Sacsayhuamán, l’enigmatica meraviglia degli Inca
Ammantata di mistero, la monumentale fortezza Sacsayhuamán, dalla peruviana collina Carmenca, ammaliante si staglia sulla città di Cusco, custodendo nelle trame di colossali pietre, memoria della grandiosità e potere del popolo Inca.
Perché le rovine, invece, ci piacciono? Perché testimoniano non una decomposizione, ma una sopravvivenza, non qualcosa che si distrugge, ma che resiste al tempo.
Francesco Alberoni, Valori)
Distesa sul versante ovest della Cordigliera orientale peruviana, la regione di Cusco — attualmente annoverante, oltre all’omonimo capoluogo, tredici province e centosette suddivisioni distrettuali – vanta i siti archeologici di Machu Picchu, Ollantaytambo, Písac e appunto di Sacsayhuamán, dove su un’area appena inferiore ai 3100 ettari, sorge il complesso avente un’altezza di circa 6 metri, per una lunghezza vicina ai 400 e sulla cui costruzione perdurano interrogativi.
Inca, i misteri di un luminoso impero
L’impero Inca coprì un arco temporale esteso dal XIII al XVI secolo, sfoggiando ingegnosità nella suaccennata Cusco — in quechua, idioma ufficiale e termine derivante dalla voce indigena amerindia andina kkechuwa, «predone», letteralmente «ombelico», ergendosi in una fertile conca a 3326 metri — gradatamente occupò gran parte dei territori occidentali del Sud, divenendo il più vasto dominio precolombiano del continente americano, ovviamente imponendo ai popoli soggiogati la propria cultura, la stessa dai ricercatori scandagliata nel tentativo di approfondire le conoscenze riguardo le origini dell’evolute genti andine, chiedendosi se fossero autoctoni o giunti in seguito a migrazioni, enigma tuttavia ancora irrisolto e dibattuto fra numerose e contrastanti teorie, tra queste, la visione a suo tempo proposta dall’autorevole storico statunitense, William Hickling Prescott (1796-1859) — magistrale nella zelante analisi dei documenti e nell’encomiabile capacità di sintesi — ne La conquista del Perù, dettagliata cronaca della gloriosa parabola degli Inca, terminata all’alba del Cinquecento con l’avvento dei conquistadores spagnoli, avventurieri, esploratori e soldati, auspici del colonialismo iberico su vaste aree del Nuovo Mondo dal XV al XVII secolo.
Juan Lepiani (1864-1932), Los trece de la fama, 1902: I conquistadores spagnoli del XVI secolo, alla conquista del Perù sotto la guida di Francisco Pizarro
L’autore, in avvallo a supposizioni indicantine l’insediamento risultato di flussi migratori, nel testo menziona la differenza anatomica fra i crani degli Inca e dei peruviani comuni, partendo dalle precedenti considerazioni in proposito che lo scienziato, scrittore e medico americano Samuel George Morton (1799-1851) trascrisse in Crania americana: or a comparatif view of the skulls of various aboriginal nations of America — opera dal nefasto risvolto d’aver fornito argomenti a favore di stereotipi razziali — fermamente suffragando concezione poligenista e dunque a sostegno d’una molteplicità d’etnie in contrasto al pensiero d’unica primitiva entità propugnato del monogeismo.
Le deduzioni di Morton vennero più tardi confutate, quantunque lasciando inesaudita domanda, in attesa d’appagamento qualora la scienza, ancorché ostacolata dalla difficoltà di reperire il materiale necessario alle analisi, sveli incognita mediante la ricostruzione del DNA degli Inca, dando loro provenienza certa, seppure, quali siano state le radici, indubbia fu l’eccellenza raggiunta da quelle che furono piccole tribù agli albori popolanti le coste, poi stanziando lunghi i fiumi fino a spingersi sulle catene montuose, abilmente imparando ad adattarsi e a modellare opportunamente l’ambiente superando gli impedimenti della pietra e riuscendo nella realizzazione di scanalature e terrapieni sui quali edificarono, svolsero attività agricole, di allevamento, garantendosi un significativo scambio commerciale grazie alla creazione di funzionali vie di comunicazione connettenti i vari villaggi per migliaia di chilometri.
All’innato e laborioso dinamismo degli Inca si aggiunse spiccato senso d’appartenenza e solidarietà, valenti un benessere comune perseguito in fede ad un’equa redistribuzione delle risorse, all’interno di una società in cui la proprietà privata era pressoché inesistente, vigeva il baratto e il supporto all’economia dello Stato limitato al lavoro, peraltro svolto rigorosamente in collaborazione, consentendo così un’espansione che, nel XV secolo, portò la città di Cusco a dominare sull’intera regione, giovando di un sistema imperniato sull’unità di popolo, seppure ovviamente costituito secondo precisa gerarchia con all’apice il sovrano, avente al seguito elité patrizia, sacerdotale ed idolatrato poiché incarnazione della suprema divinità, il Sole.
Storicamente i governatori Inca riconosciuti furono diciotto, ossia, appartenenti all’era pre-imperiale, dal 1150 al 1430: Manco Capác (?-1231), Sinchi Roca (1230-1260), Lloque Yupanqui (1260-1290), Mayta Capác (1290-1320), Capác Yupanqui (1320-ca.1350), Inca Roca (1331-1388), Yáhuar Huácac (1380-1400), Viracocha Inca (1380-1448); imperatori regnanti dal 1430 al 1533: Pachacuti Inca Yupanqui (1418 -1471), Túpac Inca Yupanqui (1441-ca.1493), Huayna Capác (1468-1524), Huáscar Inca (1490-1533) e Atahualpa (1497-1533), Túpac Huallpa (1510-1533); infine Manco Inca Yupanqui o Manco II (1512-1544), Sayri Túpac (1535 circa-1561), Don Diego de Castro Titu Cusi Yupanqui (1529-1571) e Túpac Amaru (1545-1572), i quali tennero le redini dal 1533 al 1572 della resistenza agli spagnoli, nella ribellione di Vilcabamba, così chiamata dal nome della selva, dall’orografia molto articolata, dove il summenzionato Manco II, capostipite della dinastia Inca di Vilcabamba, intraprese azioni di guerra contro gli invasori, aprendo un quarantennio di battaglie che non furono sufficienti a riconquistare l’ambita libertà, definitivamente soffocata con la decapitazione di Túpac Amaru, da quel momento l’Impero Inca giungendo al termine.
Fu durante il regno del predetto Pachacuti Inca Yupanqui, in carica dal 1430 al 1478, a venire posata la prima pietra di Sacsayhuamán, magnificente struttura completata nell’arco di un settantennio, intersecando i governi di Túpac Inca Yupanqui e Huayna Capác, su progetto e direttive — come riportato dallo scrittore peruviano, Garcilaso ‘El Inca’ de la Vega (1539-1616), all’anagrafe Gómez Suárez de Figueroa, erede del conquistatore spagnolo Sebastián de la Vega y Vargas (1507-1559) e della principessa Inca Isabel Chimpo Ocllo (1523-1571) — dei quattro architetti Huallpa Rimachi Inca, Inca Maricanchi, Acahauna Inca e Calla Cunchuy, con una manodopera formata all’incirca da ventimila lavoratori che si susseguirono, dai loro sforzi erigendosi un’imponente roccaforte le cui rovine tutt’oggi a piena testimonianza della straordinarietà di quella che fu il suo remoto splendore.
Le rovine: segni mnemonici della storia.
Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati
Sacsayhuamán: un dono degli dei
Pachacuti Inca Yupanqui aveva ridisegnato l’antica Cusco dandole forma della costellazione del Puma — come ipotizzato in un articolo da Giulio Magli, accademico, astrofisico e archeoastronomo italiano esperto delle relazioni intercorrenti fra la disposizione della volta celeste e le antiche civiltà — creatura sacra al pari d’altri animali ed elementi della natura, nei cieli dipinta secondo la caratteristica osservazione delle regioni nere tra le stelle, anziché formare le figure congiungendo idealmente i corpi celesti, quindi rintracciandone la coda nell’unione dei fiumi Huatanay e Tullumayo, addome e genitali rispettivamente rappresentati dalla centrale piazza Huacaypata e dal Coricancha, «Giardino d’Oro», altrimenti Inti Kancha, «Tempio del Sole», principale santuario dell’Impero Inca ed infine la testa, tratteggiata dalla collina sovrastata, ad un’altitudine di circa 3700 metri, dall’imponente Sacsayhuamán, roccaforte attorniata da tre fila di mura — evocanti nel saettare le fauci del felino — alte dai 3 ai 5 metri per le quali taluni studiosi ne hanno congetturato funzione militare e difensiva, poggiando deduzione sulla battaglia combattutasi in loco contro il condottiero e conquistatore, Francisco Pizarro González (1478-1541), supposizione però respinta da coloro propensi a valutarla luogo di cerimonie in devozione al Sole e tuttora, ogni 24 giugno, nel complesso si svolge l’Inti Raimi, »Festa del Sole», anticamente la più importante solennità di Cusco, poiché data, essendo nelle Ande dell’emisfero australe corrispondente al solstizio d’inverno, dunque quando l’astro tocca la massima distanza dal Pianeta Terra, presso gli Inca — ancora su asserzioni di Garcilaso de la Vega — assumeva assoluta rilevanza e pertanto sanciva l’inizio dell’anno e la genesi mitologica dell’etnia.
Inti Raimi si protraeva nove giorni in un susseguirsi di danze e sacrifici, con i governatori, i curacas, e vassalli preparatisi alla commemorazione adottando, per le quarantotto ore precedenti, dieta frugale a base d’acqua e mais per poi in regali vesti presentarsi assieme a decine di migliaia di concittadini nella piazza, attualmente Plaza de Armas, osservando inaugurare trionfale festività, l’imperatore e famigliari, i quali, accovacciandosi a piedi nudi, accoglievano il sorgere del Sole con le braccia spalancate ed elargendo baci, quindi ad esso brindando con la chica — definizione attribuita a molteplici bevande lievemente alcoliche provenienti dall’America Latina, solitamente ricavato dalla fermentazione non distillata di cereali, specialmente mais, frutta oppure di pianta Manioca (Manihot esculenta) — versata in un calice d’oro riservato ai parenti, mentre in una giara d’egual prezioso metallo forgiata il nettare serbato al sovrano e ad avvenuta consacrazione, la folla riunendosi al Tempio Coricancha, in estatica adorazione della venerata sfera di fuoco.
Plaza de Armas: a sinistra la Cattedrale; al centro la fontana con la statua di,Pachacuti Inca Yupanqui; a destra Iglesia de la Compañia de Jesus
Una volta i curacas lasciate personali donazioni provenienti dai loro poderi, il fiume umano confluiva una seconda volta nella piazza per accendere un nuovo fuoco e procedere al sacrifico del bestiame, la cui carne suddivisa fra tutti i sudditi, in accompagnamento alla chica, rituale che si protraeva fino alla fine dei giorni ad esso dedicati e il cui ultimo manifestarsi al cospetto dell’Imperatore fu nel 1535, trentasette anni in seguito, nel 1572 l’Inti Raimi sottostando al divieto imposto da Don Francisco Álvarez de Toledo (1516-1582), viceré del Perù spagnolo che la proibì in quanto festa pagana offensiva nei confronti del cattolicesimo, ciò nonostante i suoi affezionati sostenitori continuando a organizzarla in maniera clandestina.
Poco meno di 380 anni dopo, precisamente nel 1944, Faustino Espinoza Navarro (1905-2000), scrittore e attore peruviano nativo di Cusco, oltre che fondatore dell’Accademia della lingua quechua della cittadina, s’appassionò a tal punto alla storia dell’Inti Raimi, leggendone fra le pagine di Garcilaso de la Vega, da prefiggersi di ripristinarla e tanto si adoperò, che proposito divenne immediatamente realtà e da allora, seppur mitigata in spiritualità rispetto al passato, rituale si ripete.
Attenuazione non ha invece subìto il magnetismo di Sacsayhuamán, continuando a distanza di quasi sei secoli dai natali, a meravigliare per l’opulenza dell’intera architettura, la mole e il tonnellaggio dei massi, porfido e andesite con meticolosa cura intagliati, levigati ed intrecciati in un legame più potente dell’inesorabile trascorrere del tempo, malauguratamente però, inerme all’egoismo ed ingratitudine dei numerosi saccheggi compiuti già dai conquistadores, prelevando pietre da destinare ad abitazioni e chiese, dunque deturpandone l’originale sontuosità effusa da anfiteatro, altari, sculture zoomorfe, templi, santuario rivolto al culto dell’acqua, essendo su più piani, da ampie scalinate e balconi, osservatorio astronomico, almeno tre torri, granai, una densa rete di gallerie sotterranee e gli accessi Acahuana Punco, Huiracocha Punco e Tiu Punco, costituita da mastodontici megaliti, secondo mitologia, posati da semidivinità giganti, tra i protagonisti de Le tradizioni religiose amerindie. Aztechi, Maya e Inca, scritto dall’antropologo, etnografo, e archeologo italiano, classe 1947, Marco Polia, egli appunto riportando che «i gentili avevano sollevato e tagliato quelle moli immense. Dissero che anche al Cuzco il tempio-fortezza di Saqsaywamán, coi suoi blocchi immani, era opera degli auki, gli antenati semidivini che facevano muovere le rocce frustandole, come si riunisce il bestiame».
Già lo stesso Garcilaso de la Vega, nei Comentarios Reales de los Incas, capolavoro letterario del periodo coloniale, in prima edizione originale nel 1609, si chiedeva: «In che modo possiamo spiegare il fatto che gli antichi peruviani sapessero [lavorare] (…) tali enormi blocchi di pietra, più simili invero a pezzi di montagna che non a mattoni da costruzione — e che ci siano riusciti, come ho già accennato, senza l’utilizzo di alcuna macchina o strumento? Un enigma simile non può essere facilmente risolto se non ammettendo un qualche ricorso alla magia».
Comprensibile stupore considerando che gli Inca, pur conoscendo la ruota, anche in virtù della geografia del territorio, perfettamente modellato a necessità di spostamenti, non ne concepivano uso da trasporto e se erano abili ad estrarre e plasmare oro, argento, piombo, lo stagno e il rame da cui ricavavano il bronzo, ignoravano il ferro, altrettanto non possedevano animali da tiro, neppure i cavalli, incontrati col sopraggiungere degli spagnoli ed ulteriore oscurità perciò, permane su come abbiano levigato, sollevato, dislocato ed incassato con simil precisione blocchi d’anche duecento tonnellate e qualora fosse scientificamente avvalorata l’unica sensata congettura d’uno scorrimento su tronchi d’albero, comportando l’impiego di cordame ed estenuanti manovre, non risolverebbe quesiti inerenti la manifattura, per il qual processo e completamento di ciascun macigno, ricerca presuppone siano stati necessari mesi, forse anni, e la dotazione di pietre ben più resistenti delle costituenti il monumento e a proposito, non manca narrazione secondo cui lavorazione sarebbe avvenuta mediante l’applicazione di una particolare specie di pianta: numerose leggende tramandano che i nativi poterono innalzare strutture colossali in virtù di due doni ricevuti dagli dei e nel 1983, lo psichiatra esperto di parapsicologia, giornalista e autore televisivo, Fernando Jiménez del Oso (1941-2005), in ambito del documentario, incentrato sul patrimonio archeologico precolombiano, El Otro Perù, da egli stesso ideato e trasmesso dall’emittente spagnola RTVE, intervistò il sacerdote cusqueño, Jorge A. Lira, parroco della comunità di Marangani, nonché lessicografo, insigne folklorista andino e studioso di piante medicinali autoctone, il quale indicò celestiale dono le foglie di coca — data la facoltà, se masticate, di ottundere lo stimolo di fame e sete, oltre ad aumentare la resistenza alla fatica anche in condizioni di alimentazione ridotta o insufficiente — mentre divino omaggio, capace di ammorbidire i macigni, un commisto alchemico di sostanze vegetali con elemento principale, l’arbusto di Jotcha. Il curato aveva personalmente condotto vari esperimenti, in ultimo ottenendo un amalgama in grado di rendere la pietra malleabile al pari dell’argilla, ma non riuscì ad attuare il processo inverso e così dichiarando l’esperienza un fallimento, benché avesse comunque aperto ad una simile possibilità, tuttavia rimasta sospesa poiché settantaduenne, nel 1984 perì portando con sé la formula della miscela e l’esatta specie della pianta cardine, individuata da taluni nell’Ephedra o nella Cantua buxifolia, sempreverde dai rosacei fiori penduli, tradizionalmente sacro agli Inca e detto “albero magico peruviano”.
Destinata pertanto a restare fra i tanti grandi arcani aleggianti sulla storia di antiche civiltà, Sacsayhuamán s’eleva spendente delle sue serpeggianti muraglia fra esse sfoggiando i resti dei summenzionati torrioni Sallacmarca, Pacarmarca e Muyucmarca, in ordine, occhio sinistro, destro e mente del Puma che, ancora attenendosi agli scritti di Garcilaso de la Vega, con un diametro di 22 metri ed un’altezza di 12, fungeva da deposito d’acqua, ma, presentando livelli nel sottosuolo identici ai sopraelevati, per l’olandese Reiner Tom Zuidema (1927-2016), professore di Antropologia, Studi Latinoamericani e Caraibici all’University of Illinois di Urbana-Champaign, stimato a merito del significativo contributo sull’organizzazione politico-sociale Inca, poteva raffigurare il ponte tra l’ade e il mondo terreno, senza escludere, a motivo d’una conformazione di tre pareti circolari e concentriche unite da cunicoli radiali, poste all’interno d’un quadrilatero, fosse la «quadratura del cerchio nell’Antico Perù» e metafora dell’impero Inca, in quechua, Tahuantinsuyo, «Quattro Regioni Unite». Alla torre inoltre, si lega la fama del nobile guerriero Cahuide, nato agli inizi del XVI secolo e deceduto nel 1536, quando Sacsayhuamán, occupato dagli spagnoli, fu teatro della cruenta battaglia per la riconquista guidata da Manco II e del temerario combattente, lo scrittore spagnolo Pedro Pizarro (ca.1515-ca.1583), conquistador al servizio del cugino Francisco Pizarro González, nel trascrivere, da testimone oculare, il resoconto della battaglia nelle cronache Relación del Descubrimiento y Conquista de los Reinos del Perú, terminate nel 1571, ne dipinse gesta riferendo d’un impavido capitano «orejón», appellativo coniato dagli spagnoli poiché per accedere allo status regale di Inca, oltre all’essenziale diritto di nascita, era necessario acquisire, dai saggi «amautas», conoscenze in molteplici discipline ed abilità bellatorie, sopravvivendo a un mese d’estenuanti e cruente prove di lotta, duelli d’armi, d’umile quotidianità, con digiuni e notti all’addiaccio, così gettando in animo semi d’empatia nei confronti dei meno abbienti e al termine delle quattro settimane guadagnare la foratura dei lobi delle orecchie inserendovi ornamenti, nel corso del tempo sempre più ampi e pesanti: «…C’era un comandante orejón, tanto valoroso ch’è certo si potrebbe scrivere di lui quanto è stato detto di alcuni Romani. Questo orejón aveva un’adarga [tipico scudo di cuoio dei berberi nordafricani, n.d.A.] sul braccio, una spada, una clava nella mano con lo scudo e un morione sul capo. Erano armi degli spagnoli morti sulle strade e tante ancora ne possedevano gli indios. L’orejón si muoveva come un leone, camminava da un lato all’altro della torre più alta, ostacolando gli spagnoli che cercavano di assaltarla, mentre uccidevano gli indios più arrendevoli. Quando i suoi uomini lo avvisavano di qualche spagnolo in procinto di salire, con spada e adarga, egli si lanciava come un leone. Hernando Pizarro allora ordinò ai soldati di non ucciderlo, ma di catturarlo vivo…»
Cahuide però, prendendo consapevolezza d’imminente sconfitta, donando indelebile ricordo d’indomito coraggio e fedeltà alla propria terra, pur di non cedere a prigionia, «abbandonò le armi, si coprì testa e volto con un mantello e si gettò» nel vuoto, lasciando addolorato per la mancata cattura — riferisce ancora lo spagnolo — Hernando Pizarro (1502-1578), luogotenente del fratello Francisco.
Sacsayhuamán — sulla quale tanto è stato scritto nella speranza di svelarne i segreti da essere le vie di Cusco pullulanti di testi redatti da opinabili mistici, sedicenti in possesso della verità assoluta — trovando in Muyucmarca le parole di Platone, venne persino interpretata alla stregua d’una ricostruzione del capoluogo della leggendaria Atlantide; qualsivoglia sia verità, da scovare o nella moltitudine di supposizioni susseguitesi nei secoli, innegabile ne è la fulgente ed armonica maestosità, eterna eredità d’umana magnificenza.
Esistono nelle città, nei paesi, nelle campagne, rovine semplici, cascine abbandonate, un muro senza aperture, uno spiazzo solitario con una fabbrica dismessa, una vecchia ciminiera diroccata, una strada che non finisce, chiese, mausolei, tumuli lasciati al loro destino, attraversati dal tempo. Luoghi che apparentemente non dicono nulla di più della loro solitudine e del loro abbandono e in cui il motivo delle loro condizioni non si legge più tra le pieghe dell’architettura. Le ferite, se mai ci sono state, non mostrano la loro origine. Troviamo queste rovine dappertutto nel mondo, sparse tra le nuove costruzioni, o isolate e lontane. Quello che colpisce è la tranquillità, la pacatezza. Non servono più a nulla, non possono essere sfruttate, manipolate. Possono solo essere cancellate da una ruspa. Questa fragilità è la loro forza. Ci affascinano perché ci somigliano. Somigliano al nostro essere caduchi, alla nostra mortalità, alla sete dei nostri attimi di felicità.
Roberto Peregalli, I luoghi e la polvere
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