Hazel Scott: Donna, musicista, attivista per i diritti civili
Nell’inverno del 1939, Hazel Scott si avvicinò al pianoforte del Café Society di Greenwich Village, mostrando la sicurezza di chi possiede anni di esperienza, mentre lei non ne aveva poi molta. Era stata Billie Holiday a suggerire il suo nome al proprietario Barney Josephson, un ebreo di origini lettoni che all’epoca era l’unico, in tutta New York, a guidare un locale notturno dove il colore della pelle valeva quello di un abito.
Neanche al famoso Cotton Club di Harlem erano graditi gli afroamericani, sebbene i fiumi d’alcol fossero immancabilmente accompagnati dal jazz d’artisti come Duke Ellington, Jimmie Lunceford, Teddy Wilson. Vi suonavano regolarmente, ma una volta terminata l’esibizione raramente veniva concesso loro di rimanere e unirsi alle persone come normali clienti, gran parte delle volte gli veniva indicata l’uscita.
Odio e pregiudizio che nel 1950 porteranno Hazel Scott davanti alla HCUA, la commissione congressuale incaricata di investigare sulle attività antiamericane presieduta da Joseph McCarthy. La Guerra Fredda aveva scatenato la cosiddetta Paura Rossa e lei, per rispondere alle insinuazioni che la volevano legata a movimenti comunisti, si presentò volontariamente per difendere la propria posizione e con decisione smentì le accuse che le erano state rivolte.
I diritti civili rappresentavano il solo impegno preso e con fervore sostenuto, eppure, il libro sulle cui pagine sin ad allora andava scrivendosi la rapida ascesa artistica di una musicista dal talento assoluto, se non miracoloso, venne improvvisamente chiuso lasciando che il resto della storia, quella di una donna elegante e con le sue debolezze, audace, evolvesse attraverso parole prive di passione dovuta, di riconoscenza e la fiaba finì per essere dimenticata.
Hazel Scott, la bambina prodigio
Hazel Dorothy Scott nacque l’11 giugno 1920 a Port of Spain, capitale dell’isola caraibica Trinidad e Tobago ed era l’unica figlia di Thomas R. Scott e Alma Long. Per motivi diversi ebbero entrambi un ruolo cruciale nella vita e nella carriera dell’artista. Il padre, cresciuto in Scozia e di origini Yoruba, (etnia presente in particolare nelle regioni della Nigeria e del Benin), giunse sull’isola caraibica per insegnare inglese al St. Mary’s College, parlava correntemente varie lingue, tra cui il cinese era anche un studioso di africanistica. La madre era invece un’eccellente pianista, di formazione classica, impartiva lezioni private e il sogno coltivato d’esser musicista lo vide farsi vero nella figlia. Inaspettatamente presto.
Insieme a loro viveva la nonna materna, Margaret, e fu lei a sorprender la nipote mentre faceva scivolare le piccole mani sulla tastiera del pianoforte.
Non aveva 3 anni Hazel, e stava suonando le melodie che le venivano cantate per consegnarla alla luna. Tempo dopo rammenterà l’episodio: «Avevo 2 anni e mezzo e mia nonna si era appisolata dopo pranzo. Mi sono arrampicata sulla panca del pianoforte e ho iniziato a suonare con una mano. Ho continuato finché non è diventato più facile. La nonna si svegliò e mi chiese, “Chi c’è?” Pensò che fosse arrivato uno degli allievi che venivano a casa. Sicché le dissi, “Sono io.” E lei, “Sì, ma io chi?” Risposi: “Io, Hazel”. Balzò in piedi e corse a chiamare i vicini perché venissero ad ascoltare il prodigio.»
Aveva un dono naturale, sentiva un brano ed era in grado di eseguirlo altresì mostrando d’essere in possesso di una perfetta intonazione. La madre iniziò a farle studiare musica e nell’arco di pochi mesi quel piccolo miracolo prese a mostrarsi in pubblico suonando ogni volta le veniva data occasione. Una meraviglia che non fu però d’aiuto a dar sollievo alle inquietudini del padre. Sempre più silenzioso ed emotivamente lontano dalla famiglia, la distanza cominciò a farsi anche fisica e per giorni, poi settimane tornava a casa, unicamente per vedere la figlia e alla fine, nel 1923 lasciò l’allora colonia britannica per andare New York.
Abbandonata dal marito, Alma fu costretta a cercare un occupazione, le sole lezioni non erano abbastanza per andare avanti e pur non trascurando la musica anche dal punto di vista personale, svolse vari lavori e per un certo periodo di tempo gestì anche un piccolo ristorante. In quella situazione riuscì anche a fare il suo primo concerto solista, ma la soddisfazione non poteva far da compenso alle difficoltà e nel 1924, nonna, madre e figlia salirono a bordo della Maraval, ed insieme a decine di famiglie dell’isola salparono verso gli Stati Uniti.
Si stabilirono ad Harlem, dove Alma trovò presto impiego come domestica, mentre Hazel poté abbracciare nuovamente il babbo. Le visite non erano molte e quando passava a prenderla per trascorrere con lei qualche ora, anziché darle momenti di leggerezza concentrava gli argomenti sui problemi sociali, l’attualità di un’America dove in quel solo anno aveva visto e vissuto ingiustizie.
Thomas Scott aveva prestato molta attenzione alle parole di Marcus Mosiah Garvey, politico, scrittore e imprenditore di origine giamaicane e che nell’isola, a Kingston, dieci anni prima aveva fondato l’organizzazione panafricanista internazionale UNIA: Universal Negro Improvement Association and African Communities League, il cui motto era ‘One God, One Aim, One Destiny’.
All’interno dell’associazione vi erano anche altre numerose strutture come le infermiere della Black Cross Nurses, il gruppo paramilitare Universal African Legion e sotto la bandiera rosso, nero, verde e la Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Neri del Mondo adottate nel 1920, l’UNIA contava quasi 2000 sezioni sparse in oltre 40 paesi, una delle quali sulla 135 St di Harley.
Contemplando le idee dell’oratore ed educatore Booker Taliaferro Washington, il giamaicano promuoveva la libertà sociale, politica ed economica per la gente di colore e con i suoi discorsi si era guadagnato una moltitudine di seguaci in molte delle principali città americane ed oltre confine.
Thomas era tra questi e nei pomeriggi con Hazel non mancava mai di passare dalla Liberty Hall, la sede in cui settimanalmente, dal ’18 al ’27 venivano organizzati incontri e l’annuale convention. Gli uomini in divisa, le infermiere dritte in piedi l’una di fianco all’altra, Marcus Garvey con l’ uniforme nera e la passione in ogni sillaba, la colpirono profondamente.
Qualcosa in particolare destò la sua curiosità, ovvero quando il leader nero pronunciò: «Sono un uomo, esigo le opportunità e il trattamento di uomo.» Nella mente della piccola Hazel Scott, non c’era niente di più ovvio e così cerco una risposta da suo padre: «Ricordo i suoi occhi riempirsi di lacrime mentre mi diceva: “E’ proprio questo figlia mia, temo ci siano persone che non riescono a vedere che lui è un uomo”».
A differenza di altri attivisti che predicavano in favore di una completa integrazione, Garvey, pur credendo nella fratellanza e rispetto fra esseri umani, al grido di ‘Africa agli africani, in patria e all’estero’ promuoveva un sentimento di nazionalismo nero e un ritorno al continente natio. E’ in questo clima di conflitto sociale, politico e culturale che Hazel Scott cresce formulando riflessioni, facendosi un propria idea, fra una madre che si prodigava per proteggerla e un padre che tentava di prepararla.
Dalla Julliard School al successo
Nel frattempo continuava a studiare e stupire, al pianoforte esibiva sicurezza, improvvisava e nel 1928, grazie a delle amicizie, Alma ottenne per lei un provino alla prestigiosa Julliard School, nonostante le regole prevedessero un’età minima di 16 anni per accedere e la Hazel ne aveva la metà.
Cominciò a suonare Preludio in do diesis minore di Rachmaninoff e le note furono udite da colui che la scuola l’aveva fondata, il direttore d’orchestra Frank Damrosch. Stava compiendosi un sacrilegio nei confronti di uno dei brani più celebri del compositore russo. Al maestro non era sfuggito che il pianista stava parafrasando in alcuni passaggi e indignato volle vedere il volto di chi stava commettendo una tale blasfemia.
Si trovò davanti una bambina le cui mani erano troppo piccole e in alcuni passaggi non le permettevano di formare gli accordi. Hazel lo ammise candidamente, spiegando di aver cercato un suono più vicino possibile all’originale. Paul Wagner, direttore delle audizioni, non ebbe dubbi:«Sono alla presenza di un genio».
Damrosch fu dello stesso parere e a Scott si aprirono le porte della scuola.
In quello stesso periodo, la madre stava affermandosi come jazzista, si esibiva e stringeva amicizia con leggende come Art Tatum, Fats Waller, Lester Young, luce che ovviamente andava riflettendosi anche sul giovane prodigio ed in particolare Billie Holiday, maggiore di lei di soli 5 anni, divenne come una sorella.
Aveva 13 anni quando suonò nel gruppo jazz di sua madre, le American Creolians e dopo quell’esperienza, non senza combattere un comprensibile terrore, un’adolescente Hazel Scott si vide catapultata sul palco della Roseland Ballroom, come pianista dell’orchestra di Count Basie. Era stata Alma ha farle quel dono e lei rispose come sapeva, da quella sera la sua carriera sarebbe rapidamente sbocciata ed un polmonite, non permise a suo padre Thomas di vederne la gloria, trovò la morte nel 1934.
Già ospite fissa nei programmi radiofonici della storica Mutual Broadcasting System, quando nel ’38 Josephson aprì il suo Café Society, «il posto sbagliato per le persone giuste», Hazel Scott ne divenne la stella più luminosa, ma i successi arrivarono con i musical che la videro protagonista a Broadway: Cotton Club Revue, Singing Out the News e Priorities ed alla fine anche il cinema si accorse di lei. In soli due anni partecipò a Broadway Rhythm a fianco di Lena Home; The Heat’s On, Something to Shout About e soprattutto I Dood It, diretto da Vincente Minelli e Rhapsody in Blue, una biografia del compositore statunitense George Gershwin.
Raffinata, sorridente, suonava il pianoforte come pochi, accompagnando la musica con un canto profondo, avvolgente. Ad entusiasmare il pubblico anche i suoi arrangiamenti jazz e blues di capolavori classici di Chopin, Bach, Liszt, Rachmaninoff. Ammaliò persino Eleanor Roosevelt, la quale avrebbe voluto cenare con lei dopo aver assistito ad uno spettacolo, ma Hazel Scott si era già cambiata d’abito e quello indossato non lo reputò consono per accettare l’invito.
Consapevole del proprio talento e ferma nelle idee, prima di sottoscrivere contratti, fin dal primo momento pretese fossero incluse condizioni ben precise: niente esibizioni in locali in cui era prevista una qualunque forma di discriminazione ed altrettanto, quando arrivò la chiamata di Hollywood, sfidò le grandi produzioni sottraendosi a quei ruoli stereotipati che volevano donne e uomini di colore nelle vesti di domestici, indigenti o senzatetto, tantomeno avrebbe recitato parti che l’avrebbero fatta apparire stupida.
Perché qualcuno dovrebbe venire ad ascoltarmi, una negra, e rifiutare di accomodarsi accanto a una persona che è come me?
In quegli anni si in unì in matrimonio con Adam Clayton Powell Jr., predicatore battista, attivista e politico; primo afroamericano ad essere eletto membro del Congresso dello Stato di New York. Formarono una coppia influente e la loro notorietà non era limitata alla gente di colore. Ebbero un figlio, il giornalista Adam Clayton Powell III, ma l’unione ebbe vita breve e l’artista sarebbe volata lontano dagli Stati Uniti e dalla fama. L’implacabile difesa di afroamericani, donne e artisti la rese obiettivo del Comitato per le attività antiamericane.
Hazel Scott davanti alla HCUA
Nel 1949, affrontò una causa contro i proprietari di un ristorante di Pasco, Washington, intentata dopo che questi si erano rifiutati di servirla in quanto persona di colore. Vinse e venne risarcita con 250 dollari, ma soprattutto quella dignità riconosciuta dette forza e coraggio a molte associazioni per i diritti civili spingendole a far pressioni su Washington ed abbattere le barriere razziali.
Pochi mesi dopo, il 22 giugno 1950, il nome di Hazel Scott apparve nell’opuscolo intitolato Red Channels, la famosa lista nera in cui erano finiti professionisti del mondo dello spettacolo considerati comunisti o simpatizzanti.
«Non ho mai avuto rapporti con il Partito Comunista – dichiarò al comitato delle attività antiamericane – e nemmeno con qualsivoglia organizzazione a loro legata. Ho sostenuto il politico comunista Benjamin Jefferson Davis per il consiglio comunale, quando ad appoggiarlo erano i socialisti, che odiavano i comunisti più di chiunque altro».Denunciò i «profittatori» nascosti dietro a un falso patriottismo ed unicamente «in cerca di soldi e notorietà», rischiando l’ingiusta dilapidazione di un patrimonio. Come lei, altre centinaia di artisti erano finiti nel ‘rapporto sull’influenza comunista in radio e televisione’, ed avvertì sul fatto che sarebbe potuto essere «realmente dannoso per la morale e la sicurezza nazionale».
Non servì a niente.
Il 3 luglio dello stesso anno in televisione venne trasmessa la prima puntata di The Hazel Scott Show, un programma musicale della durata di 15 minuti la cui messa in onda era prevista il lunedì, mercoledì e venerdì alle 19:45. Si trattava del primo spettacolo con protagonista un afroamericano, avrebbe poi aperto la strada a Nat King Cole, Sammy Davis Jr., fino ad Oprah Winfrey, ma dopo quelle sue dichiarazioni, il 29 settembre, venne interrotto e annullato.
Partita da Port of Spain, a soli 20 anni Hazel Scott era già entrata nel pantheon dei più grandi artisti d’America, affrontando l’insulto della segregazione e il maccartismo poi, ma proprio quella caccia alle streghe finì per emarginarla. Nel 1957 decise di ricominciare da Parigi, unendosi ai tanti artisti afroamericani che in quegli anni espatriarono per identico motivo, fra cui Dizzy Gillespie e James Baldwin. Partì con il figlio, Powell non la seguì e i due divorzieranno 3 anni dopo. Girò l’Europa, suonò in Africa, Medio Oriente, prese anche parte al film francese Le Désordre et la nuit, ma non trovò il calore che aveva conosciuto e nel 1967 rientrò negli Stati Uniti.
Per tutto il successivo decennio continuò ad esibirsi nei locali, apparse nuovamente sugli schermi interpretando anche ruoli in commedie e serie televisive. I riflettori però non tornarono mai davvero su lei, finché nel 1981, all’età di 61 anni fu portata via da un cancro ed il suo nome, la sua musica vennero lentamente dimenticati.
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