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Russia, Mondiali di calcio 2018: Storia di un massacro

Migliaia di animali uccisi nonostante le promesse.

 
 
Il 14 giugno alle 17:00 in punto, Russia e Arabia Saudita daranno il via alla 21° edizione dei Mondiali di calcio, ma prima che i tifosi delle 32 nazionali partecipanti invadano le strade, per garantir loro un piacevole soggiorno e sostenere l’immagine pubblica delle undici città ospitanti, queste dovranno essere libere da cani e gatti (si parla anche di volatili), ancora una volta vittime di un massacro che non si fermerà nonostante le promesse.

Russia, Mondiali di calcio 2018, Ekaterina DmitrievaE’ stata Ekaterina Dmitrieva, responsabile dell’organizzazione City Animal Protection Foundation, ad aver portato la questione all’attenzione pubblica anche lanciando la ben nota petizione indirizzata al Presidente Putin e al Procuratore Generale Chaika, ma il punto è capire se questa, adesso che ha raggiunto l’obiettivo del milione di firme, sarà anche in grado di evitare il possibile sterminio.

Secondo le stime sono 2 milioni i randagi che si aggirano per le vie interessate dall’evento sportivo, solo a Mosca oltre 35mila e già in passato, la Russia è stata al centro di aspre polemiche, quando in occasione delle Olimpiadi invernali tenutesi a Sochi nel 2014, il governo aveva predisposto l’uccisione di 2000 animali presentando le stesse identiche motivazioni, una carneficina evitata solo grazie alle ampie proteste sollevate a livello internazionale da gruppi e associazioni a difesa dei diritti degli animali.

Le autorità fecero un passo indietro e promisero che cani e gatti sarebbero stati collocati all’interno di rifugi, ma due anni più tardi, quando ormai i riflettori erano spenti da tempo, attraverso testimonianze come quella di Vlada Provotorova, si venne a sapere che l’idea di far piazza pulita era stata tutt’altro che accantonata, le uccisioni continuarono e tra i sicari, anche «una società privata assunta da funzionari», dirà la donna, la quale tentò di salvare quante più vite portando i cani in un suo rifugio di fortuna nella periferia di Sochi, per poi fondare la Sochi Dogs, organizzazione registrata negli Stati Uniti, con lo scopo di dar casa ai “senzatetto” fuori dal territorio russo.

Ancora nel 2015, gli attivisti si scagliarono contro quella che doveva essere una campagna nazionale condotta dalle cosiddette “squadre canine del KGB”, una caccia aperta che fece scatenare le proteste anche sui social, ma dato che nessuna fonte autorevole ne dava resoconto, da molti fu trattata come una notizia infondata, fin quando diverse agenzie di stampa cominciarono a segnalare un sempre maggior numero di avvelenamenti in varie città, episodi poi documentati anche attraverso la pagina Anti Dog Hunter di VKontakte, il fratello russo di Facebook, ai quali fecero seguito le testimonianze di cittadini di Vladivostok, interpellati dal locale sito di notizie VladNews.ru.

Nonostante il lavoro portato avanti dagli attivisti negli ultimi anni, volto a richiamare l’attenzione circa l’esistenza di una comunità di cacciatori di cani e il conseguente pericolo per la loro vita, questa ha continuato a crescere quasi indisturbata ed oggi, oltre un milione e mezzo di euro è la cifra che secondo Ekaterina Dmitrieva, sarebbe stata stanziata per procedere all’abbattimento degli animali prima del calcio d’inizio.

Solo a Ekaterinburg sono stati assegnati 460mila euro, ma il governo, per voce del vice premier Vitaly Mutko, bannato a vita dai giochi olimpici a seguito dello scandalo doping, ha seccamente respinto le accuse, affermando di aver disposto la realizzazione di rifugi temporanei dove gli animali saranno per giunta medicati, quindi sterilizzati e vaccinati.

Lodevole iniziativa, quanto ineccepibile sembra sia il piano d’accoglienza, peccato che tale decisione sia arrivata dopo mesi durante i quali gli animali sono stati avvelenati ed uccisi. I piani sono infatti cambiati quando, facendo seguito alle proteste, il presidente della commissione per l’ecologia e la protezione dell’ambiente Vladimir Burmatov (membro di Russia Unita), ha fatto appello, chiamando in causa anche il ministro dello sport Pavel Kolobkov, affinché il randagismo fosse gestito in maniera civile seguendo il sistema che prevede cattura, sterilizzazione, vaccinazione e ritorno, portando a suo favore anche la tesi secondo cui i costi per ammazzare sono nettamente superiori a quelli necessari per creare dei rifugi in cui accudire cani e gatti.

Solo allora il governo russo si è deciso fermare tutto e far promessa di esaudire le richieste delle organizzazioni a difesa degli animali e di Burmatov, il quale sostiene che il fenomeno è comunque limitato a poche città. Tutto considerato, passato compreso, il sospetto che l’impegno si possa trasformare nella solita menzogna non sono pochi ad averlo, anche perché dietro a questa caccia, sembra nascondersi un vero e proprio business fuori controllo, in quanto chi ammazza può farne fuori 10 e ricevere denaro per 100, semplicemente dichiarando il falso.

Un problema difficilmente risolvibile anche per il fatto che in Russia non esiste una legge federale a tutela dei diritti degli animali, non c’è una stretta sorveglianza sulle attività degli allevatori e meno che meno un regolamento attraverso il quale aver pieno controllo dei finanziamenti per regione, comune, distretto ed ancora Burmatov infatti, afferma che a complicare ulteriormente la situazione è l’assenza di comunicazione tra autorità federali e locali.

Ekaterina Dmitrieva ha contattato anche la FIFA portandola a conoscenza dei fatti, senza però ottenere una reazione degna di nota. La federazione si è limitata a riconoscere l’importanza di certe iniziative e che le stesse meritino di essere supportate, ma che «a causa dei numerosi impegni» non la possono sostenere attivamente. Un due di picche in piena regola, come del resto era prevedibile, anche se rimane sempre bello pensare che anche il mondo del calcio un giorno esca dal pallone di cristallo e prenda posizione anche in questioni del genere, dove non è richiesta la pur sempre ammirevole beneficienza, ma una partecipazione reale. In questo senso sarebbe interessante avere il parere diretto degli allenatori, dei giocatori e sapere se anche loro hanno troppi impegni per dedicare tempo ad esprimere un pensiero e sostenerlo concretamente con azioni che non siano solo quelle in campo.

Episodi di questo tipo vanno puntualmente ripetendosi ormai da anni, quando di mezzo c’è qualche manifestazione sportiva. Nel 2012 protagonista fu l’Ucraina, quando in occasione degli Europei di calcio, le autorità arrivarono ad offrire 40€ per ogni esemplare morto e decine di migliaia di randagi furono presi a fucilate, bastonate, uccisi facendo uso di veleni e secondo quelli della PETA, furono persino impiegati inceneritori mobili. Lo stesso accadde a Pechino per le Olimpiadi del 2008, quando il governo organizzò dei lager dove i cani vennero sterminati in massa e ancora nel 2004 per i giochi olimpici di Atene, il veleno fu la soluzione al randagismo.

Gli animalisti quindi, temono che nonostante le promesse il massacro continui in silenzio, ma secondo Alexander Kulagin, consulente del Centro moscovita per la Protezione Giuridica degli Animali, le soppressioni sono però inevitabili e la legge sul trattamento responsabile degli animali che è in discussione dal 2010, qualora fosse approvata non farebbe altro che lasciare in libertà dei randagi pericolosi per l’uomo e principali colpevoli della distruzione della fauna selvatica e delle risorse venatorie. Il Centro infatti, si oppone anche al rafforzamento dell’art. 245 del codice penale della Federazione Russa che prevede pene per “Crudeltà verso gli animali”, in quanto non consentirà di far ricorso all’eutanasia anche nei casi in cui questa sia ritenuta necessaria.

Kulagin sostiene che l’attuale sistema dei rifugi sia una delle cause di randagismo e che anche la soluzione temporanea promessa dal governo per i Mondiali, sempre se realmente attuata, non sia una soluzione adeguata e non lo sarà fin tanto che ad un ingresso illimitato non corrisponderà un tempo limitato; in altre parole è a favore dell’eutanasia qualora l’animale non venga adottato o reclamato dai proprietari entro un certo limite di tempo, esattamente come avviene, non senza polemiche al seguito, in alcuni rifugi degli Stati Uniti, una morte secondo loro evitabile, introducendo un meccanismo di tutela retribuita per i cittadini.
 
 
 
 

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