Animali in estinzione: L’uomo, il più feroce fra le bestie
Non lo so a cosa serve questo sasso, io, a qualcosa deve servire perché se questo è inutile allora è inutile tutto, anche le stelle!
(Federico Fellini, La strada, 1954)
Tre meraviglie han dorato la mia infanzia. I gatti, gli occhi ed i sassi. Degli enigmatici e sinuosi felini ricordo le struscianti fusa fra le caviglie ed il delicato cullarmi in grembo più cuccioli per volta. Ne rammento la morbidezza dei cuscinetti rosei, pieni, non ancora irruviditi dal cammino e gli artigli sottili, di quelli che mi rendevano braccia e gambe un’opera d’arte dipinta a graffi benevoli, acerbi miagolii ed empatia fra animi che pennella il sentirsi bene.
Gli occhi m’han sempre rapito oltremisura. In quelli umani ho letto romanzi, tragedie, poemi, prose, poesie, filastrocche, stanchezza, entusiasmo, sorrisi, amore. Sofferenza, talvolta, che ne accentua tonalità, spessore e profondità di sguardo. M’han rammaricato ove vi abbia colto odio e rancore, osservandone il lento spegnersi, il celere opacizzarsi, l’impressionante rabbuiarsi. Gli occhi degli animali non si spengono mai, essendo livore e risentimento peculiarità umane.
Non esiste sasso che non sia degno d’esser amato. Ognuno di essi conserva una storia, indossa un’evoluzione, colpisce un senso. Ne ho ammirato venature argentate baciate dal sole, carezzato profili lisciati da onde e correnti, ascoltato i racconti, annusato l’essenza e gustato la magia.
Durante interi pomeriggi estivi trascorsi sdraiata su tiepida ghiaia di cortile, piccoli mici fra pancia e collo ed occhi al tetto celeste, ho imparato la vita, quella bella, quella semplice, quella che si attacca sulle ginocchia con profumata terra da sciogliere in gioia nel bagno della sera.
Poi si diventa grandi. Si scopre che i gatti amoreggiano sui tetti, che i sassi son figlioli di montagna e che si può guardare oltre cortile. E così si viene a sapere che il buio oculare di alcuni uomini, la cecità interiore, il sordo sentire ed il fare sprezzante, chiudono infinite palpebre animali. Portando gli stessi all’estinzione della specie. La peggior barbarie. Il gesto più atroce. Il pensiero più lacerante. La sconfitta.
Il ricordo dei gatti sul petto che pulsa, appare all’improvviso più lontano. Cambian sfumatura l’iridi gaie. Il cuor leggero divien sasso rugoso.
L’adattamento animale alla brutalità
L’originarsi di nuove specie dalle preesistenti dicesi speciazione, processo evolutivo concettualmente sviluppato da Ernst Mayr (1904-2005), genetista, biologo, naturalista e storico scientifico tedesco, Julian Sorell Huxley (1887-1975), genetista, biologo e scrittore britannico e Teodosij Grigor’evič Dobžanskij (1900-1975), biologo e genetista sovietico. Essa origina a sua volta da selezione naturale e deriva genetica.
Se per selezione naturale la possibilità di sopravvivenza è direttamente proporzionale alle capacità d’adattamento all’ambiente di ogni essere vivente, la deriva genetica resta invece una variazione delle frequenze geniche, di generazione in generazione, puramente casuale. Entrambe restano motori primi dell’evoluzione, di cui Charles Robert Darwin (1809-1882), biologo, naturalista e geologo britannico, porta l’indiscussa paternità e che, unita alla forma matematica della genetica delle popolazioni, ai dati analitici della paleontologia ed alla teoria dell’ereditarietà di Gregor Johan Mendel (1822-1884), matematico, biologo e monaco agostiniano ceco di lingua tedesca, costituisce l’intreccio multidisciplinare portante del Neodarwinismo, a tutt’oggi la teoria evoluzionistica più avvalorata in ambito scientifico, derivata per l’appunto dall’intreccio fra convinzioni darwiniane, fattori genetici, deduzioni mendeliane ed aspetti paleontologici.
L’estinzione a causa umana si contrappone alla speciazione in acuto attrito d’unghie sullo specchio, ove è impossibile arrampicarsi. È un accadimento incomprensibile, un arresto del vivere intollerabile, un’arretratezza mentale che fa del Pianeta palla da gioco. Una scelleratezza di spropositate ripercussioni che l’associazione ambientalista World Wildlife Fund (WWF) ha da tempo denunciato e che fa rabbrividire, se si pensa che a partire dalla Rivoluzione Industriale, il numero delle estinzioni ha raggiunto il picco massimo nella storia biologica, provocando un’accelerazione contro natura che crea un vuoto temporale, impedendo di fatto il naturale passaggio di staffetta fra specie e rischiando di giungere ad una nuova estinzione di massa della quale l’uomo s’illude di beffarsi, arrecandosi stupidamente egli stesso danno irreparabile e portando di conseguenza il Pianeta a rimbalzarselo fra catastrofi.
Il Pianeta ha superato cose molto peggiori di noi. Ha superato terremoti, vulcani, tettonica a placche, deriva dei continenti, venti solari, macchie solari, tempeste magnetiche, inversione magnetica dei poli, centinaia di migliaia di anni di bombardamento da parte di comete e asteroidi e meteoriti, inondazioni mondiali, onde anomale, incendi planetari, erosione, raggi cosmici, ere glaciali ricorrenti, e pensiamo che qualche busta di plastica e qualche barattolo di alluminio faranno qualche differenza? Il pianeta non va da nessuna parte. Noi sì! Noi andremo via! […] Solo un’altra mutazione fallita. Solo un altro vicolo cieco biologico. Un cul-de-sac evoluzionistico. Il Pianeta ci scuoterà di dosso come un’infestazione di pulci.
(George Carlin)
La lieta novella giunge a bordo proboscide. A parer di tesi della studiosa d’elefanti Joyce Poole, che ha trovato pubblicazione sulle pagine di National Geographic, in Mozambico (e marginalmente in altre zone africane) un numero sempre più elevato d’esemplari nasce senza zanne, mutazione naturale che secondo la ricercatrice poggerebbe piede su base evolutiva in reazione allo spietato bracconaggio per il possesso d’avorio. Una Madre Natura che protegge i propri figli scegliendo il male minore.
Già nel 2015, in uno studio condotto dalla Duke University, in collaborazione con il Kenya Wildlife Service, numerose femmine presentavano un notevole rimpicciolimento delle zanne. Il feroce abbattimento di pachidermi, ha raggiunto il culmine a cavallo fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, in piena guerra civile, periodo durante il quale l’avorio venne impiegato, in aggiunta ai più svariati utilizzi, per la costruzione d’armi belliche. Una reazione di difesa naturale l’autoprivazione di zanne, che se da una parte fa sorridere, annoda la gola e lascia amarezza sul palato dall’altra, in quanto indiretta causa umana, con invalidamento della condizione fisica ed ovvia modifica dello stile di vita che andranno ad impattare sull’intero ambiente.
Non servono qualifiche particolari, forse un pizzico di buon senso, per comprendere la complessità, il fragile equilibrio e la bellezza assoluta di processi evolutivi che andrebbero protetti e custoditi con amorevolezza, nel rispetto d’un ecosistema in perfetta armonia ove la rottura d’un solo anello, la modifica d’un solo fattore, il mancato rispetto di qualsiasi parametro, arrivino ad interrompere un ritmo naturale con effetto domino devastante. Basterebbe un occhio di riguardo, un gettar pupille nelle pupille delle specie più a rischio per chiedersi cosa scateni una simile offesa.
Alcune di loro portano occhi talmente dolci che si vorrebbe perdersi al loro interno.
L’estinzione dell’essere
Suscitan tenerezza i globi oculari d’alcune specie animali, racchiudendo in sé una dolcezza tale da sentirsi struggere. È un bel guardare, un’osservar gestualità, comportamenti e caratteristiche fisiche che stimolano il bel pensare.
Il primato dagli occhi più melodiosi spetta quasi sicuramente al loris lento, piccolo primate asiatico dal folto pelo e dallo sguardo supplichevole, considerato, nelle zone native, portafortuna o portasventura a seconda della convinzione popolare della zona. La sua specie è vulnerabile (in diminuzione), causa prima il commercio illegale per farne animale da compagnia che, unito alla scarsa conoscenza della piccola scimmietta, porta ad interpretarne il sollevamento delle braccia come desiderio di coccole, atteggiamento improbabile in uno stato di selvatichezza ed oltretutto dovuto ad un tentativo di difesa, essendo posta sotto il gomito una ghiandola velenosa con la quale la stessa vorrebbe difendersi, non potendolo fare mordendo in quanto i denti vengono preventivamente strappati. Il solletico è per lui una tortura, come lo è la luce del giorno, essendo animale notturno. Un’errata nutrizione ed il trasporto in condizioni pietose fanno il resto, rendendo quest’indifesa creatura una dolce anima inascoltata. E l’uomo la peggior bestia.
È invece uno sviluppo agricolo a negativo impatto sull’habitat ad aver portato il quokka in stato di vulnerabilità, oscurando la serenità del piccolo marsupiale australiano macropodide, insignito del titolo di “Animale più felice del mondo” grazie ad un paffuto musetto ad espressione ridente e ad occhi vispi che, uniti ad un carattere estremamente socievole, lo rende avvicinabile ed infinitamente simpatico. Sta nel rovescio della medaglia la sua incapacità di difendersi, motivo per cui è spesso vittima di predatori animali che ne decimano le unità viventi. Seppur in buona fede, anche il cibo somministrato dai visitatori, ora vietato, ha gravato sulle abitudini alimentari del piccolo canguro, attualmente specie protetta.
In pericolo anche la giraffa di Rothschild, poche centinaia di esemplari fra Uganda e Kenya. Lei, l’amabile mammifero dal lungo collo e dalle cinque corna, caratteristica che la contraddistingue tanto quanto un’altezza che n’eleva lo sguardo a sei metri da terra, ove posano le zampe prive di pezzatura nella parte inferiore, che par la rendano indossatrice di candidi calzini. La sua vulnerabilità è strettamente connessa all’ibridizzazione, con pochissimi luoghi in natura in cui poterla osservare e conseguenti programmi di riproduzione in cattività volti alla conservazione della specie.
Stesso color di calze, cavigliera corvina e testa meno fra le nuvole, di suo cugino, l’okapi, si ammira un inserto zebrato ch’esplode nel cioccolato sul resto del corpo. Solitario mammifero giraffide congolese, s’è visto levar terra da sotto le zampe a causa d’insediamenti umani eccessivi che hanno contribuito, insieme ad un intensivo sviluppo dell’industria del legname, ad una deleteria modifica del suo habitat. La piccola giraffa travestita da zebra porta occhi malinconici e corde vocali ridotte, che tra uno sbuffo, un gemito ed un belato, unici vocalizzi possibili, riesce ad esprimere tutto ciò che ha da dire senza tanti discorsi inutili. La solitudine ne accompagna il passo quotidiano, ch’esso accoppia in occasioni amorose.
Fra tarsio e scimpanzé passano una quarantina di chilogrammi ed un’ottantina di centimetri, ma li unisce il triste rischio d’estinzione che grava sulla metà dei primati, più consistente sulle spalle del simpatico “folletto” asiatico rispetto alla diminuzione che attraversa il destino del nostro antenato più caro. Arti orecchie e coda decisamente sproporzionati, fan del tarsio un simpaticissimo e minuscolo esserino con occhi a biglia, incastonati come fossero pietre preziose. Schivo e bizzarro, d’una tenerezza disarmante in proporzioni ed esilità, rende ancor più difficile da sopportare la sola idea che l’estinguersi sia per lui una possibilità tutt’altro che remota, motivo per cui la protezione della specie ne tenta l’aggancio definitivo al mondo. Se caccia e distruzione dell’habitat rischiano di dar colpo di spugna al minuscolo primate che sta in una mano, alle cause di diminuzione degli scimpanzé si uniscono ricerche scientifiche ed uccisione delle madri per il commercio dei piccoli. Sembrano comprendere i loro occhi profondi, l’intelligenza che ne caratterizza l’essere sconfina in un’umanità che si legge nei movimenti delle loro labbra, il desiderio d’apprendere illumina e porta malinconia allo stesso tempo, nel percepirne la portata affettuosa che tra sorrisi ed abbracci vigorosi fa commuovere e riflettere, sfiorandone appena la capacità di perdono, l’assoluta mancanza di rancore, la costante voglia d’interagire. Emozionando. Colpendo a fondo. Disarmando.
Dalla terra al mare, dal mare al fiume. Balenottera comune ed orcella asiatica. Una settantina di tonnellate distribuite in venticinque metri approssimativi di lunghezza, fa della balenottera comune il secondo animale più grande del Pianeta (seconda solo alla balenottera azzurra). L’affascinante cetaceo ha subito il massacro del cacciatore umano, feroce a tal punto da rendere concreto il rischio di un suo abbandono permanente delle acque marine; un recente rapporto di fine 2018 del WWF, rinvigorisce però le speranze, sull’onda dell’aumento della popolazione di specie. Si potesse sussurrarglielo, che di tanto in tanto le cose van per il giusto verso, magari individuandola in uno di quei rarissimi salti che la portano ad infrangere la superficie del Mediterraneo con vigore e sforzo estremo, in un balzo quasi felino che ne posa per un attimo lo sguardo al cielo. Specie particolarissima di delfino che nuota la vita negli estuari dei fiumi dell’Asia meridionale, l’orcella incanta al sol guardarla. Ottantacinque esemplari rimasti alla conta del 2015, miseramente umiliati dalla distruzione ambientale, la particolare bellezza di questi delfini d’acqua dolce ha incantato i marinai del ‘500 che li confusero per sirene. Occhi corposi, scuri, che paion gemme d’ematite, uniti ad un sorriso che attraversa le rotondità del muso, raccontano fiabe e grandi verità.
Taglio d’occhi allungato, poetico e soave come quello degli asini non lo possiede nessuno. Veloce quasi quanto un cavallo, zampe di zebra e zoccolo alto, l’asino selvatico africano è pura magia, disincantata negli anni dalla cattura per usi domestici, incroci fra esemplari incompatibili, caccia e scarsità delle riserve idriche. Delle due principali sottospecie, l’asino della Somalia, il più alto, si compone di poche centinaia d’esemplari allo stato brado; l’asino della Nubia, è invece talmente raro da valutarsi quasi estinto.
E infine lui, il leone bianco, chissà cosa potrebbe pensare del fatto che in Timbavati son rimasti circa in tredici. Chissà se nel suo mantello chiaro, non albino, meraviglioso dono di un gene che ha deciso di recedere donando al suo pelo la stessa tonalità del deserto, si chiederà mai che fine ha fatto parte del popolo della sua amata foresta. E chissà se mai capirà, dal profondo dei suoi occhi azzurri o dorati, perché un suo simile, per il semplice fatto di posseder una camminata eretta ed un pensiero più articolato, si sia svegliato un giorno credendosi superiore.
È solo per un eccesso di vanità ridicola che gli uomini si attribuiscono un’anima di specie diversa da quella degli animali.
(Voltaire)
Umana bestialità
Due manciate di creature che si contano sulle dita di una mano, troppo pochi qui elencati rispetto a tutti quelli a cui l’uomo toglie il fiato ed ai quali avrei voluto dar voce, troppo tanti anche se fosse uno solo. Un senso d’impotenza che lascia storditi. Un dolore. Una mancata possibilità d’apprendimento dagli stessi. Insegnanti primi.
È in me da sempre la convinzione che il comportamento animale sia l’esempio nobile da seguire, umanamente, socialmente e nella ricerca del giusto compromesso fra il scientifico progredire ed il rispetto per Madre Terra. C’è umanità negli animali e bestialità negli umani, intesa, quest’ultima, nella sua accezione più bieca, subdola, profittatrice ed anche ingrata, nella misura in cui ciò che dovrebbe distinguere l’uomo da fauna e flora, quell’intelletto di cui tanto si pavoneggia, l’ha reso troppo spesso indegno ed immeritevole, oltre che lautamente miserabile, infelice, squallido ominide ricoperto d’oro e diamanti, disadorno di sentimento e disgraziato nell’animo.
L’armonioso e flautato processo della speciazione fila poesia, descrive il delicato sforzo d’una specie di rinascere rigenerandosi, evolvendosi e posando zampa e pelle sul mondo inglobandosi in esso, carezzandolo, custodendolo, nutrendosene in sensata misura ed amandolo. Un’evoluzione romantica, lirica e scientifica allo stesso tempo, un riproporsi adeguandosi, adattamento che non sia da interpretarsi in termini remissivi, arrendevoli, bensì come danza necessaria fra crescita ed habitat, corporeità e materia, vento e respiro.
Un walzer a bordo sfera ch’è equanime baratto esistenziale, un prendersi per la vita fra il darsi ed il donarsi, l’ascoltarsi ed il comprendersi. Una melodia sulle cui note l’uomo ha danzato pesante, stonando, strimpellando e stravolgendo un pentagramma vitale le cui righe potrebbero stringerne il collo, fin a soffocarlo nel suo stesso canto funebre. Toccare, manipolare, anche solo pensar di sfiorare un ecosistema, estinguere una specie, chiuder palpebre, silenziar versi, toglier foglie al vento e radici alla terra in maniera irreversibile è una bestemmia, un oltraggio, un vilipendio rivolto all’universo, un auto smacco, dunque, un disonore, uno schiaffo, una pugnalata che ferisce il mondo perendo ogni uomo con la stessa zanna che s’è evoluta sparendo. Uno scacco matto agli umani che appaga enormemente seppur, allo stesso tempo, rattristi in maniera indescrivibile il solo pensar sia stato necessario far di suol terrestre scacchiera minata per poter sopravvivere.
Tento spesso di stringer la mano all’infante ch’è in me, nel desiderio di provare a tener vivo anche un lato animale e vegetale, nelle sue sfumature più arcaiche, primitive, quelle che non necessitano d’intelletto o vocaboli.
Parlano esistendo.
Sussurra l’importanza dell’attesa la maturazione d’un frutto. Ricama il valore del tempo la gestazione animale. Esplode il senso dell’amore la nascita d’un cucciolo. Insegna il rispetto dell’amarsi l’andare in letargo. Invita alla libertà il volo d’un gabbiano, al volersi bene l’intrecciar d’un nido, all’indipendenza il suo abbandono. Strugge l’udito un cantar di tortora. Richiama allo zelo la tela d’un ragno. Fa sorridere l’ozio della cicala, suscita ammirazione il trasportar pane della formica. Quant’è bello seguirne il percorso, l’osservarne il tentativo di sollevar briciole da sola come fossero massi, la tecnica d’aggancio e l’arrivo delle compari in aiuto, un appoggio pulito, buono, quel sorreggere insieme un carico e condividerne lo sforzo senza secondi fini.
Credo d’aver imparato molto dalle formiche nel corso degli anni, infinitamente grata, gioiosa ed onorata d’aver avuto in dono occhi che mi abbian concesso il privilegio di leggerne la capacità congenita di riconoscere i propri limiti, l’importanza dello spartir sentimenti, la valenza di costanza e coerenza, la lungimiranza. Ne porto in me l’immenso valore e la sconfinata coscienziosità, sebbene sia ancor molto distante dal saper essere come loro. E poi quella camminata, il porre un passo avanti all’altro celeri e decise, l’aggirar l’ostacolo in splendida esecuzione armonica ed il passar fra dorso e palmo di mano come in equilibrio sull’infinito, solleticando. Un colpo allo sguardo ed uno alle vene.
In attesa tra un frutto di stagione e l’altro, fra un miagolio ed un graffio, ho raccolto sassi nelle mani lasciandoli cadere a fontana, un po’ come si fa con la farina o con la sabbia di mare, ricordo come ogni sasso trovasse la sua posizione, senza prevaricare, in una sorta di naturale e rispettoso gioco fra peso, forza di gravità e spazio disponibile. Ai tempi pensavo, con il mio intelletto di bambina, che non fosse poi così complicato trovare il proprio posto nel mondo, che forse bastasse sentirsi or sassolino, or sabbia, or farina, un po’ come succede con le persone, che per comprenderle si deve provare un poco ad esser loro, indossandone pensieri, sensazioni, battiti. Non so quanto sia riuscita a conservare di quella bimba, ma di lei m’è rimasto il desiderio di tenere sempre in tasca sei cose, più una: uno sbaglio ed una curiosità, un sorriso ed una lacrima, una penna ed una parola, credo volesse dirmi che non c’è bisogno d’altro per una passeggiata con se stessi, se non di un sasso piatto da tirare a fil d’acqua se mai capitasse di scordarsi di far parte della natura. Nella soddisfazione del rimbalzello, il ricongiungimento giocoso ad essa sarà inevitabile e rispolverante.
Ho voluto provarci a vivere così, uno dei tanti modi possibili.
Ho sbagliato e curiosato il mondo nei suoi esseri viventi, riso a squarciagola e pianto a dirotto negli affetti, scritto un sentire e cantato mille parole nelle amicizie. Ho imparato come ognuna d’esse abbia un peso differente e peculiare, di come sappiano cullare, nutrire, scaldare o sfregiare e quanto un silenzio giunga ad esser più elegante, decoroso ed onesto d’un vil parlare. Nel rimbalzo di quel sasso sull’acqua ho carezzato tutte le specie animali e vegetali del mondo, ne ho percepito il verso smorzato in gola, il frusciar appassito, l’ineludibile rassegnazione. Un mutismo forzato, innaturale, da mano caina inferto, quell’ultimo afflato dignitoso dall’eco assordante, così fiero, vitale, potente sul grido dell’uomo a tal punto da render vana e sterile qualsiasi parola. Lesse bene Ernest Hemingway nell’animo felino. Lo scrittore della vita, il poeta del concreto, il romanziere della realtà, quel brav’uomo che seppe amare oltremodo «un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce», comprese ben presto quanto fosse importante, in un mondo che di baccano fa orgoglio, imparare a filar silenzio, lui, sensibile custode d’urlante sincerità, intuì sagacemente che «ai gatti riesce senza fatica ciò che resta negato all’uomo: attraversare la vita senza far rumore».
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