Club 27: Musica e anima di un numero (im)perfetto
La vita è breve ed io ho fatto un sacco di errori. Ho avuto spesso un atteggiamento distruttivo. Facevo una cosa sbagliata dietro l’altra. Ho sempre detto che non sono una che si pente di quello che fa, che non chiede mai scusa e non si sente mai in colpa, ma in realtà mi sento in colpa per quello che ho fatto. Credo tuttavia che le cose succedano sempre per una ragione ben precisa.
Di Amy Winehouse queste parole. Profonde, veritiere, scioccanti, coraggiose e pungenti, ma non sufficienti a trovar giustificazione alla sua dipartita, dolorosa e prematura, come quella dei suoi compari di destino, gli sventurati appartenenti al poco ambito ‘Club 27’.
Ad aprirne le nefaste porte, Robert Johnson (1911-1938), cantautore e chitarrista statunitense, fra le più grandi leggende del Delta Blues, perfettamente in grado di riprodurre a chitarra una melodia sentita poco prima, poeta dei propri testi e di voce molto acuta, in antitesi allo stile del canto blues dell’epoca e, forse proprio per questo, emotivamente impattante e musicalmente evocativa. Un presunto avvelenamento lo condusse anzitempo a miglior vita, per l’appunto, nel suo ventisettesimo anno d’età, mettendolo inconsapevolmente a capo di una lunga lista che, fino ad oggi, considerando esclusivamente l’ambito musicale, annovera, fra i propri membri, 28 presenze. Con Johnson, se ne andranno una particolarità interpretativa ed una padronanza di strumento che lo consacreranno come uno dei più grandi chitarristi blues di tutti i tempi.
Il blues di Robert Johnson ti faceva venire la pelle d’oca. La musica di Robert Johnson andava dritta a un nervo che la gente non aveva neanche più.
(Walter Mosley, scrittore statunitense, 1952)
Due decadi abbondanti, trascorreranno prima che il Club dei 27 riapra i battenti.
Jesse Lorenzo Belvin (1932-1960). Cantante, pianista e cantautore americano, compositore Rhythm & Blues, fu reso inerme dal proprio destino, insieme alla moglie, in un incidente d’auto, poco dopo essersi esibito davanti al pubblico dei primi concerti integrati di Little Rock, Arkansas, interrotto un paio di volte da spettatori di pelle bianca, urlanti meschini epiteti razziali.
Poco meno di due anni prima della sua morte, il 27 Maggio 1958, nella stessa cittadina, l’attivista statunitense Ernest Green, segnò la storia diplomandosi al Rock’s Central High School. Fu il primo a raggiungere tal traguardo dei Little Rock Nine, un gruppo di nove studenti afroamericani iscritti alla stessa scuola, per merito, nel 1957, destando scalpore immenso nella comunità locale ed in tutti gli Stati Uniti, considerata la segregazione razziale dell’epoca.
Paragonato per potenza e carisma a Nat King Cole o a Billy Eckstine, Belvin acquisì presto tempo il soprannome di Mr. Easy, per le frequenti ballate proposte nei suoi live set. Il servizio militare fece da insolito contesto alla nascita di Earth Angel, grande successo di metà secolo. Goodnignt my love fu il suo pezzo più duraturo.
Earth angel, earth angel, Will you be mine
My darling dear, Love me all the time
I’m just a fool (just a fool)
A fool in love, with you
Earth angel, earth angel, The one I adore
Lovely for ever and ever more
(I’m just a fool)
I’m just a fool
(oh what a fool)
A fool in love with you, Yes in love with you
I fell for you, And I knew
The vision of my love’s loveliness
I hope and I pray, that some day
I’ll be the vision (vision)
The vision of your happiness
Angel my darling
Last night I fell in love with a little piece of heaven on Earth
It you
The way you walk, the way you talk
The way you bat your eye lids as I pull up in my open-top Chevy
I don’t know what I’d do without you
Earth…”
Salteranno fra le nuvole, rispettivamente, quattro e nove anni dopo, Rudy Lewis (1936-1964), cantante statunitense di R & B, breve militante nel gruppo musicale The Drifters, e Lewis Brian Hopkin Jones ( Brian Jones, 1942-1969), polistrumentista britannico, fondatore dei Rolling Stones. A Lewis il merito, dopo un primo inizio come cantante gospel, d’aver portato i Drifters ai primi posti in classifica, cantandovi come solista. L’overdose che lo spaccò, nel 1988 non gli permise di leggere il suo nome annoverato fra i grandi musicisti della Rock and Roll Hall of Fame.
Magic, magic, magic, magic
This magic moment, so different and so new
Was like any other until I kissed you
And then it happened, it took me by surprise
I knew that you felt it too, by the look in your eyes
Sweeter than wine
Softer than the summer night
Everything I want, I have
Whenever I hold you tight
This magic moment while your lips are close to mine
Will last forever, forever till the end of time …
Di Brian Jones, al quale dedicar poche righe è un insulto, basti la lista degli strumenti da lui suonati per coglierne la maestosità artistico-musicale, tristemente affogata sotto litri d’acqua di una piscina: chitarra, armonica a bocca, pianoforte, tastiere, organo, clavicembalo, sitar, mellotron, autoharp, sassofono, dulcimer, clarinetto, flauto dolce, tamburo, tamburello, conga, marimba, kazoo, theremin, campane, mando-vox, fisarmonica, tromba, trombone.
Colui che al Festival di Monterey fu nominato da un critico ‘il re non ufficiale del festival’, perse la corona senza raggiungere il ventottesimo compleanno. Al ‘biondo di Cheltenham’ con il Jazz nel cuore a suon di sax, il chitarrista del genere Slide più all’avanguardia del mondo bianco, che imparava uno strumento in ore o giorni, dove agli altri fossero serviti anni, non fu quindi possibile un futuro approccio strumentale elettronico, in lui agli albori, che l’avrebbe reso un musicista a tutto tondo. Animo ribelle ed irrequieto, spirito libero, d’abiti eccentrici e timidezza recondita, racchiuse in sé tante sfaccettature quanti strumenti. Suonò la sua vita ritmandone i battiti.
Morirò prima di compiere 30 anni
Non giudicatemi troppo severamente
La generazione senza tempo
Il primo lustro degli anni ‘70, in un colpo di vento porto con sé una mezza dozzina di personalità artistiche rilevanti.
Alan ‘Blind Owl’ Christie Wilson (1943-1970), cantante, musicista e compositore statunitense, leader dei Cannes Heart. Miope a tal punto d’esser nominato ‘Gufo cieco’, ma non ebbe bisogno di vista fine per suonar chitarra ed armonica a bocca, portando originalità ai propri testi, fraseggiando un personalissimo vibrato. Lo fece anche dal palco dei due principali festival degli anni sessanta, il Monterey Pop Festival, nel 1967 e, due anni dopo, il Festival di Woodstock, rimbalzando le proprie corde vocali fra Blues, Blues Rock e Boogie rock, così come la causa della sua morte, ad un anno dalla consacrazione della cultura hippie, rimbalzò fra overdose accidentale o suicida.Festival, il Monterey Pop, all’apice temporale di quella che fu denominata Summer love, luogo della storica apparizione di James Marshall ‘Jimi’ Hendrix (1942-1970), chitarrista e cantautore statunitense, e debutto della poco più che ventenne Janis Joplin (1943-1970), cantante statunitense. La selvaggia esibizione di Jimi lo vide protagonista al Festival: per 40 minuti infervorati, sulle note reinterpretate di Hey Joe, in un tutt’uno con la sua Fender Stratocaster (da lui rovesciata per adattarla all’estro mancino) data alle fiamme sul palco, in conclusione ad una strabiliante ed energica performance davanti ad un pubblico sbalordito.
La pazzia è come il paradiso. Quando arrivi al punto in cui non te ne frega più niente di quello che gli altri possono dire… sei vicino al cielo
Cielo che anche Janis Joplin raggiunse troppo presto, consumata da un’overdose che ne troncò, in un battito di ciglia, l’intensità artistica ed interpretativa. Considerata fra gli artisti ed i cantanti più significativi di tutti i tempi, quel viso sbarazzino ed occhialuto esplose in tutta la sua personalità nell’interpretazione del brano Ball and Chain, dallo storico palco del Monterey Pop.
Ricercatrice di perfezionismo musicale nell’improvvisazione, emancipata, apertamente bisessuale, libertina e coraggiosa, erutterà forza e bellezza nel suo stile visceralmente incazzato e disilluso. Considerata la voce bianca del blues più importante di sempre, seppe riunire nei suoi vocali rabbia e fragilità, sensualità ed emozione, grinta e debolezza. Vessata in continuazione in gioventù per esser fervida sostenitrice dell’uguaglianza, derisa per la sua scarsa avvenenza e tristemente a credito d’amore genitoriale, custodirà dentro di sè un dolore immenso che ne pennellerà di grigio l’intera esistenza, rendendola carente d’affetto e, pertanto, eternamente impegnata nella ricerca dello stesso a colmarsi un vuoto interiore. Si saturò di bellezza cantando.
Sul palco faccio l’amore con 25.000 persone. Poi me ne torno a casa sola
Forse prima poeta che cantautore, carismatico, eclettico, penetrante, sensuale, camaleontico ed indisponente, James Douglas Morrison detto Jim (1943-1971), leader indiscusso della band statunitense The doors, aprì le proprie porte sul cosmo, invasandone la gran parte giovanile dello stesso.
Voce impetuosa del rock psichedelico, spirito libero, poeta maledetto ed inquieto, fece del suo stato d’animo interiore una voragine esistenziale da estendere a macchia d’olio sugli animi scossi di quel periodo storico.
Di movimenti sinuosi, versi orgasmici e provocazioni sensoriali uniche nel suo genere, il ragazzo dal quoziente intellettivo alle stelle e dalle letture mastodontiche, stordì intere generazioni attraverso una musica partorita ancor prima che cantata, sputata da un’animo in contrasto con se stesso e l’universo tutto, alla perenne ricerca di stimoli e risposte, torero sulla vita e domato dall’amore, vissuti a velocità massima e reinterpretati attraverso quella che definir semplicemente voce sarebbe un’offesa, poiché in quella voce era un mondo e quel mondo, Jim, ebbe ad esternarlo con passione estrema, traghettandosi sulla propria vita e sull’altrui, intersecandosi al prossimo grazie al canto, un grido che lo strattonò una vita intera, fino a chetarsi inesorabilmente, una sera di Luglio, in una stanza da bagno parigina.
Poetò, amò e s’avvelenò, come forse nessuno mai ebbe il coraggio di fare e di farsi. Stendendo possibilità ad aprir porte in se stessi come fossero tappeti.
La vera poesia non dice niente, elenca solo delle possibilità. Apre tutte le porte. E voi potete passare per quella che preferite
I due anni successivi alla chiusura del sipario sulla storia del ‘Re lucertola’ – I’m the lizard king, I can do anything – chiudono il cerchio sulla breve esistenza di Linda Jones (1944-1972) e su quella di Ronald Charles McKernan (Ron “Pigpen” McKernan, 1945-1973).
Dai suoi primi canti gospel in famiglia, all’età di sei anni, fino all’ultimo tour nazionale, la voce intensa ed elevata della Jones, sempre in anticipo sul gioco, incise note potenti sulla musica soul del periodo, fino a che uno stato comatoso, dovuto a problemi diabetici di anni, non l’avvolse, portandola con sé definitivamente, solo poche settimane dopo avere ottenuto il suo più grande successo con una strepitosa versione di For Your Precious Love.
Your precious love,
Means more to me than,
Any love could be…
Cresciuto in un quartiere nero e respirandone la musica in esso vibrante, il cuore di Ron McKernan, rivestì prestotempo le sue pareti di soul e gospel. Improvvisando un inizio carriera fra i tasti bianconeri di un pianoforte da bar, indosserà il soprannome ‘Pigpen’ dopo l’incontro con Jerry Garcia che, oltre ad affibbiargli tal nomignolo, si unirà a lui, insieme a Bob Weir, nei Mother McCree’s Uptown Jug Champions (Bob alla seconda chitarra e Ron a vice e tastiera). L’aggiunta alla batteria di Bill Kreutzmann e di Phil Lesh al basso, cambierà il nome della band in The Warlocks.
Il primo dei due gruppi, si può considerare precursore dei Grateful Dead (essendo che McKarten, Garcia e Weir, ne faranno parte), band rock statunitense, protagonista indiscussa della Summer of Love, formatasi nel 1965, di sfumatura indubbiamente psichedelica, seppur sfuggente a classificazioni definitive, in quanto contenitore di generi multiformi quali rock, folk, blues, bluegrass, jazz e country.
Amante del blues, McKernan contribuì, a suon di tastiera, all’eterogeneità musicale del gruppo stesso. L’uomo con bandana e giacca di pelle, graffierà la musica più che cantarla, vestendola d’un eco vocale aspro e polveroso. Un definitivo graffio allo stomaco conseguente ad eccessi alcolici, ne provocherà un’emorragia che lo porterà con sé in un’altra dimensione.
Dal Punk al Reggae giamaicano
La decade successiva, abbatterà voci e suoni, al ventisettesimo anno, come birilli.
Dave Michael Alexander (1947/1975), bassista statunitense del gruppo proto-punk The Stooges. ‘Zander’, l’amante dei libri, introverso, timido, principale arrangiatore e compositore del gruppo, si scompose in una polmonite conseguente ad eccessi alcolici, dopo aver abbandonato la musica ed essersi riavvicinato alla famiglia.
Peter William Ham (Pete Ham, 1947/1975), compositore, chitarrista e cantante britannico di origini gallesi, membro cofondatore del gruppo pop Badfinger (prima The Iveys) e meritevole d’aver dato vita, insieme a Tom Evans, ad una delle migliori ballate, Without You, di divulgazione mondiale, a partire dalla cover di Harry Nilson. Ritenuto uno dei maggiori esponenti del genere power pop, respirò musica a pieni polmoni, fino a togliersi l’ultimo respiro con una corda al collo, per motivi finanziari, ad un mese dalla nascita della figlia Petera.
No I can’t forget this evening
Or your face as you were leaving
But I guess that’s just the way
The story goes
You always smile but in your eyes
Your sorrow shows…
Gary Thain (1964/1975), bassista neozelandese dal fraseggio potente, rapido e melodico. Inizialmente bassista dei Plainsman, imparò numerose canzoni suonando per differenti cantanti, giungendo essi all’esibizione senza un proprio gruppo ed accompagnandosi agli strumentalisti del locale stesso.
Trovò prima professionalità nei New Nadir, unendosi successivamente alla The Keflavik Hartley Band, ove, oltre al basso, cantò un pezzo da solista. Dopo una brevissima appartenenza alla Pete York Persussion band, approdò definitivamente agli Uriah Heep, divenendone spina dorsale. L’accompagnamento dell’eroina alla musica, l’allontanamento da parte del gruppo e problemi cardiaci, lo condussero in breve tempo al traguardo con overdose, rendendo l’heavy metal ed il rock, nella sua versione hard e progressiva, di un componente prezioso.
Helmut Köllen (1950-1977), bassista e vocalist dei Triumvirat, ne divenne membro dopo varie esperienze in band locali a Colonia, Germania. Con il gruppo stesso, dopo un tour negli Stati Uniti a sostegno di Fleetwood Mac, sostenne la Grand Funk Railroad, tramite tour europeo. Abbandonò il gruppo nel 1975, in pieno slancio solista.
Esperto meccanico e pilota automobilistico, ironia della sorte volle che giungesse alla fine del suo percorso vitale fra le sue due grandi passioni, accidentalmente avvelenato da monossido di carbonio nel suo garage, durante l’ascolto di alcuni brani in studio, a bordo della propria autovettura a motore acceso. L’album da solista You Will not See Me, in cui Köllen stesso si racconta in voce e chitarra (basso, acustico ed elettrico), vide la pubblicazione cinque mesi dopo.
Chris Bell (1951-1978), cantante e chitarrista statunitense, fece parte del gruppo Big Star, uscendone dopo la pubblicazione del primo album nell’intento d’indossar voce solista. I Am The Cosmos, registrato fra il 1974 ed il 1975, uscì nel 1992, impedendo allo stesso Bell di gioirne in quanto, la Triumph Tr7 a bordo della quale viaggiava, frenò sulla sua vita, quattordici anni prima, sull’asfalto di Memphis, Tennessee.
Agganciata la nota grazie all’amico, produttore discografico di musica reggae oltre che musicista, Miller farà la spola tra svariati studi musicali, ma fortemente amareggiato dall’insuccesso di Love Is A Message, primo singolo quand’era appena sedicenne, non registrerà tracce per sei anni, giungendo all’incisione, nel 1974, con gli Inner Circle, di due album, Rock The Boat e Heavy Reggae, a contenuto impreziosito dalle cover dell’adorato Bob Marley.
Ne seguirà un’intensificazione di rapporto con lo stesso Pablo, originando un sodalizio duraturo e parallelo ad incisioni future del gruppo e di successi a possibile risvolto mondiale. Uomo dall’indiscutibile dote canora, d’impareggiabile capacità vocale modulatoria (rimbalzante dal reggae al funk, con peculiari unioni nel New Age) e calor di fiato fra anima e psiche, spiccò il suo volo al cielo con troppo anticipo, causa l’interruzione di corpo e voce in un incidente stradale in Hope Road, che rese inerme il primo e magicamente immortale la seconda.
Pochi giorni prima, a fianco di Bob Marley, ebbe a presenziare all’apertura dei nuovi uffici, in Brasile, dell’etichetta discografica Island Records, fondata in Giamaica nel 1959 da Chris Blackwell e perno cruciale della diffusione internazionale del reggae.
Dennes Dale Boon (D. Boon, 1958/1985), compositore, cantante e chitarrista statunitense, dotò di pennello e colori la prima parte della sua giovinezza, sostituendo in toto musica a pittura negli anni a venire e confluendo punk rock, hardcore, jazz, funk, acid rock e R&B, risonorizzandoli, nei Minutemen, gruppo fondato nel 1980, Mike Watt al basso, George Hurley alla batteria. Chitarrista di penna, molti i testi da lui scritti, diede all’equalizzatore della sua chitarra una regolazione tale, da farne sentire solo gli acuti. La fine del gruppo si scrisse con la dipartita di D. Bonn, deceduto in seguito a colpo mortale dopo l’uscita di strada del veicolo sul quale viaggiava. Sulla route I-10, si silenziarono acuti e chitarre.
Gli anni 90 e il nuovo millennio
Sette premature dipartite, smussano lo spessore musicale degli anni novanta.
Mia Zapata (1965/1993), vocalist dei The Gits, gruppo punk/hardcore nato in Ohio nel 1986 e sbalzato in quel di Seattle nei primi anni ‘90, cavalcò la propria band con spirito caparbio e voce di sostanza. Schiva nell’animo, maschile negli atteggiamenti ed esplosiva nel canto, non le fu concessa possibilità di giungere al successo meritato, alle porte, soffocandole in gola canzoni e sogni Jesus Mezquia, un esule cubano che, fra percosse e sevizie, ne strinse il collo a morte, abbandonandone poi il corpo a bordo strada.
Kurt Cobain (1967/1994), chitarrista statunitense, cantautore e frontman dei Nirvana, fondati nel 1987 con Krist Novoselic, gruppo cult sulla scena del Rock alternativo statunitense. Cobain, definito, con suo fastidio, il portavoce della generazione X, icona musicale per eccellenza degli anni ‘90, in barba alla brevità della sua permanenza su questa terra. Espressione d’arte nell’ego fin dall’infanzia, disegnatore meticoloso di personaggi animati e contenitore musicale umano di appena 24 mesi, Kurt, il biondino che a quattro anni solleticava tasti di pianoforte ed a sedici innamorava le dita a corde di chitarra elettrica. Scriveva, l’adolescente, sputava se stesso, prosando vita e rancore su carta da cantare, a suon di Grunge.
Non ho il tempo di tradurre ciò che comprendo nella forma di una conversazione. Ho esaurito la maggior parte delle conversazioni entro i nove anni. Riesco a sentire solo attraverso grugniti, grida e intonazioni di voce, oltre che con i gesti delle mani e del corpo. Sono sordo di spirito
Fedele al Buddismo, giainista, animo sensibile rivolto alle debolezze a tal punto, da porre sopra le teste dei componenti del gruppo il nome Nirvana, concetto buddista di “libertà dal dolore e dalla sofferenza del mondo esterno”. Grido di patimento interiore, verso d’uccello ferito spalmato su milioni di dischi venduti, graffiati di voce e viscere, con conseguente calibro di fama da vacillarne l’equilibrio già precario: «Uso frammenti del carattere degli altri per costruire il mio».
All’apice del successo, osannato e desiderato, spense ogni suo pensiero con un colpo di pistola al palato, non prima di aver lasciato due righe ad un amico immaginario d’infanzia, Boddah. Lasciò una figlia, una voce immensa ed un’utopia.
«Mi piace sognare che un giorno riusciremo a ottenere una solidarietà generazionale tra tutti i giovani del mondo. Mi piace fare sforzi immani allo scopo di evitare il conflitto. Mi piace mantenere opinioni forti senza argomenti per sostenerle al di fuori della mia connaturata sincerità. Mi piace la sincerità. Mi manca la sincerità. Queste non sono opinioni. Queste non sono parole di saggezza, questa è solo una denuncia, una denuncia per la mia mancanza di istruzione formale, per la mia mancanza d’ispirazione, per la mia logorante ricerca di affetto e per la mia convenzionale vergogna nei confronti dei molti che hanno più o meno la mia età. Non è neppure una poesia. È solo un gran mucchio di merda. Come me»
Kristen Marie Pfaff (1967/1994), bassista statunitense del gruppo grunge Hole, del quale la moglie di Kurt Cobain, Courtney Love, cantante, era la frontwoman, annegò l’ultimo respiro, fra acqua ed eroina, nella sua vasca da bagno, in Capiton Hill. Polistrumentista, compositrice di gran genio, artista passionale e di talento innato, la Pfaff lasciò le sue doti al vento un una serata di Giugno. Ipotesi di omicidio, mai confermate, si accavalleranno a quella che, a tutt’oggi, resta la causa di morte più probabile, l’overdose accidentale.
Patricia Lamont Hawkins, Fat Pat (1979/1998), rapper statunitense, nel trio composto dal fratello Big Hawk ed all’amico d’infanzia Lil’ Keke, si alternò fra Southern hip hop, Gangsta rap e Hardcore hip hop. La decisione di recarsi nell’abitazione di un promotore, per il ritiro di un compenso mancato, gli costò la vita, spenta in pochi istanti sotto i colpi di un arma da fuoco, da parte di ignoti.
Richey James Edwards (1967/1995, presunto morto), paroliere e chitarrista gallese di Rock alternativo, condivise tre album come componente dei Manic Street Preachers, per poi volatilizzarsi nel nulla. Colui che donava parole ai testi delle canzoni, scomparve, fra stati depressivi ed eccessi, il primo giorno di Febbraio del 1995. Verrà dichiarato “presunto morto” nel 2008. Numerose ipotesi, volendo concederne alternative a quella suicidaria, lo vogliono vivo e nascosto in qualche angolo del mondo.
Eduard Starkov (1969/1997), voce della band alternativa russa Chimera (Химера), suonatore di tromba, chitarra e fisarmonica cromatica, scelse di togliersi la vita causando, indirettamente, il successivo scioglimento del proprio gruppo, nato in Pietroburgo nel 1990.
Ukiyo Katunura (1972/1999), batterista dei Malice Mizer, gruppo giapponese di Rock elettronico, sinfonico e gotico, formatosi nel 1992 ed in stand by dal 2001, fu sottratta all’esistenza da un aneurisma cerebrale. Il gruppo sposò il visual key, peculiarità di genere, esclusivamente giapponese, sorto nella seconda metà degli anni ‘80, appartenendo al quale, l’artista come persona, l’esibizione quasi teatrale e la sfumatura istrionica di tutto lo spettacolo, vengono ad assumere la medesima importanza della musica stessa. Il concept artistico caratteristico dei Malice Mizer, si basò sulla domanda esistenziale “Che cos’è l’uomo?”, ritenendolo imprescindibile da malizia e miseria, la cui influenza sull’umanità sarà fulcro essenziale delle opere del gruppo, come si può evincere dal nome francese scelto per lo stesso.
Scavalcato il secolo, lo scheletro dal mantello nero falcerà un quadrifoglio di musica.
Sean Patrick McCabe (1972/2000), cantante d’indubbio talento degli Ink & Dagger, accattivante band punk-rock-hardcore di Philadelphia, dai ritmi sconvolgenti ed unici, con frequente riferimento vampiresco sia nel look che nella musica proposta. Disturbatore di coscienze, provocatore di palco e voce dura, sconvolse pubblico ed opinioni, prima di sconvolgere mortalmente se stesso, in un’asfissia da eccesso alcolico, poco dopo l’abbandono del gruppo.
Bryam Ottoson (1978/2005), chitarrista degli America Head Charge, gruppo metal alternativo di Minneapolis, divise l’esistenza fra note musicali e note dolenti. Le ultime, lo condussero al capolinea in un vorticoso miscuglio di alcool e farmaci che lo intossicò in via definitiva.
Ribelle, testarda, intraprendente, animo vocale di fuoco, in un corpo di bambola dalla capigliatura eccentrica. Uscirono dai suoi scritti la maggior parte dei brani, da lei poi cantati con voce di potenza e profondità insolite, alle quali si aggiunsero talento canoro indubbio e capacità interpretativa avvolgente.
Leonessa nel canto ed agnello nella vita, Amy danzò e roteò tra farmaci, droghe, eccessi alcolici, disturbi d’alimentazione e problemi comportamentali. L’ultimo ballo la condusse al baratro, parrebbe per un eccesso d’alcol, non confermato definitivamente. La piccola donna che in Monkey Man “abbraccia il grande scimmione” deliziando ogni senso, lascerà in eredità al mondo una voce dorata ed un cuore di platino, pulsante di numerose azioni benefiche che la stessa fece, in umiltà e silenzio, donandosi al prossimo con encomiabile bontà.
La vita è breve. Può succedere di tutto, e di solito è così, quindi non serve a nulla stare fermi a pensare a tutti i se e i ma
Nicole Bogner (1984/2012), cantante dei Vision of Atlantis, band austriaca symphonic metal formatasi nel 2000, il cui nome è riferibile al mito di Atlantide, prestò alla band la sua voce di mezzo soprano, unica e speciale, dal 2000 al 2005, coltivando con i membri della stessa un’amicizia oltre la musica, finché una lunga malattia non l’appassì fino alla scomparsa.
L’anima fugace della libertà
Ventotto voli prematuri d’anime nel loro ventisettesimo anno d’età.
Una coincidenza che par uno scherzo del destino. Quasi un triplo strike.
Un filo nero a bordo baratro che sarebbe bello far rosso su ciò che resta, su quanto uomini e donne del “club maledetto” abbiano compiuto, in vita, benedendoci. Ribaltando la prospettiva e propinando uno scacco matto alla morte. Che proprio tutto non può. Si tolgono battiti ai cuori ma le voci restano, abbandonano movimenti le mani ma ogni tasto, ogni corda ed ogni strumento, proseguiranno i loro suoni, fiateranno le trombe e rulleranno i tamburi, vivendo della rendita di passione di chi li ha resi vitali. È magia, la musica, adagiata in ogni cilindro fino al tocco dell’uomo prestigiatore che senta il desiderio di riprodurla e di avvolgersene.
E allora non resta che sedersi, chiudere gli occhi ed imparare da ogni artista di questo club, da ogni donna ed uomo, che abbian saputo eviscerarsi nel suono, rendendo voci e strumenti carta vetrata da sfregar sull’anima, originando un grido di dolore da capovolgersi di brividi. Intere esistenze incanalate in vortici di note ed eccessi, lungimiranti sulle teorie affettive, sofferte nel filtrarsi a melodia e saturate di debolezza nel manifestar forza.
Trascinatori inconsapevoli di generazioni infuocate, indefinite ed indefinibili, incatenate ad un fattore X, per l’appunto, che nel ventennio successivo al baby boom, pose il nichilismo a culla della gioventù, disorientata nell’identificazione genitoriale e disillusa nelle aspettative future.
Carburanti vocali sull’ardore delle ribellioni, così forti, così violente, forse insensate, ma necessarie al ristabilirsi di condizioni umane libere, dignitose e non offuscate nei pensieri. Fantini ed amazzoni della musica cavalcata a suon di provocazioni, trapezisti di teorie anticonformi al pensiero comune, dissacranti, pungenti e folli. Ma pazzescamente veri. Di quella verità di cui il mondo necessitava, necessita e necessiterà, la stessa che dovrebbe esser propria ad ogni uomo, donna o bambino in quanto tali.
Ossequi, alla musica, a chi ne dona scritto, suono, canto.
Onore all’unica forma d’arte non condizionata a sensi predefiniti per averne percezione. L’ascolterebbe il cieco a sguardo spento, allo stesso modo del sordo che ne percepisca vibrazioni a bordo cuore. Perché la musica entra, si fa strada in corpo e mente ed unisce e, nei suoi mille generi, trova il punto di fusione nella diversità.
Purché rispettata e riconosciuta nella sua peculiarità di spartito.
E la magia accade.
Si ascoltano, si assimilano e si dedicano canzoni tangendo la mente di volo, perché ascoltar musica, è, volare, dotando i propri pensieri d’un paio d’ali con la stessa facilità con cui si girano due cucchiaini di zucchero nel caffè. Loro, le melodie, dolci come il miele, di suono or soave or piccante, si odono e si gustano, saturando le meningi di sensazioni magmatiche ed eruttando una libertà di pensiero tale, da traslarne l’essenza da un posto all’altro, oltre tempo, oltre luogo, oltre dimensione. Oltre sé.
Ci si gettano “diamanti dentro” e ci si regalano momenti, nella musica, resi indelebili da palpiti all’unisono e da tremori a fil di pelle, sotto la quale ogni nota, chiedendo permesso, entra vibrando e lì resta, tatuandosi fra pathos ed udito, fra testa e cuore. Ci si può spaccare, di musica, struggendosi nelle vene e restringendosi nello stomaco, alleggerendosi nel ballo e sconoscendosi deliranti, ritmando una tribalità di sensi nella certezza d’esserne colpiti a fondo, senza dolore alcuno.
Il bello della musica è che quando ti colpisce non sentì dolore
(Bob Marley)
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