Storie, leggende e misteri custoditi in castelli italiani
Da sempre affascinanti luoghi d’interesse turistico, castelli e fortezze medievali custodiscono spesso misteri irrisolti e conseguenti apparizioni di fantasmi in preda al dolore. Sparsi in ogni parte del mondo e talvolta arroccati nei borghi più caratteristici, in Italia molte colline ne accolgono le antiche strutture, con spiriti annessi. Basilicata, Calabria, Campania ed Emilia Romagna sono solo alcune delle regioni in cui intricate storie del passato s’intrecciano a leggende giunte fino ai giorni nostri e che i racconti giunti da lontano corrispondano a verità o lo siano in parte poco importa, qualora il leggere storie d’amori travagliati, d’omicidi, truffe, guerriglie e peripezie di varia tipologia, possa in fondo divenire una preziosa occasione di conoscenza dell’uomo in tutte le sue sfaccettature, nell’umile convinzione che quanto affrontato durante l’esistenza, possa restare adagiato sull’animo oltre qualsiasi dimensione.
Il Castello di Lagopesole
Piccola frazione del comune di Avigliano, in provincia di Potenza, Castel Lagopesole domina la Valle di Vitalba dai suoi quasi 800 metri d’altezza e sui collinari rilievi s’erige il celebre Castello omonimo la cui fama è storicamente legata alla carcerazione di Elena Ducas, moglie del re di Sicilia Manfredi di Svevia, anche detta Elena degli Angeli, convolata a nozze con lo stesso nel 1259, ancora diciassettenne.
Matrimonio frutto d’interessi dinastici al fine di mantener rapporti pacifici tra l’Epiro ed il regno siculo, essendo il padre della stessa il despota Michele II, fu la Battaglia di Benevento del 1266, dove il consorte, a capo della fazione ghibellina venne sconfitto e ucciso dalle truppe guelfe capitanate da Carlo I d’Angiò, a renderla vedova precocemente, spronandola alla fuga, insieme alla numerosa prole, nel tentativo di trovar rifugio in Epiro.
Sfortuna le rese tuttavia avverso il destino quando, giunta a Trani per salpare, impetuosa bufera ne impedì la subitanea partenza, permettendo alle truppe angioine di raggiungerla e sequestrarla insieme a quattro dei cinque figli e poi ricondurla a Lagopesole per un confronto con lo stesso re di Napoli il quale, dopo averla incontrata, ne ordinò l’immediata reclusione nel castello del Parco di Nuceria Christianorum (l’attuale Nocera Inferiore) dove la donna, dopo un quinquennio d’insopportabile isolamento, trovò la morte nel 1271.
Leggenda vuole che lo spirito della sventurata ritorni fra le mura del maniero di Lagopesole, dove beatamente visse con marito e figliolanza, nella speranza di rivederli, sconsolatamente piangendo fra stanze e corridoi. Si narra inoltre che, al tramontar del sole, la sagoma di Elena, di bianco vestita, sia stata più volte intravista mentre, reggendo una lanterna, da una finestra osserva l’orizzonte sperando nel ritorno del suo Manfredi; a sua volta lo spirito dell’uomo, avvolto da un verde mantello, s’aggirerebbe in groppa ad un candido equino, all’affannosa ricerca dell’amata. I gemiti della donna e gli zoccoli del cavallo bianco che taluni affermano d’aver udito, si fanno triste eco sulla storia di due innamorati in perenne richiamo l’un dell’altra, senza possibilità alcuna di potersi riunire.
Il Castello di Valsinni
Nel feudo di Favale, oggi borgo di Valsinni, in provincia di Matera, dall’altura che sovrasta la valle del Sinni, dopo l’anno 1000, verosimilmente su un preesistente fortilizio longobardo, venne innalzato un castello la cui particolare nomea accrebbe dopo aver custodito al suo interno l’esistenza d’una poetessa.
Attorno al 1520, infatti, primo gemito di bimba giunse all’udito dei genitori, il barone di Favale Giovanni Michele di Morra e l’aristocratica Luisa Brancaccio, che appellarono la neonata Isabella.
L’esilio del padre e del primogenito per motivi post bellici ed il costante isolarsi della madre nelle sue stanze a causa di patologie nevrotiche, sfumò di tristezza l’infanzia della piccola che, tuttavia, trovò sollievo dedicandosi agli studi sotto la guida d’un precettore, il canonico Torquato, grazie al quale la giovane divenne poetessa fedele al petrarchismo, ossia un movimento diffuso in tutta Europa che, fra il basso medioevo e la prima parte dell’età moderna, ispirò più letterati a seguire penna di Francesco Petrarca.
Poco più che ventenne, Isabella Morra ebbe il piacere di conoscere il barone di Bollita (oggi Nuova Siri) Diego Sandoval de Castro, un cavaliere e poeta spagnolo, anch’esso petrarchista, padre di tre figli e maritato ad una nobildonna napoletana, con il quale Isabella trattenne una un’intensa corrispondenza, saltuariamente incontrandolo in un casale di proprietà Morra, motivo per cui, anche se mai vi fu conferma d’un sentimento amoroso fra i due, voci di popolo si fecero subdola e puritana accusa nei confronti della stessa.
Gli spagnoli all’epoca signoreggiavano sulla parte meridionale della penisola e l’esiliar del padre Michele era conseguito all’aver combattuto con i francesi contro gli stessi, pertanto, essendo lo stesso Diego nemico della famiglia Morra, tre degli otto fratelli della poetessa, Decio, Fabio e Cesare, non ebbero remore, non appena udite le malignità di paese, ad assassinare Torquato, considerato il colpevole messaggero, pugnalando poi a morte la stessa Isabella, che in mano stringeva ancora le sue care missive; l’anno successivo, anche il povero Diego perì sotto colpi di archibugio che i tre fratelli gli infierirono, non solo per onore familiare, ma per questioni di potere, eliminando nella maniera più vigliacca colui che consideravano acerrimo nemico.
Il corpo della poetessa, nonostante numerose ricerche e notevole interesse da parte degli storici, non venne mai rinvenuto, ma il suo fantasma sembrerebbe vagare senza pace nel castello; più persone sostengono d’averla vista vagare indossando un abito bianco ed un mantello nero a copertura del volto piangente, oppure camminare lungo un fiume levando acuti pianti per la violenta fine a lei destinata, rimanendo nell’attesa di una sepoltura che possa lenire la sua tribolazione.
I
I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo piangendo, e la mia verde etate;
me che ’n sì vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate;
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna,
e col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l’alma sciolta
essere in pregio a più felice rive.
Questa spoglia, dov’or mi trovo involta,
forse tale alto Re nel mondo vive
che ’n saldi marmi la terrà sepolta.
IV
Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato,
de la tua ricca e fortunata riva
e de la terra, che da te deriva
il nome, ch’al mio cor oggi è sì grato;
s’ivi alberga colei, che ’l cielo irato
può far tranquillo e la mia speme viva,
malgrado de l’acerba e cruda Diva,
ch’ogni or s’esalta del mio basso stato.
Non men l’odor de la vermiglia Rosa
di dolce aura vital nodrisce l’alma
che soglian farsi i sacri Gigli d’oro.
Sarà per lei la vita mia gioiosa,
de’ grievi affanni deporrò la salma
e queste chiome cingerò d’alloro.
X
Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
un tempo, come sai, contra Fortuna,
sì che null’altra mai sotto la luna
di lei si dolse con voler più ardente.
Or del suo cieco error l’alma si pente,
che in tai doti non scorge gloria alcuna.
e se de’ beni suoi vive digiuna.
spera arricchirsi in Dio chiara e lucente.
Né tempo o morte il bel tesoro eterno,
né predatrice e vïolenta mano
ce lo torrà davanti al Re del cielo.
Ivi non nuoce già state né verno,
ché non si sente mai caldo né gielo.
Dunque ogni altro sperar, fratello, è vano.
XIII
Quel che gli giorni a dietro
noiava questa mia gravosa salma,
di star fra queste selve erme ed oscure,
or sol diletta l’alma;
ché da Dio, sua mercé, tal grazie impetro
che scorger ben mi fa le vie secure
di gire a lui fuor de le inique cure.
Or, rivolta la mente a la Reina
del Ciel, con vera umiltade,
per le solinghe strade
senza intrico mortal l’alma camina
già verso il suo riposo,
che ad altra parte il pensier non inchina,
fuggendo il tristo secol sì noioso,
lieta e contenta in questo bosco ombroso.
Quando da l’orïente
spunta l’Aurora col vermiglio raggio
e ne s’annuncia da le squille il giorno,
allora al gran messaggio
de la nostra salute alzo la mente
e la contemplo d’alte glorie adorno
nel basso tetto, dove fea soggiorno
la gran Madre di Dio c’or regna in Cielo.
Così, godendo nel mio petto umile,
a lei drizzo il mio stile
e ’l fral mio vel di roze veste velo
e sol di servir lei,
non d’altra cura, al cor mi giunge zelo,
seguendo le vestigia di colei
che dal deserto accolta fu tra i Dei.
Quando da poi fuor sorge
Febo, che fa nel mar la strada d’oro,
tutta m’interna e l’allegrezza immensa
c’ebbe del suo tesoro
quella che tanta grazia or a me porge;
ch’io la riveggio con la mente intensa
mirare il figlio in caritate accensa,
nato fra gli animai, con pio sembiante;
e del sangue che manda al petto il core
nodrire il suo Signore;
e scerno il duce de l’eterno amante
sotto povere veste
spregiar le pompe del vulgo arrogante,
colui che sol pregiò l’aspre foreste
e fu fatto da Dio tromba celeste.
Poi che ’l suo chiaro volto
alzando, da le valli scaccia l’ombra
il biondo Apollo col suo altero sguardo,
un bel pensier m’ingombra:
parmi veder Giesù nel tempio, involto50
fra saggi, disputar con parlar tardo,
e lei, per ch’io d’amor m’infiammo ed ardo,
versar dagli occhi, per letizia, pianto.
Questi conforti incontra i duri oltraggi
m’apportan questi faggi,
lungi schivando di sirene il canto;
ché per solinghe vie
il bel gioven, a Dio diletto tanto,
con le sue caste voglie e sante e pie
vide il sentier de l’alte ierarchie.
Alzato a mezo il polo
il gran pianeta co’ bollenti rai,
ch’uccide i fiori in grembo a primavera,
s’alcuno vide mai
crucciato il padre contra il rio figliuolo,
così contemplo Cristo, in voce altera
predicando, ammonir la plebe fera
e col cenno, del qual l’Inferno pave,
romper le porte d’ogni duro core,
cacciando il vizio fore.
Quanto ti fu a vedere, o Dea, soave
gli error conversi in cenere
del caro figlio in abito sì grave?
Quanto beata fu chi le sue tenere
membra a Dio consacrò, sacrate a Venere?
E se l’eterno Foco
giunge tant’alto ch’al calar rimira,
ti scorgo, o Signor mio, fra i tuoi fratelli
senza minaccie od ira
del tuo amor infiammarli a poco a poco,
e co’ leggiadri detti e gravi e belli
render beati e pien di grazia quelli,
lor rammentando pur la santa pace.
La gioia del mio cor, ch’amo ed adoro,
contemplo fra coloro,85
che i santi esempi tuoi raccoglie e tace.
O via dolce e spedita
trovata già nel vil secol fallace;
e chi ’l primiero fu, dal Ciel m’addita
sol de l’erèmo la tranquilla vita.
Per voi, grotta felice,
boschi intricati e rovinati sassi.
Sinno veloce, chiare fonti e rivi,
erbe che d’altrui passi
segnate a me vedere unqua non lice,
compagna son di quelli spirti divi,
c’or là su stanno in sempiterno vivi,
e nel solare e glorïoso lembo
de la madre, del padre e del suo Dio
spero vedermi anch’io
sgombrata tutta dal terrestre nembo,
e fra l’alme beate
ogni mio bel pensier riporle in grembo.
O mie rimote e fortunate strate,
donde adopra il Signor la sua pietate!
Quanto discovre e scalda il chiaro sole,
canzon, è nulla ad un guardo di lei,
ch’è Reina del Ciel, Dea degli dei.
(Rime, Giardini Editori, Pisa, 1983)
Il Castello Murat di Pizzo Calabro
Fortezza ultimata seconda metà del XV secolo, la prima parte del castello Murat venne in realtà costruita dagli angioini, in quello che a tutt’oggi è il comune di Vibo Valentia, a fini difensivi sul finire del 1300 ed ingrandito un centennio dopo dal re Ferdinando I d’Aragona, mantenendone la destinazione puramente militare a difesa degli attacchi saraceni.
Dopo più di 300 anni, nel 1767, terra francese fu patria natia di Gioacchino Murat, colui che, decenni a seguire, avrebbe inconsapevolmente legato il proprio nome in leggenda alle imponenti torri della rocca calabra.
Spronato dalla famiglia a carriera ecclesiastica, Gioacchino ne deluse aspettative, levando ben presto la tonaca in quanto dedito ad un tipo di vita completamente contrapposta, adorante le femminee creature, con particolare dedizione al gioco ed all’alcol.
Arruolatosi nella cavalleria nel Reggimento dei cacciatori delle Ardenne, il costante sostegno di Napoleone, in più nazioni, gli valse titolo di generale, nonché di primo console e, seppur con iniziale avversione di Bonaparte, sposò in seguito la sorella minore, Carolina, entrambi follemente innamorati ed incaponiti all’unirsi in matrimonio, come avvenne nel 1800, con benestare del fratello.
Nominato re di Napoli dallo stesso cognato otto anni dopo, Gioacchino si trovò benvoluto dalla popolazione, ma non dal clero e ciò era dovuto principalmente a due motivi: il primo al fatto che, per assicurare al regno un sano e concreto sistema fiscale, il chiericato si vide espropriare numerosi beni; il secondo furono la legalizzazione del divorzio, del matrimonio civile e dell’adozione, introdotti con il Codice Napoleonico nel 1809. Tre introduzioni minanti l’influenza dei chierici sulla popolazione, unite ad un depauperamento materiale indubbiamente deleterio ed erosivo il potere clericale.
Completa reimpostazione politica della città, con revisioni, oltre alle fiscali, attuate a livello commerciale, giudiziario, strutturale e sanitario, ne fecero un innovativo regnante che, tuttavia, dopo vittoria dell’Austria nella Battaglia di Tolentino e successiva sottoscrizione del Trattato di Casalanza del 1815, fra l’esercito napoletano e l’austriaco, si trovò costretto ad abbandonare il trono fini a quando, solo quattro mesi dopo, tentò appassionata spedizione, con poco più di 200 uomini al seguito, nel tentativo di riappropriarsi di quella Napoli che tanto aveva amato e riassettato.
Costretto allo sbarco a Pizzo a causa di violenta burrasca, qui fu arrestato, incarcerato e successivamente fucilato, in base all’intransigente legislazione prevista nei confronti dei rivoluzionari, da lui stesso precedentemente promulgata nel Codice Penale.
Ultimo desiderio prima d’affrontare il patibolo con estrema dignità, fu quello di poter scrivere una lettera alla moglie ed ai figli, prima di venire fucilato il 13 ottobre dello stesso anno, respingendo la benda e guardando la morte in faccia, tra fiero orgoglio e mirabile pacatezza.
«Sauvez ma face, visez mon coeur, feu!»
«Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!»
Alcune testimonianze ne riportano apparizioni, voci, strani giochi di luci ed il frastuono delle catene che il suo fantasma cioccherebbe all’interno della chiesa dove sembrerebbe essere sepolto il suo corpo, sebbene riguardo al luogo di tumulazione vi siano parerei contrastanti; una seconda narrazione lo riporta spirito vagante all’interno del castello, diviso fra il tentativo di riconquista della sua Napoli e il desiderio d’ottenere il perdono di Napoleone, ch’egli aveva tradito per questioni politiche. Fra le mura dello stesso si verificherebbero strani eventi, quali apertura e chiusura di porte e finestre, inspiegabili spostamenti di mobilio oltre ad un’enigmatica tempesta che, per diversi anni, si verificò nel medesimo giorno ed alla stessa ora in cui lampi e tuoni fermarono Gioacchino a Pizzo, motivo per cui il ricorrente evento atmosferico venne definito ‘A tempesta di Giacchinu.
Il Castello di Castellammare di Stabia
Dolcemente contenuto in una conca del meraviglioso golfo di Napoli, fra l’ultima parte della zona vesuviana e il principio dell’isola fiorentina, il comune di Castellammare di Stabia offre suolo a un castello medievale, ai tempi chiamato Castrum Maris de Surriento, che sorge in un parco di olivi sulla collina di Pozzano e la cui costruzione avvenne nel IX secolo ad opera del duca di Sorrento e poi ripreso sia da Federico II di Svevia che dagli angioini.
Ristoro per vescovi, importante centro culturale di riferimento ed in seguito potente roccaforte militare, attualmente il castello non è visitabile poiché di proprietà privata e pertanto a porte aperte esclusivamente sotto organizzazione di particolari meeting con permesso dei possidenti; ciò non ha limitato in alcun modo l’effondersi al suo esterno di sconfortanti pianti e spaventose risate che apparterrebbero al fantasma di una donna, da qualcuno visualizzata con lunghi capelli neri ed avvolta in un abito rosso, ferma sull’ingresso.
Lo spirito in questione rimanda alla Congiura dei Baroni, un movimento rivoluzionario originatosi contro il potere degli Aragonesi sul regno di Napoli che, tramite il re Ferdinando I, tentarono opera d’innovazione, fortemente ostacolata dagli aristocratici Baroni, ovviamente ben decisi a mantenere invariati i propri privilegi; la conquista della fortezza avvenne facilmente grazie all’apertura delle sue porte, alle truppe angioine, da parte di una castellana convinta del gesto esclusivamente perché sospinta dall’amore, ella era difatti infatuata di un soldato appartenente alle stesse, che la trasse in inganno al solo fine di riuscire a varcare l’ingresso.
La donna, non venendo corrisposta nei propri sentimenti, in quanto il cavaliere, una volta raggiunto il suo scopo, aveva disdegnato le sue richieste amorose, fu pervasa da immensa umiliazione e terribile disinganno, in aggiunta alla vergogna conseguente al suo esser considerata una traditrice, ragion per cui venne rifiutata da qualsiasi altro uomo. L’inguaribile tristezza la condusse al suicidio, che ella attuò avvelenandosi in quella che è conosciuta come Camera degli Angeli, la stessa in cui l’innamorata ferita vagabonderebbe da oltre 5 secoli.
La Dama Rossa, così è comunemente denominato il suo fantasma, apparirebbe al chiarore della sfera lunare al fine di difendere il castello dalla presenza di nuovi intrusi; l’eco dei suoi penetranti singhiozzi e delle sue demoniache risate disturberebbe dunque chi si trovi a pernottarvi, nel tentativo di terrorizzare gli ospiti, spronandoli ad andarsene.
Il Castello di Bardi
Nel piccolo comune parmense di Bardi, che supera di poco i 2000 abitanti, vi è una splendida fortezza militare, edificata nel IX secolo, omonima del paese o in alternativa denominata “Castello Landi”, la cui vista toglie il fiato per imponenza e bellezza; sito incredibilmente arroccato, scolpito nel diaspro rosso ed immerso in un paesaggio naturale con possibilità d’ampia veduta sulla Val Ceno, i camminamenti di ronda, le alte torri, la piazza d’armi, il cortile, i granai, la ghiacciaia, il forno, il pozzo, le prigioni e le sale di tortura riportano in un balzo nei secoli passati, periodo in cui appassionata storia d’amore, fra il XV ed il XVI secolo, ebbe a nascere fra Moroello, il comandante delle truppe, e Soleste, la figlia del castellano.
Ostacolo ai sentimenti di entrambi fu la promessa di matrimonio con la quale il padre della donna la promise in sposa ad un ricco feudatario, ma, nonostante questo, la balia di Soleste aiutò gli amanti ad assecondare il loro desiderarsi, permettendo ai due d’incontrarsi e trascorrere del tempo insieme.
Battaglia chiamò al dovere il comandante che, per parecchie settimane, s’assentò dal castello dalle cui torri una nostalgica e speranzosa Soleste l’attese vittorioso. Fu un nefasto equivoco a spezzare per sempre la possibilità che i due innamorati di riunirsi in quanto Moroello, vincitore, rientrò indossando l’abito del nemico. La povera donna, vedendo le truppe da lontano, riconoscendo quindi le divise, non i volti, fu dunque portata a credere che ad avvicinarsi fosse il nemico e il solo pensiero che il suo amato potesse essere passato a miglior vita, interruppe la sua, gettandosi la stessa dai bastioni; apprendendo la terribile notizia dall’affranta balia, Moroello, in preda allo sconforto, si suicidò gettandosi dal torrione della piazza d’armi.
L’apparizione del suo fantasma, nei pressi della torre, è divenuta sempre più frequente, fino a destare l’interesse del Dipartimento di Ricerca del Centro Studi Parapsicologici di Bologna che, utilizzando una termocamera d’ultima generazione, avrebbe fotografato il sofferente comandante, allestendo poi una mostra fotografica all’interno del castello.
La stessa Soleste, seppure in misura minore, sarebbe stata avvistata camminare prostrata nel suo insanabile lutto.
Altri strani eventi che si narra si verifichino in alcune stanze sono strane voci maschili e conversazioni, rulli di tamburi, l’alternarsi di piacevoli essenze al greve odore di sterco, sebbene al di fuori dei periodi di concimazione; addirittura spostamenti notturni di massi, spesso ritrovati posizionati in semicirconferenza, in periodi in cui il castello non è aperto alle visite pubbliche.
Per la mole di osservazioni dedicate da parte dei ghost hunters al castello di Bardi, lo stesso è ritenuto come punto di partenza per la valutazione di fenomeni termici nei luoghi ritenuti infestati, con il supporto di tecnologie sempre più sofisticate a riguardo.
Il Castello di Gropparello
Una delle storie più agghiaccianti appartiene al castello di Gropparello, piccolo comune piacentino in cima al cui rinfianco roccioso, a strapiombo sul torrente Vezzeno, si può visitare una roccaforte che porta nei suoi muri la storia di più epoche, con parti più antiche annesse alle successive, a partire dalla vecchia torre di guardia.
La tragedia che si consumò al suo interno appartiene alla seconda metà del XIII secolo e racconta della bellissima Rosania Fulgosio, sposa di Pietrone da Cagnano, signore del castello, con cui la donna convolò a nozze perché costretta dalle rispettive famiglie.
Ardito combattente e spesso assente per motivi bellici, Pietrone si trovava in guerra quando la sua fortezza venne presa d’assalto dal capitano Lancillotto Anguissola il quale, dedito al marchese Pallavicino, una volta conquistato il castello minacciò crudeli ritorsioni.
La bontà di Rosania la portò intrepidamente ai piedi di Lancillotto per supplicare pietà nei confronti delle truppe soggiogate ed è appunto durante l’intercessione che i due si riconobbero come amanti del passato, rinnovando sull’istante il loro sentimento ed abbandonandosi ad esso durante la notte e nei giorni a seguire.
A nuovo richiamo militare, Lancillotto ripartì con il suo esercito; al suo ritorno dalla guerra, Pietrone venne a conoscenza del tradimento e, con impietosa lucidità, fece costruire una stanza segreta sotterranea dove, lontano da occhi indiscreti, una sera stordì la moglie con del vino narcotizzato e la murò viva in quello spazio segreto, lasciandola perire di stenti.
La sofferenza di Rosania, il cui corpo non fu mai rinvenuto, si manifesta con apparizioni dalle sembianze giovanili e minute, con un lunga e candida veste e i capelli raccolti in un velo; il fantasma non appare minaccioso, ma tristemente silente ed avvilito, comparendo e scomparendo in tutto contegno, talvolta interrotto da lievi gemiti e lamenti.
La soprannominata Dama Bianca sembrerebbe apparire in cerca di contatto e consolazione, in quanto priva di armonia interiore; lo spirito della donna, nel corso delle numerose visite al castello, è stato più volte avvistato e fotografato nei suoi repentini passaggi fra gli umani.
La Rocca Sforzesca di Imola
È invece il fantasma di Caterina Sforza, contessa di Imola e Forlì, a tramar leggenda nella rocca sforzesca al centro di Imola, la fortezza medievale, originariamente composta da nove torrioni, più il torrione centrale, poi restaurata e rinforzata, nel XV secolo, sotto direttiva del nobile duca di Milano Gian Galeazzo Maria Sforza, che ne diede l’aspetto attuale, ossia con quattro torri perimetrali ed un mastino centrale, nelle appenniniche valli bolognesi.
Da una relazione illegittima del duca con Lucrezia Landriani nacque l’avvenente Caterina, donna d’impareggiabile coraggio che, con tutta se stessa, tentò di resistere al forte assedio di Cesare Borgi, detto “Il Valentino”, fino ad essere sconfitta e rinchiusa nelle prigioni romane di Castel Sant’Angelo, varcando la città a cavallo, abbigliata di gioielli nel fisico, di baldanza nello spirito e di amor proprio nel cuore.
Da tutti ricordata per ardimento e caparbietà, il femminile fantasma apparirebbe nella sua dimora, armato di lancia per difendersi da Cesare oppure reggendo un lume che, nell’intenzione di proteggere un ipotetico baule ricolmo d’oro, la stessa spegne improvvisamente calando nella più completa oscurità chiunque s’azzardi a tentar d’entrare nelle sue stanze, per accedere alle quali si dovrebbe salire una strettissima scala, sulla cui cima, pronta a soffiar la fiamma, starebbe a guardia la diafana contessa.
Nelle notti di plenilunio, sembrerebbe affacciarsi alle finestre ed il tale atteggiamento si teorizza sia legato all’osservazione del futuro, essendo la stessa stata, in vita, un’appassionata intenditrice di pratiche d’alchimia erboristica, in particolare da sperimentare in ricettari di bellezza; in un suo libro lasciato alla storia e intitolato Liber de experimentiis Catherinae Sfortiae, sono contenuti svariati appunti su incantesimi con cui combattere gli spiriti ed una raccolta di circa 500 procedimenti per preparazioni medico-cosmetiche.
Oltre all’innata arditezza, di lei si raccontano lati caratteriali particolarmente efferati; sembrerebbe infatti che la donna gettasse gli ospiti sgraditi in un pozzo sul cui fondo erano state sistemate delle lame o che, nei confronti dei nemici, non avesse remore ad attuare impietose vendette, fra cui la somministrazione di veleni personalmente preparati.
Il Castello di Montebello di Torriana
È nella minuscola frazione di Montebello di Torriana, nel comune di Poggio Torriana, in provincia di Rimini, che il castello omonimo, anche detto Guidi di Bagno o castello di Azzurrina, s’arrocca su un colle a quasi 450 mt d’altezza e custodisce la commovente e celebre leggenda d’una bimba di nome Guendalina, la cui storia risale al lontano 1370, ossia all’anno in cui la stessa sarebbe nata, albina, e poi scomparsa ad appena 5 anni di età.
Il padre era il feudatario Ugolinuccio (o Uguccione) di Montebello e la madre una donna che, ben consapevole delle superstizioni popolari riguardo al collegamento fra demonio ed albinismo, che avrebbero condannato la figlioletta ad uccisione, cercò di nasconderne i tratti tingendole frequentemente i capelli di tonalità corvina; accadde però che il continuo attenuarsi dei pigmenti naturali avesse donato alla chioma della piccola una nuance azzurra, in abbinamento al colore dei suoi occhi ed alla base del soprannome poi affibbiatole.
Metodo di tenera difesa ed amorevole protezione paterna fu invece il serrato controllo della bimba ad opera di due guardie, per assicurarsi che mai uscisse dal castello, ma perfido fato volle che nel solstizio d’estate del 21 giugno 1375, tragedia si concretizzasse. Per motivi milionari il padre era assente e Azzurrina giocava con una palla di stoffa all’interno delle stanze poiché era in corso un terribile temporale; rotolandole via di mano la palla, l’infante cadde nella ghiacciaia nel probabile tentativo di riprendere il proprio gioco e, al disperato grido d’emergenza delle guardie, l’affettuosa madre e tutto il personale si misero alla ricerca della piccola ma, nonostante la cella frigorifera avesse un’unica entrata, non fu mai ritrovata.
Nessuna fonte storica sta a conferma di questo accadimento, peraltro tramandato di secolo in secolo, ma anche fossero fatti realmente accaduti, indubbiamente il racconto sarà stato suscettibile di inevitabili modifiche nel corso del tempo; tuttavia, il mistero della sua supposta scomparsa sembrerebbe riprender voce ogni 5 anni quando, in concomitanza con il solstizio d’estate, il fantasma della fanciulla sembra riappaia facendo udire la propria voce innocente.
Il Forte di San Leo
Di nuovo in provincia riminese la storia di uno spirito senza quiete, quello dell’avventuriero, alchimista ed esoterista Giuseppe Giovanni Battista Vincenzo Pietro Antonio Matteo Franco Balsamo, altrimenti noto come Alessandro conte di Cagliostro, od essenzialmente Cagliostro.
La vita lo volle natio palermitano, procreatore il mercante tessile Pietro Balsamo, e madre Felicità Bracconieri, che lo diede alla luce il 2 giugno del 1743; orfano di padre poco dopo la nascita, Cagliostro studiò all’interno di un apposito collegio dal quale più volte, difficilmente educabile ed allergico alle regole, si dette alla fuga.
Dopo successivo affidamento al convento di Caltagirone, il ragazzo iniziò a manifestare sentito interesse nei confronti di preparazioni medico-erboristiche, ma, lasciato anche il convento, riprese una vita a tratti sregolata, maritandosi dopo qualche anno in suolo romano, fino all’abbandono dello stesso per ricevuta denuncia come falsario che lo stesso proseguì imperterrito per tutta il corso della sua esistenza, arrivando addirittura a far prostituire la moglie, per altro apparentemente bendisposta al facile guadagno fra le lenzuola di benestanti personalità.
Ricevute le più disparate accuse, dall’eresia alla truffa, dalla calunnia alla massoneria ed altre ancora, la condanna della chiesa lo costrinse a trascorrere gli ultimi anni di vita nella fortezza di San Leo, in una cella, di circa 10 metri quadri, talmente disagevole, da destrutturarne l’equilibrio mentale; denominata “il pozzetto”, l’angusta prigione prevedeva che perfino il cibo gli venisse calato dal soffitto, non essendo presenti porte, se non una ristrettissima finestrella, che non bastò all’uomo per mantener la ragione, conducendolo alla graduale follia, paralizzandosi tre giorni prima di morire, a causa di un evento cerebrale, nella disperazione più assoluta.
Voce di leggenda racconta che lo spirito dell’uomo, inquieto tanto in vita quanto al termine della stessa, ancora vaghi nei pressi del castello nel desiderio di ricevere degna sepoltura e trovar finalmente quello stato di pace che mai gli fu proprio.
Strani lamenti sembrerebbero essere stati uditi come rimpianti della moglie Lorenza che, accusando il marito su pressione della santa Inquisizione e poi rinchiusa nel convento di sant’Apollonia per 15 anni, vagherebbe in preda ai sensi di colpa nei luoghi dell’arresto, manifestandosi come amareggiata ombra sussurrante i propri rimpianti.
Perché raccontare storie di fantasmi? Perché leggerle o ascoltarle? Perché trarre piacere da storie che non hanno nessuno scopo tranne quello di spaventare? Non lo so. Non del tutto. È una tradizione che risale a tanto tempo fa. Abbiamo storie di fantasmi dall’antico Egitto, dopo tutto, storie di fantasmi nella Bibbia, storie di fantasmi da Roma (insieme a lupi mannari, casi di possessione demoniaca e, naturalmente, più e più volte, di streghe). Abbiamo raccontato storie di alterità, della vita oltre la tomba, per un lungo periodo; storie che fanno formicolare la carne e rendono le ombre più oscure e, cosa più importante, che ci ricordano che viviamo e che vi è qualcosa di speciale, qualcosa di unico e straordinario nell’essere vivi.
Neil Gaiman
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