...

La Luna, l’astro d’argento nell’arte e nella cultura

 
 

Come fa la luna a non elevare il cuore di un poeta, se riesce a innalzare il mare!
Carlos Saavedra Weise

 
Tondo profilo, sussurro di fata, occhio ciclopico celeste, pelle d’argento e bacio di madre, lei, Luna, custode di segreti ed anima buona, par sorregger cielo e stelle tutte, splendente, diamantina e luminosa a tal punto da non poterla credere astro di luce riflessa, ma brillante creatura dal selenico cuor di Cupido che innamorò poeti, cantori di fiabe, pittori e musichieri, concedendosi in soavità e bellezza d’esserne rapiti ad ogni sguardo. Sposa del sole e sorella del mare, confidente dell’uomo, musa di lupi ed amica dei fiori, balia prima dei nascituri, Ella pose sensualità a fase crescente, tenerezza al calar di spessore e romanticismo alla sua pienezza.

Unico satellite naturale della terra, greca Artemide in fase crescente, Ecate in fase calante e Selene in luna piena, Diana in quel di Roma, quanto Artume per gli Etruschi, la sfera dorata dai mille nomi ed infinite culture, che per rotazione sincrona espone un’unico lato, parrebbe timida nel suo mostrarsi fra mari e crateri, che ne ricamano quei dolci tratti che si osservano, da sotto atmosfera, filando poesia.

 

Luna e poesia

Osservazione poetica che su di ella sa traslar l’animo di chiunque la percepisca confidente preziosa e fidata, sincera, grandiosa, comprensiva e sorella. Simbiosi empatica che Giacomo Leopardi rende magia di scrittura in Alla luna, languida lirica appassionata ed intensa, ove il tema del ricordo vien saggiato d’inchiostro nelle più intime sfumature, nell’essenza dolceamara che strugge meningi risanando un sentire e rimpolpando un palpito, in meravigliosa interazione con quel lato di Madre Natura che canta potenza e dolcezza. Endecasillabi sciolti che dal profondo giungono ed al profondo ricongiungono, in una sorta d’amplesso emozionale con la propria terra e la sua aria, che il fragile poeta respira su quel colle a lui caro, liberando un tormento interiore a fil di rimembranza e rigettando il proprio sguardo in quello lunare, affidandosi e confidandosi con sentimento sopraffino in sublime gratitudine.
 

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!

 

È un balzo a ritroso a bordo poesia a reincarnar la lettura in Saffo, amabile poetessa di Lesbo alla quale l’attribuzione di Tramontata la luna è controversa, ma poco importa, se l’intento è quello d’un bagno nei raffinati versi d’una lirica greca protagonista indiscussa d’eleganza e purezza. Ecco dunque che il tramontar della luna è fuga di giovinezza e solitudine, fiore apparentemente senza miele a cui l’api non poseranno più amore, quell’amor che pulsa, rimembra e dimena l’animo, scuotendolo e devastandolo come folate di vento tra le frasche. Un sensuale e malinconico grido erotico d’un corpo vulcanico ad eruttante sensualità, che scioglie la propria voluttà al notturno riposar della sfera lunare nella costellazione del Toro.
 

Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte ;
anche giovinezza già dilegua ,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l’anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.

 
E se la finezza di penna saffica sconvolge i sensi, ecco allor che l’intingerne punta nel gentil calamaio di Pablo Neruda compie la magia, posando delicatamente a carta il misterioso incantesimo che, in Qui ti amo, avvolge amore e distanza della persona desiderata in un vortice che graffia il petto e boccheggia il respiro in maniera selvaggia, quanto selvaggio è il paesaggio marino della costa cilena. È il poeta cordiale, nobile ed umano a render percepibile il susseguirsi dei giorni e l’umidità dell’anima, la poliedricità della sua fantasia fa di nebbia ballo, di notte canto e di stelle sguardi dell’amata il cui nome sussurrano i pini, fra il chiaror di quella luna che appaga nella nostalgia, ritempra e ristora nella confidenza più intima.
 

Qui ti amo.
Negli oscuri pini si districa il vento.
Brilla la luna sulle acque erranti.
Trascorrono giorni uguali che s’inseguono.
La nebbia si scioglie in figure danzanti.
Un gabbiano d’argento si stacca dal tramonto.
A volte una vela. Alte, alte stelle.
O la croce nera di una nave.
Solo.
A volte albeggio, ed è umida persino la mia anima.
Suona, risuona il mare lontano.
Questo è un porto.
Qui ti amo.
Qui ti amo e invano l’orizzonte ti nasconde.
Ti sto amando anche tra queste fredde cose.
A volte i miei baci vanno su quelle navi gravi,
che corrono per il mare verso dove non giungono.
Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.
I moli sono più tristi quando attracca la sera.
La mia vita s’affatica invano affamata.
Amo ciò che non ho. Tu sei cosi distante.
La mia noia combatte con i lenti crepuscoli.
Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.
La luna fa girare la sua pellicola di sogno.
Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.
E poiché io ti amo, i pini nel vento
vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di filo metallico.

 

Nelle fiabe, dall’Africa al Sudamerica

Rimandano un poco alle favole, le poesie, quell’ovattata e nutriente dimensione ove crescere a suon di favelle ed affetti, morali e metafore, fantasia e realtà. Racconti dal mondo che i libri custodiscono tra effluvi cartacei nell’attesa d’esser letti ed intonati, sciogliendo sguardi fanciulleschi in ascolto ed ammirazione. Son linfa di vita, le favoleggianti letture, filo relazionale privilegiato a suggello delle emozioni più intense. Animali, uomini, piante e fiori, l’universo tutto ha calcato i palchi favolistici ove anche la luna, spesso in amor di sole, è stata protagonista indiscussa.

Portava il desiderio che «la voce del cantastorie in Africa possa non morire mai e che tutti i bambini africani abbiano la possibilità di sperimentare la magia dei libri senza smarrire mai la capacità di arricchire la loro dimora terrena con la magia delle storie», Nelson Mandela, che ne Le mie fiabe africane raccolse in antologia le più belle ed antiche fiabe del proprio continente, impreziosite da originali illustrazioni di sedici artisti africani. «Le mie storie più care», come amava definirle lui, alle quali donar fiato di libertà, possibilità di volo, indipendenza, poiché «una storia è una storia e ognuno di noi la può raccontare secondo la sua immaginazione, il proprio modo di essere il proprio ambiente; e se alla nostra storia succede di mettere le ali e di diventare proprietà di altri, noi non possiamo trattenerla. Un giorno tornerà da noi, arricchita di nuovi dettagli e con una voce nuova».

Parla un linguaggio d’umiltà e comprensione la luna di Mandela ne La luna e la mantide, perla rara di racconto, contenuto nella raccolta, ove si narra d’una mantide dalle ali corte che desiava cavalcar la luna nel pavoneggiante tentativo d’affascinar l’intero mondo animale. È nella descrizione narrativa dei suoi tentativi d’acchiappar la sfera d’argento che ci si adagia volentieri in un tipo di scrittura melodico e danzante, sinuoso passo di penna che prende per mano e conduce alla riflessione con fare pacato ed autentico.

Il sorger della luna a differenti orari è rottura di uova nel paniere per la mantide la qual, nella sua goffaggine bramosa di cattura, or si arrampicava, or attendeva ed or la inseguiva invano fra acacie e baobab, nel susseguirsi di giorni che vedevano la sfera desiata or assottigliarsi or riempirsi or illuminarsi nell’oscurità celeste. Nascosta fra le rocce nel tentativo d’intrappolarla con corda d’erba secca fissata ad un bastoncino, la sorprese nel suo color di zucca, ma in tal tonalità la stessa le sfuggì fra le mani guizzando al cielo. L’accecato bisogno della mantide d’apparir una dea agli occhi dei più, ne oscurò l’animo portandola a far di ramo freccia da conficcar nel cuore del tondo lunare, sempre più veloce, sempre più sfuggente ed allora ecco un nuovo giorno ed un’anima sempre più infervorata scagliarle un sasso collegato ad un djani* e rovinar ella stessa a terra, fra rabbia e livore che, scovata la luna in un lago, la portarono ad affondarvi unghie e rancore con odio estremo, rischiando d’annegare e lanciando, in ultimo tentativo, una pietra nel riflesso lunare, maledicendolo. Schegge di riflesso l’accecarono, mettendola in fuga e tormentandola a tal punto da restituirle coscienza fra dolore e riflessione.

Il voler esser dea le apparve improvvisamente scellerata insensatezza che la portò a pregar la luna, testa umilmente piegata e zampe in avanti, di toglierle i frammenti restituendole la vista, preghiera che la stessa, elevandosi e poi calando a fil di deserto, esaudì senza esitazione. Ma «questo fu tanto tempo fa, quando i grandi branchi vagavano liberi dal mare verso le vaste e aride pianure del popolo Heikum. Ma le discendenti della mantide vivono ancora lì, marroni e verdi come le foglie che cambiano con le stagioni. Ed esse si siedono, con le zampe davanti giunte in preghiera verso la luna, che ha perdonato e ridato la vista alla loro antenata – quella piccola mantide dalle ali corte che voleva diventare una dea».

Chissà quale nuova voce avrebbe questa fiaba se mettesse le ali e volasse fra il popolo indigeno dei Guaraní , massacrato nelle foreste pluviali del Sudamerica, stuprato nel disboscamento delle proprie terre e schiavizzato in riserve dannatamente insufficienti al dignitoso sostenersi. Chissà quale linguaggio narrerebbe del silenzioso genocidio che ai latifondisti pesa sul petto quanto una piuma, la medesima leggerezza con la quale cancellano fratelli di cosmo con vomitevole colpo di spugna. Loro, i figli della foresta che parlano agli alberi, respirano vento, filtrano sole ed acqua in amor di terra, sospirando alla luna speranze e timori.

Narra una loro leggenda che, in un giorno di festa, una giovane di nome Inomu ed il Dio armadillo Tatu Tupa si scambiassero intensi sguardi amorosi, baratto d’occhi bruscamente interrotto dal canto di un’arakua che rivelò ai presenti la gravidanza della fanciulla, costringendo i genitori della stessa a cacciarla dal villaggio per la vergogna subita. In lacrime, Inomu non ebbe che da consolarsi con i figli che ospitava in grembo, i quali le dissero che le avrebbero indicato la strada per raggiungere il Dio Armadillo, a condizion di portar lui fiori in abbondanza da raccogliere durante il tragitto. La stanchezza della donna non tardò a farsi sentire, smise pertanto di raccoglierne, indispettendo i pargoli il cui silenzio fu complice nell’errato giungere di Inomu nella grotta dei giaguari, ove fu divorata all’istante. Sopravvisse la prole gemella, fedele vendicatrice della madre che, in età adulta, sterminò tutti i giaguari ad eccetto d’un esemplare a due teste, che si nascose sotto un tiru, il mantello di Yasi, un’anziana luna che sedeva sulla collina. Quando i gemelli le chiesero se stesse nascondendo il giaguaro, Yasi negò e si beffò di loro facendoli correre più volte in suo aiuto gridando che il giaguaro la stava divorando e scoppiando in una fragorosa risata ogni qualvolta loro giungessero trafelati in suo soccorso finché, stufi, le dissero che sarebbe arrivato un giorno in cui il giaguaro l’avrebbe sbranata davvero. E così fu.

Durante l’eclissi, i Guaranì credono che la luna sia in procinto d’esser divorata. È compito dei primogeniti urlare a squarciagola mentre il resto della tribù si unisce in un gran baccano al fine di spaventare il giaguaro, la cui figura accucciata viene riconosciuta nell’osservazione delle macchie lunari.

È dunque ad occhi rivolti al cielo che l’uomo non smette mai di sognare, sperare, credere, tessendo un sottil pensiero alla luna per filar sogni e desideri, ricamando poesie, narrando fiabe, originando melodie.
 

Se esprimi un desiderio è perché vedi cadere una stella, se vedi cadere una stella è perché stai guardando il cielo e se guardi il cielo è perché credi ancora in qualcosa.
Bob Marley

 

L’estro d’argento: la Luna fra note e dipinti

Si abbracciano e danzano sui pentagrammi le note lunari, fuoriescono in canti e musica tramite voci che ne sappiano ruggire la valenza emotiva, il pathos intrinseco, il sogno recondito. Innamorano spartiti i cantori, scuotono cuori i musichieri, sconvolgono sensi i timbri vocali più profondi ed incazzati, aprendo menti, vibrando corde, empatizzando un sentire che a suon di musica s’eleva d’umana sensorialità.

Bussa irrequieta alla porta a ritmo reggae, la luna di Loredana Bertè, sbatte pugni sulla notte che non dona ristoro e sulle voci sguaiate che feriscono nell’indifferenza, nel silenzio che esplode timpani, nel pianto che il diniego del mare le provoca copioso. Riflette noncuranza su due occhiali da sole fra caviale e champagne, la triste luna, scovando verità sui marciapiedi, ove non serve bussare per essere compresi e dove poter manifestar se stessi, sciogliendosi nell’immagine della dolcezza rassicurante fra le ciglia d’un bambino.

Esplosione canora graffiante, interpretazione artistica ed umana in cui il senso della solitudine prende vita nel suo divenir lacerante sull’anima, scorticante fra le viscere e pesante sul cuore come il piombo di quegli anni. Loredana e la sua luna, le belle ed incomprese pioniere di quel pensiero libero a cui pagar pegno in sofferenza per averlo cantato e sputato sul mondo troppo presto, forse, per aver gettato guanto bianco all’ipocrisia di confini che soffoca l’ego ed appanna l’essere, subordinando l’appagamento alla volontà di plasmarsi a quella massa benpensante troppo intrisa di moralismi per esser degna di volger lo sguardo al cielo.

«Una rockstar è una persona molto sensibile che vive in un mondo tutto suo».
 

 

È un grido di dolore la luna di Lucio Dalla, urlante sulle ingiustizie e le insofferenze che in sette balzi d’argento sfiora i palmi dei disgraziati, degli incompresi, degli emarginati, quasi a voler percepire il valore degli ultimi che ultimi non sono, in un’ottica comprensiva e rispettosa, mai compassionevole, del tormento interiore.

Una luna che parrebbe voler sfilar follia dalle menti, malattia dai corpi, schiavitù dai prigionieri, in una sorta di liberazione che sia catarsi da quella pena d’animo che affligge ed opprime. Scivola fra i dispiaceri del mondo, la luna di Lucio, quasi a voler raccoglier su di sé ogni spasimo, ogni sgomento, ogni amarezza, per restituirne speranza, affidandosi all’innocenza d’un bimbo, a quei palmi rosei che ancor non han compiuto soprusi, che ancor non hanno ferito, ma solo amato, carezzando e sorridendo come si vuol credere arrivi a fare l’uomo di domani, sugli occhi tondi del quale la circonferenza della luna non potrà che collimare e provare a volare, a condizion che quel nero e fondo racchiuso fra palpebre non perda la sua luce.

«Io so che gli angeli sono milioni di milioni e che non li vedi nei cieli ma tra gli uomini sono i più poveri e i più soli, quelli presi dalle reti».
 

 

Canta rabbiosa ed offesa la luna di Vasco Rossi, colei che si dovrebbe far confidente d’una scomoda verità detta fra i denti, un’offesa, uno sfregio. Chiama lo sguardo, il Blasco, pretende il rispetto che il dialogo possiede quando è scambio d’anime e d’occhi, che invece restano inchiodati al muro come il peggior quadro, in un silenzio che uccide ed asfalta ogni rapporto. Un richiamo ad aver fegato nei discorsi seri, al non esser sfuggenti, a quel «dimmelo duro» che conviene e nobilita il senso del conversare sul sottintendere, dell’essere sull’esistere, della verità sputata senza filtri in virtù d’una tendenza alla sincerità senza timori. Un parlarsi franco e tagliente a cui la luna sanerà ferite sogghignando sul gioco tra fortuna e maledetta sfortuna sulla quale, tutto sommato, traslare un vaffanculo al mondo. Graffia di passione parole e canzoni, il ragazzo di Zocca nato dal grembo della Novella, originando musica nelle vene e sciogliendo emozioni negli animi.

«Ho fatto un patto sai. Con le mie emozioni. Le lascio libere. E loro non mi fanno fuori».
 

 

Par dunque intersecar il proprio destino con ogni verso, favella o nota, la luna, stagliandosi nel cielo quasi fosse un fragile e diafano cerchio luminoso fuoriuscito dalle setole più ispirate. Ebbero senza dubbio a porsi naso all’insù artisti e pittori che ne vollero posare a tela l’impareggiabile e soave bellezza. Ne fece goccia sul mare di vivida e ridotta luminosità, Monet. Ne posò movimento ed irrequietezza a cavallo di malinconici gialli aranciati Van Gogh. Ne volle donare contorni nitidi ed imponente riflesso a fil d’acqua Munch. Ne seppe rimarcar candor di falce o bianchissima tondezza Magritte.

 

Anima magnanima di donna

Dipinti, musiche, racconti e poemi han garbatamente delineato l’immagine lunare nel corso dei secoli, rendendola or madre, or sorella, or semplice amica custode delle confidenze più intime, lei, il dolce satellite dal cuore grande che ha cullato ogni uomo, rasserenato ogni pensiero ed agganciato ogni sguardo. Piccola sfera che scombussola mari e solletica orti, argentando volte celesti, dorando superfici marittime ed esplodendo sensuale fra laghi e montagne, colei che i fanciulli aman dipingere in sottili spicchi ai quali accennano sorrisi, occhi benevoli e naso sornione. Protettrice, compagna di gioco, faro per marinai, prezioso ornamento per pozzanghere, madre di stelle ed anima femminile dedita all’ascolto, mai prepotente, mai schiva e mai schiava, rassicurante in ogni sua fase e colpo netto al cuore nel suo massimo splendore. Colei con cui ogni animo giunto sul mondo ha incrociato almeno una volta lo sguardo.

Fortunati coloro il cui profondo sentire ha concesso il privilegio di farne l’amore esplodendosi dentro, inarcando in essa ogni pensiero, ogni inquietudine, nutrendosi e rigenerandosi in quelle carezze a fil di cielo che solo ad ella vien naturale posar eteree sfiorando pelle a suon di brividi.

Verso poetico, personaggio di fiaba, nota di musica e tonalità di pennello, la musa inconsapevole regina delle stelle porta su di sé tutte le storie del mondo, verrebbe da stringerne la mano, se l’avesse, e sarebbe uno stringer vigoroso, estatico, universale, sarebbe forse come stringer la mano d’ogni poeta, cantor di fiabe, musichiere, pittore od artista in genere che ne abbia reso omaggio a cavallo d’arte, ma sarebbe sopratutto come aver il privilegio di sfiorar la mano degli ultimi, degli oltraggiati, degli ignorati, coloro alla cui dignitosa umiltà la luna riserva un posto speciale fra mari e crateri, giù, in profondità, in quel tepore che a nessun altro è possibile percepire e coloro ai quali lei getta lo sguardo più bello, come a nessuno.

Ed all’amato Madiba degli Xhosa pulserebbero battiti a bordo nuvole.

Luna, anima magnanima di donna che ogni donna vorrebbe assorbire, osservandola, respirandola, imparando ad amarsi in equilibrio fra sé ed il fuori da sé, raggiungendo la fase d’amor satollo, quel sublime stato in cui la consapevolezza che possedendo amore lo si può donare, raggiunge la sua completezza massima, colma, satura, traboccante di sentimento a tal punto da faticare a contenerlo.

Fu allora che vissi l’effetto luna piena. L’avevo chiamato così. Mi sentivo come una grande luna che continua a crescere piano piano, notte dopo notte, per arrivare allo stadio completo, luminosissimo, in cui niente manca, niente è di troppo… Nella vita di tutte noi c’è una luna piena. Se soltanto sapessimo riconoscerla per godercela almeno un po’, per sentirci diafane e realizzate.
Marcela Serrano

 
 
 
 

*Simile ad una fionda, un djani è costruito con canne, piume e nervi di animale.

 
 
 
 

Skip to content