Renia Spiegel, memorie di vita e poesia nell’Olocausto
C’è sangue ovunque io mi giri. Lo sterminio è terribile. Ovunque morte e uccisioni. Dio onnipotente, per l’ennesima volta ci umiliano davanti a te, aiutaci, salvaci! Signore Dio, lasciaci vivere, ti prego, voglio vivere! Ho vissuto così poco della vita. Non voglio morire. Ho paura della morte. È tutto così stupido, così meschino, così poco importante, così piccolo. Domani potrei smettere di pensare per sempre.
Renia Spiegel
Situata nel sud-est della Polonia ed a circa centocinquanta miglia da Cracovia, Przemyśl venne brutalmente occupata, nel 1939, sia dall’Unione Sovietica, sia dalla Germania nazista — il fiume San fungendo da separazione tra le due zone invase — ed al giunger dei rispettivi eserciti agli ebrei non rimanendo altra scelta che affluir in massa nel cuor della polacca cittadina, in fibrillante speranza di riuscire a varcar confine e trovar desiato ricovero nella zona dai russi usurpata, malauguratamente nel giugno del 1941 i tedeschi avendo la meglio sui sovietici ed all’incirca un anno in seguito un migliaio d’angosciati fuggitivi subendo deportazione nel campo di concentramento di Janóv, nonché men d’un mese dopo più di ventimila persone sciaguratamente stipate in un zona della città ed ivi rinchiuse nel giro d’una sola giornata, a ciò seguendo massiccio esproprio di lor proprietà e vile distruzione dei luoghi di culto, gran parte degli innocenti malcapitati — al netto dei massacrati in loco di coloro che s’erano magnanimamente offerti di nasconderli — venendo poi destinati alle ignobili mostruosità di Auschwitz o Belzec, frattanto nei pressi di Przemyśl, a Neribka, istituendosi un ulteriore campo di concentramento nominato Stalag 327, principalmente adibito a prigionieri di guerra ed attivo nel biennio intercorrente fra il dicembre del 1942 ed il luglio del 1944.
Nella bistrattata ed offesa città di Przemyśl spirò la gentil anima di Renia Spiegel, i cui occhi costretti ad osservare le terrificanti ed ignobili atrocità del bieco oltraggio inconcepibilmente compiuto dall’uomo sull’uomo.
Renia Spiegel, fiore reciso dalla disumanizzazione
La piccola Renia si schiuse al mondo il 18 giungo 1824, a Uhrynkivtsi — villaggio ai tempi parte della Polonia ed attualmente appartenente all’Ucraina occidentale — frutto dell’unione tra Bernard Spiegel e Róza Maria Finkel, infanzia trascorrendo nel paterno possedimento attiguo al corso fluviale del Dniester ed il 18 novembre 1930, annunciata da una cicogna di carta appesa alla finestra dai genitori, scoprì sororale gioia accogliendo Ariana — oggi rispondente al nome di Elizabeth Bellak — la quale, assieme alla madre — in grado d’esprimersi con disinvoltura in lingua tedesca — nel 1938, in sogno d’una carriera nella recitazione, inaugurata da ruoli in teatro e cinema valentile soprannome di ‘Shirley Temple polacca’, si trasferì a Varsavia dove maggiori sarebbero state le possibilità di studio ed offerte, pertanto Renia — con il padre dapprincipio rimasto nella tenuta di proprietà, poi scomparso presumibilmente perdendo la vita in combattimento — trovò calore nella vicinanza dei nonni materni, Marek e Anna, imprenditore edile e proprietaria di una cartoleria — dimorando presso di loro a Przemyśl, inconsapevole dell’ingrata ventura che l’avrebbe travolta, non risparmiando la sorella, in solitaria, tornata dalla capitale all’indomani dell’occupazione tedesca in conseguenza della rottura del Patto Molotov-Ribbentrop, ovvero l’accordo siglato, il 23 agosto del 1939, fra l’Unione Sovietica e la Germania nazista ed in fede al quale i contraenti s’erano impegnati a non muoversi reciprocamente battaglia, evitare d’appoggiare potenze terze in azioni offensive, di sottrarsi dal partecipare a coalizioni rivolte contro uno di essi per la durata di un decennio ed a firmarne ufficiale validità i relativi ministri degli Esteri, nelle persone di Vjačeslav Michajlovič Molotov (1890-1986) e Joachim von Ribbentrop (1893-1946), subitaneo esito di trattato la doppia usurpazione della Polonia con pacifica spartizione di territori, perlomeno fino all’incrinatura di precedenti e concordate intese.
Di nuovo il bisogno di piangere
ho provato
ricordando i giorni di un tempo passato.
I tigli, la casa, cicogne e farfalle
lontani… chissà dove… ormai dietro le spalle.
Ciò che mi manca vedo e sento
i vecchi alberi cullati dal vento.
E nessuno con le parole mi riporta
alla nebbia, al silenzio
al vasto buio fuori dalla porta.
Per sempre mi cullerà questo canto
vedrò la nostra casa, lo stagno accanto
e le chiome dei tigli contro il celeste manto…
Nel periodo antecedente, Renia trascorse prima adolescenza applicandosi nella formazione scolastica ed intessendo nuove amicizie, auspici dei primi amorosi sussulti, tenera infatuazione difatti inebriandola alla conoscenza di Sigmund ‘Zygmunt’ Schwarzer — nato nel 1923 a Jarosław ed erede dei consorti Willelm e Sophie Goligere, rispettivamente stimato medico e pianista concertista — fra i due germinando puro e profondo sentimento, disgraziatamente sfregiato mercoledì 15 luglio del 1942, data della reclusione di Renia e Ariana Spiegel nell’immenso ghetto locale: «Ricordati questo giorno: ricordalo bene. Lo racconterai alle generazioni a venire. Dalle otto di questa mattina siamo rinchiusi nel ghetto. Adesso vivo qui. Il mondo è separato da me e io dal mondo. I giorni sono terribili, e le notti non sono affatto meglio».
All’improvvisa e tragica frustata del destino, temerario impeto di Zygmunt — dall’amata chiamato ‘Zyguś’ — riuscì nella rischiosa impresa di far evadere le due sorelle e, allo scopo d’evitarne deportazione, nascondendo Renia e i propri genitori nel solaio del condominio di tre piani dove abitava il fratello della madre, membro dello Judenrat, Samuel Goliger, mentre Ariana consegnandola alle fidate e collaborative mani del religioso e tollerante Ludomir Leszczynski — padre della di lei migliore amica Dzidka — egli entro breve furtivamente scortandola a Varsavia dalla madre Róza.
Abbiamo lasciato la città
come fuggiaschi
da soli, nel buio, nella notte sfocata.
La città ci ha detto addio
con il boato dei palazzi che crollavano.
Sopra la mia testa l’oscurità
la brava gente che ci offre la pietà
l’abbraccio della madre lontano, lontanissimo.
Che siano la nostra direzione,
il nostro sostegno e la nostra consolazione.
Cammineremo
le nostre avversità attraverseremo
finché l’alba non irromperà, finché non scintillerà.
Siamo fuggiaschi isolati,
da tutti abbandonati.
Animosità tuttavia, fu tradita da soffiata e promessa protezione dell’adorata, s’infranse nell’efferatezza degli uomini della Gestapo che, ascoltando voce di tre ebrei rifugiati nella soffitta del palazzo al numero 10 di via Moniuszko, il 30 luglio 1942, irruppero e con violenza trascinarono in strada i coniugi Schwarzer e Renia Spiegel, barbaramente silenziandone per sempre battito, in stridente ed assordante suono riecheggiante fra le afflitte ed incredule meningi del giovane, il cui strazio fissato ad inchiostro in calce al diario scritto dalla penna dell’amata e gelosamente da lui accolto tra le orfane mani: «Tre spari! Tre vite perse! È successo ieri sera alle dieci e mezzo. Il destino ha deciso di portarmi via le persone che avevo più care al mondo. La mia vita è finita. Non riesco a sentire altro che spari, spari… spari. Mia carissima Renusia, l’ultimo capitolo del tuo diario è completo», nel frastuono inobliabile d’afflati d’amore e lievi momenti d’esistenze strappate.
Se un uomo potesse volare
se in tutte le cose le anime potessero abitare
il mondo perderebbe il suo temperamento
il sole ci lancerebbe le braci a piacimento.
La gente ballerebbe oltre lo sfinimento
urlando, ancora! Un nascondiglio vogliamo!
Di vento e velocità necessitiamo.
Il mondo è buio, soffocante, stretto:
lasciamolo andare verso vertiginose altezze
facciamolo allargare in colorate ampiezze
poi attraversare un dominio sconfinato
perdersi nel suo stesso regno illimitato
sostenuto da centinaia di gambe e braccia,
milioni di mani, ali possenti.
Che la stringa del tempo sia un lampo di luce
finché il buio della notte tutto da capo non riduce.
Questo potente regno dell’oscurità
finché la sua corsa non rallenterà
finché stanco ed esausto non sarà,
caduta d’arresto conoscere non dovrà.
Fantasie, voi tutte svanirete
come i primissimi sogni, d’incanto?
A scorrere con piccole lacrime vi metterete
lasciandovi dietro solo scie di pianto?
Sole mio, così luminoso nei miei sogni
e vita mia, tu così piena di colori,
nelle sfumature cupe affonderete e annegherete,
e se anche fosse così? Smetti di piangere, ahimè,
ferma questo fiume gonfio di lacrime.
Se anche i sogni scompariranno,
la morte sempre sarà il tuo bel compagno!
Vento, smetti di sgualcire i miei petali,
sono un’orfana, non lo vedi?
Non strattonarmi, non piegarmi verso il basso
ho già abbastanza sofferenze, lasciami stare.
Non sono di queste parti, sai,
ma il mio cuore, oh, il mio cuore è così forte.
Petali d’argento, delicati:
non sono un piccolo fiore, di metallo son fatta.
Non come i fiori selvatici che crescono qui
felici e giocosi e pieni di cose belle
fra i campi argentati di tante sorelle.
Il fato mi scuote tutta, tremo di nervoso.
Star da sola non è meraviglioso,
sono un’orfana, ma non proprio un’orfana.
Zygmunt stesso fu tradotto nel lager di Szebnie, nei pressi di Jasło, e due mesi più tardi ad Auschwitz, dopodiché nel 1944, venne inviato al campo di concentramento di Sachsenhausen, poi a Landsberg, in Baviera, contraendovi il tifo e paradossalmente sopravvivendo grazie alle cure ricevute dal medico, criminale di guerra, Josef Rudolf Mengele (1911-1979) ed il 30 aprile 1945, infine destandosi da incubo ed indelebilmente portando memoria di barbarie e misericordia di salvezza, tornato in libertà intraprendendo percorso di studi in Germania, frequentando facoltà di medicina fra le mura dell’Università di Heildelberg ed una volta laureato, stabilendosi e praticando attività di pediatra negli Stati Uniti, lì ov’eran migrate in fuga, passando prima per l’Austria, le superstiti Róza Maria ed Ariana, all’accorata madre della compianta Renia l’affranto Zygmunt consegnando quanto sentitamente da lei annotato nell’ultima parte della breve parabola, in ultima pagina l’ultime innocenti parole, solamente invocanti vita, in eco d’una delle più significative preghiere della religione ebraica, Shemà Israel: «Mio amato Diario, mio buon amico! Insieme abbiamo superato momenti terribili e adesso ci aspetta il peggiore di tutti. Potrei avere paura, ma Colui che non ci ha abbandonato allora ci aiuterà anche oggi. Lui ci salverà. Ascolta, Israele, salvaci, aiutaci».
Pagine di recondito e confidenzial diario, al cui interno la calligrafia s’avvale di maiuscole arricciate sulla base ed inarcate lineette intersecanti le T in morbido tratto, iniziaron ad esser scrigno delle candide e spensierate riflessioni di Renia il 31 gennaio del 1939, l’allor quattordicenne ricamandone poco meno di settecento pagine suddivise in sette quaderni scolastici cuciti fra loro, allo scorrer del tempo i giovanili pensieri ombreggiandosi a causa delle brutture del fato su di lei fattosi soffocante cappio, difatti — come disperate urla fuoriuscenti da disegni e poesie appuntati qua e là — da narrazioni inerenti appaganti gioie dell’amicizia, interessi scolastici e racconti familiari, passando al descriver le terrificanti sensazioni provate allo scoppio del secondo conflitto mondiale, unite alla dissestante inquietudine ribollente al sol pensiero di dover valicar entrata del ghetto, nei segreti sussurrati al cartaceo e fido confidente altresì palesandosi la sconsolata malinconia sorta al distacco con la madre, viceversa gaudioso, puro ed innamorato tratto scrittorio ella dedicando al tratteggiar quanto sbocciatole nel cuore nei confronti dell’amatissimo Zygmunt, ad unirla alle sue labbra un primo ed unico bacio poco prima della presa tedesca di Przemyśl, il loro amore suggellandosi in pochi — eterni — istanti di sincera passione.
Sarò una grande sognatrice a occhi aperti.
Sarò una moglie fantastica, poetica
guarderò il cielo brillare
e, tutta la vita, le stelle non smetterò di contare.
Sciami di farfalle inviterò
mi eserciterò a suonare il clarinetto.
Raccoglierò bracciate di fiori
e mi assicurerò di non farti mai agitare.
Ambrosia profumata cuocerò a fuoco lento
spolvererò con le nuvole,
rammenderò i vestiti con i raggi del sole.
Sarò piena d’amore, di desiderio mi struggerò e sincera sarò.
Una moglie fantastica, poetica, sempre.
Qualcuno forse ti dirà che sono mezza pazza
che questo non è permesso:
avere una moglie pazza, malata di mente.
Non lasciare che gli altri parlino, non sprecare la tua vita.
Mi riempirò tutte e due le mani
di boccioli di gigli, mele, ciliegie.
Li appenderò come drappi, farò ghirlande
renderò allegro ogni momento
completandolo con il flusso fantastico di una poesia.
Acciufferò il grande arcobaleno dai sette colori
scriverò direttamente sull’azzurro del cielo
che, Zyguś, che io… ti amo.
Quindi zitte, voi gazze chiacchierone così indignate
per questa moglie così matta,
mucchi di carne sul palcoscenico bruciate.
Ciò che importa sono i tuoi occhi, la tua vita
e la tua fronte, priva di nuvole, sotto il cappello.
Allora, dimmi, Zygu… La vuoi una moglie così?
Che una canzone dolce
dall’adorabile melodia sia cantata
e racconti di te che vivi nel mio cuore
e di me, anche, che vivo nel tuo.
Sarebbe invece una canzone odiosa, non così brillante
triste, strappalacrime e terrificante
se tu vivessi davvero nel mio cuore
e io non nel tuo.
Sarebbe ancora più truce
se un destino crudele decidesse
di lasciare me dormire nel mio cuore
e te nel tuo, divisi.
Per fortuna non è così.
Vattene via, incubo orribile.
Sogno gli occhi nocciola, il tuo viso.
Tu sogni gli occhi azzurri, i miei capelli.
Un dolce concerto mite di primavera
ci suona una melodia adorabile
di te che sbocci nel mio cuore
di me, anche, che sboccio nel tuo.
Essendo quanto fissato ad inchiostro da Renia sofferta testimonianza dell’ingiusta crudeltà vissuta a cavallo di triste fato, madre e sorella non ebbero il necessario ardimento per sostenerne lettura, le sue memorie riposando per un settantennio nel caveau d’una banca in New York fintantoché, nel 2012, Alexandra Renata Bellak — figlia di Ariana — non ritenne opportuno riportare alla luce i confidenziali e spesso mesti appunti della propria zia, dapprima tradotti in inglese e per la cui pubblicazione — datata 2016 — la nipote affidandosi ad una piccola editoria polacca, nel settembre del 2019 anche la versione britannica, alla quale seguirono traduzioni in più paesi, venendo pubblicata al titolo Renia’s Diary: A Young Girl’s Life in the Shadow of the Holocaust, il 6 dicembre del medesimo anno la produzione cinematografica in capo al regista polacco Tomasz Magierski, fortemente avvinto e commosso dalla lettura del diario a lui portato da Ariana, rilasciando il documentario Broken Dreams, esponente le vicissitudini delle due sorelle, quindi imperniato tanto sulla penetrante, lineare e raffinata scrittura di Renia, quanto sull’esperienza di quegli anni da parte della sorella, in tempi sereni attrice bambina, un anteprima presentata il due maggio all’United Nations (UN), in New York, a commemorazione dello Yom HaShoah (יום השואה), giornata della commemorazione di Israele, dal canto suo Magierski fondando — insieme ad Ariana ed Alexandra, la Renia Spiegel Foundation, creata al fin di mantener viva il ricordo della cortese anima precocemente dipartita, all’umanità lasciando in dono quanto da lei raccolto sul filo della diretta esperienza, durante il breve viaggio accordatole sul mondo appassionandosi di poesia, dilettandosi fra scrittura e disegno, sorridendo, amando, sciogliendo cuore negli occhi d’un valoroso ragazzo e, purtroppo, nel fior fior dei suoi anni il proprio sguardo appesantendo delle cupe e devastanti immagini di barbare angherie, imperturbabili esecuzioni ed indicibili violenze — impermeabili a qualsivoglia comprensione — frammenti di storia che con costante zelo e ricercata espressione Renia immortalò fra pagine, al prossimo elargendo in dono la memoria necessaria allo scongiurar il sopraggiunger d’accecante e rovinoso oblio.
Chi viene soffocato, ammazzato, da te schiacciato
resta per sempre libero.
Ma perché fai del male ai viventi
tu, diavolo infuriato, tu così arrabbiato?
Ti fai il bagno nell’oceano rosso di sangue
livido di vendetta, ribollendo di fiamme
darai fuoco al mondo intero
e in quel bagliore rossastro elenchi i nomi dei morti.
Sui campi di battaglia e nei cimiteri
i tuoi occhi assetati di sangue scintillano ingordi
e gracchiando, dici, «ancora», e scoppia una pestilenza
una carestia, e la sventura improvvisamente è sguinzagliata
e un mucchio nuovo ai tuoi piedi viene gettato
cadono tutti per la stessa ferita letale;
chi resta in vita ha il cuore spezzato
e il mucchio cresce, in cielo ha la sua corona.
Ah, ne hai avuto abbastanza della vendetta,
una risata beffarda tutt’intorno risuona,
tu ululi, tu bestia maledetta:
«Ancora, di sangue voglio il muso imbrattato».
Non voglio che gli ammalati cerchino in me l’oblio
non voglio vedere i feriti, perché molto ferita sono io.
Voglio vivere come una sciagurata,
come un’anima per niente preoccupata
voglio vedere le brave donne al posto
dei ministri, dei marinai in mare
dei diplomatici, di coloro che hanno le chiavi dei tribunali.
Le voglio vedere, in azione, al posto dei piloti
ascoltarle mentre fanno discorsi appassionati.
Senza guai voglio vivere;
che la mia vita sia una bolla di felicità.
Voglio scrivere poesie per l’eternità
e voglio avere un innamorato!
Pensa, domani potremmo non esserci
una lama d’acciaio, fredda
scivolerà tra di noi, vedi
ma oggi c’è ancora tempo per vivere
domani il sole potrebbe eclissarsi
i proiettili delle pistole schioccare e sfrecciare
e ululare: i marciapiedi zuppi
di sangue, con gli scarti sporchi, puzzolenti
sbobba per maiali.
Oggi sei vivo
c’è ancora tempo per sopravvivere.
Mescoliamo il nostro sangue
mentre la canzone va ancora avanti.
La canzone del diluvio furioso e violento
portato dai morti viventi.
Ascolta, ogni mio muscolo trema
il mio corpo balbetta perché sei vicino, così vicino.
Questo gioco ci toglie il fiato, non
basta quest’eternità per tutti i nostri baci.
Notte di giugno
carica
di densa oscurità
la notte… si allunga
sulla mia testa.
Notte di solitudine
è giunta. L’irresistibile stava
all’estremità del letto
con una faccia che mi tormentava
ha affondato gli artigli
nel cervello appiccicoso
e io sogno…
I miei pensieri nudi
spogliati dei vestiti
si allungano sotto il mio cranio
in silenzio
e a lungo, spietatamente,
la notte continua.
Un pesante sudario nero
è calato e si avvinghia
al corpo.
Silenziosa e testarda,
io scossa sono dai fremiti.
Il fiore si apre
sulle silenziose
labbra dischiuse
sussurra parole
profumo di gelsomino
di gemme che maturano.
Gemo
l’esasperazione si allenta piano
i sensi sospirano di sollievo.
Dolce fantasia
l’alba…
Ciò che più mi spaventa sono le ombre.
Quando al mattino
un’ombra balugina senza preavviso
sulla strada davanti a me
il mio cuore dentro trema
e mi guardo intorno
pietrificata.
Non puoi guardare un’ombra negli occhi
non puoi afferrarla per il gomito
non puoi toccarla, farle domande
non sai nemmeno a chi appartiene
questo grigiore strisciante e serpeggiante
che brilla e stranamente si contorce.
Ciò che più mi spaventa sono le ombre.
Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare.
Mi spiego: ‘comprendere’ un proponimento o un comportamento umano, significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili.
Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane,
senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l’esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la ‘comprendiamo’. Ma nell’odio nazista non c’è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell’uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia.Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario,
perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.
Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti.
Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano ‘capi carismatici’, possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa.Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse,
e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Hòss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent’anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent’anni dopo, massacratori in Vietnam.Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà.
Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. E’ meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate.
Primo Levi, Se questo è un uomo
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