparterrà
Per essi porterò in superficie il filo dell’acqua

Sara’ di donna e bimbo il mio pregare all’Alba, il mio pregare di sera, di Uomo che li accompagna
Da essi riceverò in umiltà quanto vorranno e potranno per il mio viver sano

In Nome del Leone dell’Anima mia
Del Grande Padre
Della Grande Madre

Così era
Così è
Così sarà

Io Giuro

 

Poggia delicatezza sull’ “oro del mare” fin da piccina, Chiara Vigo, plasmandosi anima e corpo all’arte della nonna, teneramente cullata tra racconti del mestiere ed arcaiche gestualità, in bramoso scrutar d’ogni movimento fra desiderio d’apprendere e voglia di fare.
Posta l’anima nel Febbraio del 1955 a Calasetta, punta superiore dell’isola di sant’Antioco, Chiara, primogenita di sei anime e precocemente orfana di padre, Luciano Vigo, cresce fra nonni, bisnonni ed uno zio conoscitore di lingue antiche, gettando dunque il primo seme di felicità dentro di sé fra affetti intensi, mestieri artigiani, greco, latino, ebraico ed aramaico. Il bisnonno materno, Raffaele Mereu, maestro sarto, la di lui moglie, Marongiu Cristina, ricamatrice di tessuti, il nonno Luigi, maestro restauratore di stucchi e restauri in pietra nelle basiliche e l’adorata nonna, maestra e disegnatrice di tessuti, ne colmano il bagaglio infantile di spirito artistico ed intensità emotiva disarmante. Il fratello di Leonilde, monsignor Mereu Teofilo Dario, ne influenzerà la formazione spirituale, in epoca prettamente democristiana.

Nel suo primo lustro di vita il fuso divien gioco prediletto, avvicinandola negli anni, con poetica cautela e riguardo assoluto, al prezioso telaio di una nonna che in lei sfiora l’infinito, riconoscendola degna ereditiera di un sapere che solamente animi particolari sono in grado cogliere e ricamando nella nipote l’anelito d’appartenere mente e corpo alla sua terra ed alle sue acque, nelle quali Chiara s’immergerà con umiltà e devozione, commovente anello di congiunzione fra remoti saperi e nuove conoscenze.

All’età di quattro anni si destreggia in apnea delfino ed approccia la filatura, percependosi d’animo incline a dedicar esistenza al decantato bisso ed imparandone la tessitura nella prima dozzina di vita. A ventisette anni avverrà il suo giuramento. Sarà infatti in quel periodo ben preciso, fra il 1980 ed il 1981 che dopo un assiduo ed intento studio, che mai pubblicherà in segno di protezione della pinna nobilis e dell’ambiente tutto, giungerà a capire come prelevarne i filamenti mantenendola in vita. Una scoperta di valore immane da un punto di vista pratico a valenza spirituale, faunistica, ambientale, umana e marittima in unico intreccio di fattori a comun denominatore secondo coscienza, nell’ottica d’una responsabilità prima che guidi le azioni dell’uomo in dovuta considerazione e conseguente stima nei confronti del pianeta che fraternamente lo ospita.

Testimone d’una maestria antica di settemila anni, la Vigo eredita l’arte d’un orditura tramandata a cavallo di secoli da gesti e parole, nulla di scritto, nulla di fissato, se non una staffetta di sentire fra antenati del filo d’oro, nell’orgogliosa e radicata consapevolezza di non esser artista od artigiano, ma puramente Maestro, non condizionata pertanto in tempi e manualità da necessità di vendita alcuna, bensì privilegiata tramite di un’esoterica abilità che le permette di «conservare per chi verrà, quello che già era».

A tali parole, che disegnano profilo al senso primo della solerte lavorazione del bisso, la Vigo affianca, allargando gli orizzonti comprensori di chi le si pone in ascolto, la descrizione del maestro come colui che  «accetta l’altro per quello che è e non per quello che vorrebbe fosse. Un maestro non è altro, ma per arrivare a essere un maestro bisogna camminare dietro un maestro e non affianco, bisogna fermarsi, ascoltarlo quando parla perché non lo dirà più». Un vero maestro «non ti dà niente di più di quello che tu sei capace a portarti via», partorendo al prossimo un profondo messaggio da accudire e trasmutare, un darsi in fiducia a coloro che vogliano provare a porsi ad introiettiva assimilazione d’un sapere che fa dell’interazione sensoriale lo strumento primo d’apprendimento.

Una generosità d’animo che dal mare giunge ed al mare ricongiunge, in quel canto a lui bisbigliato intersecando vento, ponendosi di fronte ad esso ed estraniandosi dal resto al fine d’assorbirne forza e potenza, intrecciandone lo spirito e respirandolo in qualità d’anima buona, dalle cui acque s’origini dorato filo che leghi indicibilmente l’uomo al mare ed il mare all’uomo. Un legame che in Chiara divien sentimento primo di comunicazione totale con le di lui magnanime acque, un materno istinto di tutela del suo diritto d’esistere mansueto ed incontaminato, una difesa ad oltranza del suo essere padre del mondo ed un’ecologica ricerca di pacificazione tra uomo e natura, che la Vigo esprime a desiderio nella quotidiana preghiera, recitata alla terz’ora dopo lo scoccar d’ogni mezzanotte. Orazione che divien speranza d’un riaggancio dell’umanità a terra e spirito in tempi ove “il denaro ha la pretesa di guidare la vita dell’uomo”, un intimo pregar affinché lo stesso giunga al rifiuto di tutto quanto sia dannoso per la natura ed arricchendosi nella conoscenza d’un arte che ordisca anime valorizzandone le sfumature.

Un “Essere, Pregare e Tessere” che divien quindi mestiere e missione allo stesso tempo, un’inclinazione all’esistere in consapevole e necessario equilibrio all’interno di un ecosistema, in cui la tessitura divien carezza dello stesso nel rispetto assoluto delle leggi naturali che ne caratterizzano la vita. Un filo d’oro dall’onde donato che simboleggi conoscenza, sacrificio e devozione, nelle fatiche d’un ricamo sapiente e zelante, nell’allegorico intrecciar di dita con l’acque marine figlie e sorelle.

 

Filatura del bisso: la seta del mare

L'arte millenaria della lavorazione del bisso, la dorata seta del mare offerta dalla Pinna Nobilis, ch'è intreccio d'amore fra essere umano e natura. (https://terzopianeta.info)Pregiato filo ch’estende la sua storia nella notte dei tempi ove “Salomone fece la cortina di stoffa di violetto, di porpora, di cremisi e di bisso; sopra vi fece ricamare cherubini” (La sacra Bibbia, Cronache 2, capitolo 3, versetto 14), l’arte della sua raccolta, strumenti primi fedeltà e passione, ne prevede numerose e sapienti immersioni nelle acque baciate dalla luna fra Maggio e Giugno. È di questo periodo, infatti, l’allontanamento dei venti Maestro, Grecale, Ponente e Libeccio, in amichevole dono del palcoscenico a Scirocco e Levante che, innalzando le temperature, ammorbidiscono il fango con conseguente estrazione e riposizionamento facilitati della Pinna Nobilis, avendo estrema cura d’avvicinarsi ad esemplari dai 12 anni in su i quali, con la dovuta accortezza, doneranno essenza e preziosa parte di sé, continuando a vivere dopo incantevole scambio d’amore puro fra essere umano e creatura marina.

Annualmente, una Pinna Nobilis dona 10 grammi di grezzo che, cardati, si riducono ad un solo grammo di pulito; in circa 200 immersioni, pertanto, vedranno l’aria 300 grammi di grezzo, corrispondenti a 30 grammi di pulito, dai quali, estrema manualità e capacità sopraffina, ricameranno un’opera per la quale serviranno dai due ai cinque anni di tempo.

Una passione. Una missione. Una vita nella vita.

Da poco più sopra della sua metà altezza, dalla nobil nacchera abbondantemente insabbiata ed ancorata all’ospital fondale, fuoriesce castano ciuffo di fibra che par capigliatura, al quale si taglierà poco meno della metà, permettendone il reinsabbiamento ed il proseguimento dell’ammaliante vita. Il batuffolo raccolto verrà poi dissalato per 25 giorni, avendo premura d’effettuar un cambio d’acqua ogni tre ore; segue un lavoro di cardatura manuale, utilizzando le unghie per levar ogni tipo di scoria dai filamenti, e completando la pulitura con un cardaspillo. Per poterne ottenere una bambagia filabile, si rende necessario l’utilizzo d’una lente; essendo infatti che la salvaguardia dell’animale ne rende necessario un prelevamento della chioma più contenuto, le fibre, oltre ad essere più corte, non posseggono il nervo che nei tempi addietro veniva staccato completamente, donando fibre più lunghe, permettendone una pulizia più facilitata tramite l’utilizzo di grossi cardatori, ma causandone la morte.

Nella manualità della Vigo pulsa dunque il significato primo della protezione dell’altrui vita fra esseri di vario genere; nel suo susseguir di gesti minuziosi ed ossequiosi, abbondano gratitudine al ricevere ed inclinazione al donarsi in toto, in completa apertura e difesa del mondo e delle creature che lo popolano, abbigliandolo d’una meraviglia che solamente il genere umano porta colpa d’aver sfregiato.

La filatura della fibra corta (di creazione esclusiva della stessa Vigo), della durata di ore, renderà il grezzo batuffolo soffice ed impalpabile nuvola, dalla quale originerà il filo tramite piccolo fuso a coppa, in ginepro, con torsione rigorosamente ed empaticamente manuale, durante la quale dita amorevoli e cordiali carezzeranno il filo fin ad assottigliarlo in maniera infinitesimale. Successivamente immerso in una soluzione ove alghe saranno state poste ad ossidarsi nel succo di limone, se ne garantirà elasticità e resistenza, rendendolo ignifugo ed ottenendone la tipica e brillante sfumatura dorata. Tipo di legno, peso e calibro del fuso, strumento caratteristico e tipico dei tempi andati, unito all’inarrivabile maestria di Chiara, rendono la torsione un evento che par danza, dal quale ammirar donna che diviene un tutt’uno con ciò a cui sta offrendo nuova forma, immersa nei propri canti rituali fra la solennità d’un karma antico e lingua aramaica che la riportano all’infanzia.

Modificato nell’aspetto da saggi e premurosi polpastrelli intrisi di storia, il filo passa dunque al telaio, di tipo mesopotamico, e prende inizio una ricamatura nella quale le unghie son protagoniste d’opera in perfetta esecuzione a braccetto d’ago; minuziosi conteggi ne garantiscono un’opera finale d’impatto visivo ed emotivo estasianti. A seconda della trama da creare, ella saprà se filar i ciuffi dell’adorata nonna, molto più lunghi ed indicati per ricami verticali di grandi dimensioni, oppure i suoi, di lunghezza inferiore in ottica di mantenimento in vita dell’esemplare generosamente donante.

Dichiarata dall’Unesco Patrimonio Immateriale dell’Umanità nel 2005, l’arte di Chiara Vigo offre il respiro della sua essenza nel Museo del Bisso, ad Antioco, magica esperienza ove assaporarne il sentire, la maestria, la valenza umana.

Il messaggio primo dell’essere un mezzo attraverso il quale il mare giunga a parlare un linguaggio comprensibile all’uomo, nutrendone un ideale di ricchezza interiore agli antipodi d’una concezione tipicamente materialista della realtà, sta racchiuso nel rifiuto di vendita, con proposta milionaria, del Leone delle donne, arazzo del 1996, ricamato con bisso della nonna del 1938: «Ripudi l’uomo tutto quello che è a scapito della natura e solo denaro», un rifiuto totale di compravendita che affonda radice nel giuramento che «lega le mani d’un Maestro» nella fedeltà ch’egli avrà a rispettare e che tramanderà al suo successore immergendosi in acqua, riemergendo e porgendo fango nelle mani di colui che ne erediterà l’animo operante e che, sommergendosi a sua volta dopo essersi lavato, suggellerà aulico passaggio fra primordiali saperi ed inclinazioni percettive.

Il Leone delle donne, unico pezzo a portare in sé 2000 ore di bagno in una soluzione speciale, alla luce rivela una doratura luminosa e completa, favorita inoltre da una tessitura con fibrille rivolte verso l’alto.

Un tocco di luce prezioso e di valore sconfinato ed irremunerabile quanto l’animo della stessa Chiara.

Una donna, un bivalve, un unico cuore.

Chiudendo gli occhi ed ascoltandone il mantra, sembra di vederla, occhialini e vestito di lino, percorrere a delfino quei tredici metri di profondità che la dividono dall’unione suprema. Un respiro e mille battiti. Un legame soprannaturale che le si può leggere in viso, in quei tratti così dolci e decisi allo stesso tempo, in quella voce sicura, calda ed avvolgente che voce del mare vorrebbe divenire, in un grido che ne implori salvaguardia e sostegno, che lei porta nel mondo affinché in quel lembo di terra, ove accadono magie, la tutela della specie e del suo ambiente possano divenire al più presto concreta realtà. Una mano, la sua, stretta attorno ad un filo e ad un desiderio. Un corpo, una mente ed una vita che a lei non appartengono, se non in funzione di quell’intimo desiare.

«Il bisso è sacro e si trasferisce per giuramento dell’acqua, quindi ha delle formule rigide che conosce il Maestro che le dà e il Maestro che le prende… Quello che io ho, quello che io sono, quello che io faccio, è dei giovani di Sardegna, non è mio, neanche la mia persona è mia».

Sacralità fra seta di mare e senso d’appartenenza che in Chiara si mantiene intatta anche nel tingere quella chioma di nacchera a lei tanto cara. La naturalità dei toni del ciuffo marino sfuma dal bronzo al rame, dal marrone al verde oliva, fino al nero. Capelli d’acqua salata che vestiranno differenti colori, fra cui il porpora o l’azzurro per gentil concessione delle ghiandole porporigene di due specie di murici, dai quali si ricavano un liquido turchino ed uno rosso chiaro che, con maestria miscelati, rinasceranno a nuove sfumature giunte dalla notte dei tempi, un esempio il viola, nell’antichità la tonalità più pregiata e maggiormente richiesta. Prestigio di nuances che nella Vigo assume significato simbolico ed emotivo, inscindibilmente legato alla cultura del luogo, alla gente che lo popola, ai suoi valori. Un antico status symbol che in lei si filtra a stato dell’anima, una ricerca di colori che la donna del mare ricava con saggia e materna sapienza anche da radici, foglie, cortecce, unendo terra all’acqua ed acqua alla terra, con la purezza tipica di chi del mondo si sente parte ed ospite e dove il diritto a trascorrerne l’esistenza sia sacrosanto nella misura in cui il dovere di non sciuparne un millimetro divenga inopinabile.

La tintura del bisso, ove non chimica, chiude un cerchio sulle modalità di relazione intrinseche a colui che si destini ad intrecciar la propria manualità a Madre Natura, in accurato ossequio ad ella e nell’intimo disdegno del metodo artificiale percepito come stuprante, qualora leda la vergine anima della nobile nàkkara del Mediterraneo. Un interagire in punta di piedi tipico di coloro che possiedono ecologica predisposizione d’animo, un scioglier se stessi all’ambiente miscelandosi sfumature in completo equilibrio vitale. Un integerrimo rifiuto d’atteggiamenti prevaricatori, un’apnea in fuga dal violar ecosistemi, un immergersi in fondali marini che nella Vigo rappresenta il senso primo dell’interconnessione necessaria al rispettarsi vicendevolmente, all’appartenersi in musical reciprocità, al viversi nella consapevolezza d’essere indispensabili ed insostituibili anelli di un’unica catena esistenziale.

Qualità rara, l’inclinazione a concepir l’umanità di qualsiasi essere vivente, il sapersi relazionare in rapporto egualitario ed in riguardoso empatizzare nelle complementarietà d’ognuno. È abilità comprensoria di menti il cui pensiero sia orizzonte e non barriera, il sapersi porre scudo a protezione dell’ambiente in difesa da spada umana, la stessa che nella pietosa ingordigia di potere ferirà l’uomo, permettendogli la sarcastica esperienza di perire nella sua stessa idiozia.

Chissà, che non stia nel sapersi percepir goccia d’acqua in giornate di pioggia, la possibilità d’aggancio sensoriale, nello scompigliarsi capelli al vento fluttuando come foglie, nell’incantarsi lo sguardo scivolandosi sabbia fra le dita in fanciullesco giuoco gravitazionale, nel tepido e piacevole scivolar su pelle d’una minuscola polvere di montagna che si ricongiunge al suo mare, in balioso e spumeggiante abbraccio di risacca che lambisce ogni senso.
 

 
 
 

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