San Galgano: i luoghi sacri e la spada nella roccia
Posizionata in una florida distesa della meravigliosa natura toscana, l’antico Eremo di Montesiepi custodisce all’interno delle sue mura una remota daga incastonata nella pietra che richiama la leggendaria narrazione de La spada nella roccia, oltre che affascinare ogni visitatore della sua peculiare architettura, custodente il silenzio più solenne e provvidenziale, in ideale unione all’Abbazia di San Galgano.
I monasteri appaiono come i luoghi della lode e come i luoghi del silenzio necessario alla lode. Nella strada, stretti dalla folla, noi disponiamo le nostre anime come altrettante
cavità di silenzio dove la Parola di Dio può riposare e risuonare.
Madeleine Delbrêl
Situata nel comune di Chiusdino, ad una trentina di chilometri circa da Siena, l’ammaliante badia porta mura in stile gotico “… e per tetto un cielo di stelle” – rubando titolo ad una pellicola datata 1968, a direzione del regista, sceneggiatore e scrittore Guido Pedroni (1917-2010) – in quanto priva di copertura sulla sua sommità e nella struttura del tutto simile alle abbazie scozzesi di Jedburgh e di Melrose, nonché a quella di Tintern, nel Galles.
La celebre costruzione, che in accoppiata all’Eremo di Montesiepi, di cui patrono è San Galgano, al quale sono dedicate ambedue i cenobi, è uno dei luoghi maggiormente visitati nella Val di Merse e la sua edificazione avvenne fra il 1218 ed il 1288, ad opera dei monaci cistercensi, appartenenti all’omonimo Ordine religioso di stampo cattolico e di diritto pontificio, vale a dire istituito o comunque approvato dalla Santa Sede in formalità di decreto.
Quello che in latino era nominato Ordo cistercensis, s’avviò nella regione francese di Borgogna, l’odierno distretto di Côte-d’Or, precisamente nell’abbazia di Cîteaux, fondata il 21 marzo 1098 dall’abate francese Roberto di Molesme (1024/1028-1111), monaco benedettino che nell’autunno del 1097, stimolato dal desiderio di ritirarsi in un luogo dove rispettare rigorosamente la Regola benedettina, si recò dall’arcivescovo di Lione con alcuni monaci a lui affini nelle opinioni, ottenendo dallo stesso la benedizione richiesta, a seguito della quale il priore, insieme ad una ventina circa di religiosi, trasferì corpo e spirito in quello che, prima d’assumer nominativo di Cîteaux, si chiamava Nuovo Monastero.
L’Ordine succitato, impostato in monasteri indipendenti adunati in congregazioni monacali, con costituzioni proprie e guidato a livello generale da un abate abitante a Roma, venne a delinearsi all’interno della precedente congregazione cluniacense, o da Cluny, una delle molteplici nate in riferimento a San Benedetto, nell’aspirazione ad una condotta maggiormente austera unitamente all’intimo bisogno di un ritorno al lavoro manuale.
La critica mossa agli ecclesiastici di Cluny iniziata da Molesme, poi tenacemente portata avanti dal monaco, abate e teologo francese Bernard de Fontaine (1090-1153), italianizzato e noto come Bernardo di Chiaravalle, fu l’eccessivo interesse degli stessi nei confronti di lusso e comodità, stile di vita a lui in piena antitesi, nella convinzione che un ritrovato contatto con la terra nel suo coltivarne i campi, avrebbe potuto essere il primo passo nella riconquista d’una spiritualità pura ed essenziale, da una parte ricollegandosi alle meraviglie del creato, dall’altra stimolando l’ingegno nella sperimentazione d’innovative tecniche agricole, allo stesso tempo interessandosi maggiormente ai fabbisogni economici territoriali, in una sorta di monachesimo revisionato in alcuni suoi aspetti.
Genuina e primordiale sostanzialità di vedute che, oltre alla condotta quotidiana, inevitabilmente si manifestò anche a livello architettonico nel rifuggire la seduzione del superfluo, in tal maniera influenzando ad ampio raggio tutti i monasteri aderenti alla confraternita, quali, appunto, quello senese, testimone d’un ascetismo di vissuti imprescindibilmente incastonatosi fra le mura che ne contennero lo svolgersi e le quali, in unione all’attrattiva suscitata dal fascino del mito aleggiante sulla spada di Excalibur, sono costante ed attraente richiamo di visitatori da più parti del mondo.
La Rotonda e l’Abbazia di San Galgano
La costruzione dell’Abbazia di San Galgano avvenne in una disabitata vallata nei pressi del suddetto Eremo di Montesiepi, quest’ultimo edificato nei luoghi in cui dove il Santo visse in mistico e solitario ritiro e, nello specifico, sopra la capanna dove trascorse il suo ultimo anno di vita; la minuscola chiesa viene anche detta Rotonda per la sua forma circolare e nella sua cappella si possono ammirare gli stupendi affreschi del pittore Ambrogio Lorenzetti (1290-1348), uno dei maestri e principali rappresentanti della Scuola Senese di pittura del Trecento, prosperante in territorio italiano e concorrenziale alla Scuola Fiorentina, le due più significative sedi nelle quali, in periodo medievale, si cominciò a parlare di pittura gotica.
Consacrato nel 1185 dal vescovo di Volterra Ildebrando Pannocchieschi, su permesso di Papa Lucio III (1100-1185), all’anulare chiesa dell’Eremo, a partir dal XIII secolo, vennero aggiunti un androne, il campanile, la cappella della famiglia Lorenzetti, voluta nel 1340 dall’incisore e pittore Francesco Vanni dei Salimbeni (1563 circa -1610), la lanterna cieca nel XVII secolo, quindi la settecentesca casa canonica e i vari complessi ad uso agricolo.
La cupola è magnificamente rivestita al suo interno con file di mattoni rossi alternati a candide pietre, raffinata composizione cromatica in completa armonia alla solennità del santuario proprio al centro del quale, da oltre otto secoli, troneggia la famosa spada della quale, dopo esser stata la stessa stata più volte considerata un falso, uno studio del 2001, con indagini scientifiche sulla stessa in stretta collaborazione fra le Università degli studi di Pavia, Milano, Padova e Siena, ne ha certificato l’autenticità, datando il metallo fra il 1100 e il 1200.
La prima pietra della vicina Abbazia venne invece posta dal 1218 a partire, secondo le più accreditate teorie, dall’abside, come peraltro tipico dei canoni cistercensi, secondo le cui ferree regolamentazioni avrebbe dovuto mantenere una linea architettonica assolutamente sobria e sorgere nelle vicinanze sia d’un corso d’acqua che d’un’importante via di comunicazione, che in tale caso furono il fiume Merse la Maremmana, allo scopo di favorire sia un semplice raggiungimento della casa madre, quanto il vantaggio d’una fonte idraulica non troppo lontana, senza dimenticare l’importanza, a fini agricoli, della disponibilità di zone verdeggianti a poca distanza.
La suddivisione interna della chiesa in tre navate la si può dedurre da un’attenta osservazione esterna, guardando difatti l’abside verso est ed avendo la facciata due spioventi; la pianta, d’una settantina di metri di lunghezza ed un ventina di larghezza, è a cornice latina, con transetto ampio come parte finale.
Il chiostro, sfortunatamente distrutto nel XVIII secolo, sorgeva a destra della struttura e negli anni venti ne venne fatta una parziale ricostruzione, per alcune parti utilizzando materiali d’originaria derivazione, al fine di rendere visibile il fulcro di quella che fu la vita dei monaci, la cui attività amministrativa si svolgeva nella sala capitolare, all’interno della quale gli stessi si riunivano per valutare interventi nel benessere dell’intera comunità, poi dirigendosi nella sala accanto, lo Scriptorium, per la fase di trascrizione di quanto deliberato.
L’edifico, non è più integro e davvero poche sono le sale rimaste, ciò nonostante, alcuni affreschi dei tempi che furono si possono ancora vedere all’interno della sagrestia, al pian terreno, sovrastata da due vaste volte a crociera, una tipologia di copertura architettonica che prevede l’intersezione longitudinale di due, ben più semplici e basilari, volte a botte.
Per oltre un secolo riferimento di fondamentale e simbolica importanza per la città, il suo graduale degradamento iniziò nel 1348, in concomitanza con la devastazione della peste, avendo la terribile malattia batterica sterminato per anni migliaia di uomini fra i quali, ovviamente, anche gli stessi monaci, inevitabilmente minando l’autonomia della badia stessa nella quale, dopo due abbondanti secoli, giunse il giorno in cui al suo interno risiedeva un solo uomo.
Ad infierire sulla bellezza e sul valore dello stesso edificio furono inoltre una moltitudine di furti che ne depredarono gli interni e gli arredi, arrivando perfino a demolire l’intero tetto, per poi rivenderlo, un impoverimento materiale che, nonostante tutto, nulla poté sull’immenso carisma e l’ammaliante influsso di quelle pietre incantevolmente sovrapposte in riflessione fra quali un prode cavaliere del Medioevo, al nome di Galgàno Guidotti, sciolse le sue redini in sentito e devoto abbandono ad eremitico passo, affrancandosi dal mondo per tendere al divino.
Si è portati a immaginare gli eremiti come individui strani e solitari, ma i luoghi comuni, come sempre, non servono a nulla. Sono persone che hanno viaggiato moltissimo, hanno affrontato pericoli di ogni sorta e non rifiutano il contatto con il mondo, semplicemente, il mondo, se lo sono lasciato alle spalle.
Espedita Fisher
Galgano e la spada nella roccia
Il richiamo turistico agli incantevoli luoghi nei quali colui che sarebbe stato santificato marciò sull’ultima parte del suo arco vitale, si ode in doppio eco fra leggenda e vocazione, direzionando l’interesse generale a quel roccioso masso in cui l’appuntita lama trovò la sua definitiva dimora, irrispettosamente più volte offesa dall’eccessiva curiosità dei gitanti i quali, in eccesso di tatto, ne hanno finanche rotto l’elsa, motivo per cui la ferrigna reliquia è attualmente protetta sotto la custodia di una teca in vetro, in tal modo permettendone la visione, secondo orari variabili in base alle stagioni ed a modici prezzi, gratuiti per i residenti, in assoluto riguardo alla conservazione della stessa.
Il mito di fondo rimanda alle opere del ciclo arturiano, o bretone, ossia la totalità delle leggende mitologiche britanniche e sui popoli indoeuropei dei Celti, specificatamente quelle in cui oggetto di racconti fu il condottiero re Artù, protagonista della narrativa alto e basso medievale, come pure personaggio basilare del folclore inglese, ed i cavalieri della Tavola Rotonda, com’erano definiti quelli di massimo grado appartenenti alla sua corte.
Spesso identificata con l’Excalibur, più gloriosa e resistente spada di codesto re, del suo estrarne dal coriaceo macigno ne favoleggiò, nell’opera Merlino, il poeta francese Robert de Boron, vissuto a cavallo fra il XII ed il XIII secolo, poi parzialmente smentito dallo scrittore Sir Thomas Malory (1409?-1471) il quale, nel suo romanzo Le Morte Darthur, sostenne che l’arma estratta non potesse essere quella riportata nei versi francesi di Boron, ma quella spezzata durante uno confronto con re Pellinor, giungendo dunque l’Excalibur in sostituzione alla stessa in un momento successivo.
L’imperitura attrattiva della saga non venne tuttavia ombreggiata dal descritto dettaglio frutto di differenti interpretazioni, ma s’estese a livello mondiale nella fantasia di chiunque desiderasse farsene piacevolmente stregare e, ora come allora, risonanza fiabesca solletica l’immaginazione, scenario al quale attinge storia in cui reale spada venne posta a pietrosa permanenza, nel 1180, da un cavaliere senese poco più che trentenne.
Figlio dei nobili Guido e Dionigia, il padre discendente dei conti Guidi, Galgano Guidotti (1148/1152 circa – 1181) nacque dopo essere stato desiderato a lungo, nell’ottica di un’educazione che lo rendesse temerario combattente tra le fila della Cavalleria medievale, la classe sociale con determinate ideologie e logiche di condotta dell’Europa di quei tempi, in particolar modo in decenni durante i quali le cittadine erano infervorate da sanguinose lotte tra famiglie per il predominio politico-militare.
Nonostante le ambizioni genitoriali e la fervente educazione religiosa, Galgano sviluppò natura alquanto violenta, inoltre dedicandosi ad un’esistenza dissoluta e consacrata ai lussuriosi piaceri della vita, perlomeno fino alle due apparizioni di Misser santo Micchele arcangelo, venuto a lui per comunicargli il proposito di renderlo un Cavaliere di Dio e comprendere quale avrebbe dovuto essere il suo percorso di vita, nella prima visione, quindi incitandolo a seguirlo, nella seconda.
Completamente risvegliatosi nel profondo della sua coscienza, il giovane s’abbandonò alla misericordia di Dio, montando il suo cavallo fino a giungere alla collina di Montesiepi e qui, due anni dopo il primo incontro con San Michele, realmente convertendosi sulla comparsa di Gesù, dei dodici apostoli e della Vergine Maria, colei che lo invitò ad intraprendere percorso d’anacoreta, in cambio offrendogli protezione illimitata.
Al rinnovamento spirituale corrispose miracoloso evento: non essendo infatti riuscito Galgano a costruire una croce con la sua spada, la gettò a terra e la stessa si conficcò nella roccia da sé, facendo in modo che l’impugnatura fuoriuscente rappresentasse il simbolo per antonomasia del supplizio cristiano, sul quale porsi in sincera e ritrovata preghiera ed abbracciando uno stile di vita in fede ad un solitario ed assoluto ascetismo, nonostante i vari tentativi della madre di condurlo a matrimonio, nella speranza di non perderlo.
Il capanno sul quale venne eretto l’Eremo ne accolse l’ultimo anno di respiro, ch’egli sfiatò in abbandono al mondo morendo inginocchiato davanti alla sua spada, in posizione di preghiera.
Fu lo stesso Papa Lucio III a santificarlo ad appena quattro anni dalla sua dipartita, seguendo le sue orme piccole comunità di fedeli e rendendolo nel tempo venerabile da molte perone provenienti da ogni parte del pianeta, fiduciose in una sua grazia oppure semplicemente anelanti di porre sguardo ad una meta di pellegrinaggio incantevole e soave, allo stesso tempo lasciandosi permeare dalla musicalità del silenzio ricondotto a preziosa e conscia ricerca interiore.
In tutti gli eremiti che ho incontrato e con cui ho vissuto, più o meno a lungo, domina la ricerca dell’assoluto, di Dio, l’incapacità di occuparsi d’altro che non sia questa ricerca. C’è l’adesione a un richiamo profondo che spinge verso il silenzio, il contatto con la natura e il rifiuto completo della logica comune. Donne e uomini che scelgono questa via non sono in fuga, ma in viaggio. La loro strada è quella di una ricerca continua che non può adeguarsi a nulla che non sia assoluto, che non può scendere a compromessi, e che fa di queste persone dei grandi avventurieri.
Espedita Fisher
La spada di San Galgano
Duilio Petricci, 1984
Si accorse di vedere, quella sera,
non più una spada, ma una croce vera,
cadde in ginocchio innanzi a quella croce,
rendendo grazie a Dio finché ebbe voce.
Pregò con la sua mente ormai pentita
sino all’ultimo giorno della vita
e terminò in quel luogo misterioso
il suo cammino fulgido e glorioso.
Fu costruita là in quella contrada
quella stupenda chiesa con la spada
che ancor si può ammirare ogni momento
quel segno del grandioso avvenimento.
E anche se qualche volta dalla gente
è stata manomessa: non fa niente!
perché quel che fu fatto, se vi pare,
fu fatto per proteggere e salvare.
C’eran tante persone assai curiose,
facevan delle cose assai incresciose;
sfilavano la spada dal suo foro
come se fosse stata roba loro,
e la lasciavan là sul pavimento.
Allora fu deciso in un momento
di bloccare la spada lì nel masso
che non venisse via senza lo scasso
e poter impedire a chicchessia
che avesse voglia di portarla via.
Alla presenza di parecchia gente
fra i quali c’era anche il sovraintendente,
il parroco Don Cimpi e i contadini
di quei sobborgi, e c’era anche il Bellini,
e fu colato di gran premura
del piombo fuso nella fenditura
e la spada così restò bloccata
così nessuno l’ha più sfilata.
Questo accadeva negli anni Venti
quando fu lavorato ai monumenti
ristemando bene tutti i muri
in modo tal da renderli sicuri.
E tutto filò liscio per tant’anni
finché non sopraggiunsero altri danni
qualcuno capitò in quella contrada,
io non so come, ma spezzò la spada
e dopo aver compiuto quel misfatto
si dileguò di là ormai soddisfatto.
Io non vi dico! Appena che lo seppe
lì si precipitò padre Giuseppe,
ma non poté far niente! Quel furfante
se ne era andato ormai molto distante.
Fu preso da una tal disperazione
che a tutti avrebbe fatto compassione.
Poi prese della cera e del cemento,
cercò di rimediare in un momento:
bloccò la spada al punto di rottura
rendendola così un po’ più sicura.
Però sopra la roccia quell’impiastro
faceva proprio orrore, che disastro!
Ma c’era poco da recriminare
lui meglio di così non seppe fare.
E poi padre Giuseppe andò lontano
lasciando lì la spada e san Galgano.
Proprio in quei giorni lì arrivò don Vito
padre Giuseppe ormai era già partito.
Don Vito un giorno mi mandò a chiamare
mi fece dire che mi volea parlare.
Io intanto ero curioso di sentire
quello che proprio a me voleva dire.
Mi disse allora che lui era sgomento,
veder la spada infissa in quel cemento.
E mi chiese consiglio su come fare
per poterla un po’ meglio sistemare.
E fu deciso: presi uno scalpello,
un punteruolo con un buon martello
e quel cemento ch’era tanto brutto
pian piano lo rimossi quasi tutto.
Era un lavoro quasi temerario
e lasciai lì lo stretto necessario.
Però restò il colore del cemento
in tutta quella parte, che tormento!
Ebbi un’idea che subito attuai:
presi un po’ di quel sasso e lo tritai
e subito impastai con della colla
di quella trasparente, e che non molla
e lì ne venne fuori una poltiglia
che tanto nel colore rassomiglia
a quella roccia dove sta infilata
la spada che così fu sistemata:
spalmando sul cemento quel colore
si fece in modo che sparì l’orrore.
Dopo venne il Terenni e con pazienza
dandoci un saggio della sua esperienza
fece alla spada quella protezione
per poter impedire alle persone
di combinare ancora nuovi guai.
Non lo faranno, ma non si sa mai.
Ed ancor oggi la si può ammirare,
quel che fu fatto è lì a testimoniare.
La storia della spada (quella vera)
io ve l’ho raccontata tutta intera
e quelli che la sanno differente
io vi assicuro, non ne sanno niente
E’ che l’ho sistemata proprio io,
ve lo posso giurare su l’onor mio!
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