Bert Trautmann, il nazista che divenne eroe del nemico
All’età di 14 anni, Bert Trautmann divenne membro della Gioventù Hitleriana, dove il principio guida prevedeva preparazione fisica e ideologica, quindi l’indottrinamento al razzismo e al darwinismo sociale. A 17 fece domanda per far parte della potente forza aerea Luftwaffe e dopo appena due anni dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale, sul petto vantava già 5 Croci di Ferro di Prima Classe, riconoscimento riservato a coloro che si erano distinti per il «coraggio davanti al nemico».
Un vero combattente nazista e per di più ne incarnava anche l’ideale fisico: alto, biondo, occhi azzurri, era l’immagine stessa della razza ariana, ma il destino aveva in serbo per lui qualcosa d’inimmaginabile. Sarebbe diventato un eroe, non in patria, ma in una delle nazioni nemiche e non avrebbe neanche dovuto tradire la propria bandiera o liberare prigionieri.
Bernd Carl ‘Bert’ Trautmann, nacque il 22 ottobre 1923 a Walle, uno dei quattro distretti compresi nella parte occidentale di Brema. Era il secondogenito di Karl e Frieda (Elster), una madre dolce e premurosa che ebbe su di una forte influenza. Non che il padre mancasse d’affetto, come la moglie anch’egli era una persona affabile e gradevole, fra i compari di bevute era una figura popolare; avevano il loro ritrovo in una locanda locale, con tanto di tavolo riservato attorno al quale si radunavano per una birra ogni domenica mattina. Per quanto possibile alla famiglia non aveva mai fatto nulla, vedeva nel portare i soldi a casa la sua missione.
Sul finire degli anni ’20 però, l’uomo si vide più che dimezzare lo stipendio a causa della dilagante desolazione finanziaria che aveva ridotto il marco a carta da macero. Nonostante la buona lena fu quindi costretto a vendere la casa e trasferirsi in affitto con tutta la famiglia al seguito nella vicina Gröpelingen, una cittadina che aveva appena vissuto una forte trasformazione urbana. Fattorie, residenze estive e ristoranti erano stati soppiantati da edifici per i lavoratori legati alle attività marittime, molti dei quali erano immigrati dell’Europa dell’Est e dell’Italia.
Karl trovò lavoro come elettricista e poi venne assunto presso l’industria chimica Kali Chemie, faceva il doppio turno, passava dal magazzino al porto, dove l’azienda aveva una banchina privata per caricare sulle navi i propri prodotti. In seguito fu promosso anche responsabile di carico, ma i materiali che maneggiava erano tutt’altro che salubri. A fine giornata si ritrovava coperto da uno spesso strato di varie polveri corrosive, una patina che lo costringeva a una lunga e paziente pulizia, prima di gettarsi sotto l’acqua delle docce comuni e poi far rientro a casa.
La tenera età negava a Berni, come era chiamato in famiglia, la piena comprensione del sacrificio di suo padre, ma avvertiva comunque gioia nel vederlo fiero del proprio lavoro, un orgoglio che si era fatto ancor più intenso da quando la promozione gli aveva aperto le cabine degli ufficiali per organizzare il carico. Dato che il doppio turno impediva a Karl di rientrare per pranzo, ogni giorno si precipitava da lui con quanto aveva preparato Frieda ed alla fine era da tutti conosciuto e salutato, anche dai comandanti, a volte gli lasciavano pure qualche pfenning, ma la sua più alta speranza era che prima o poi qualcuno lo facesse salire a bordo.
Le ristrettezze economiche non impedirono a Bert e al fratello Karl Heinz di avere un’infanzia comunque felice e questo proprio grazie a i genitori, seppero donar loro disciplina e al contempo amore e libertà. Da bambino Trautmann amava trascorrere le giornate all’aperto, era attratto dagli sport, in particolare lo appassionavano pallamano e völkerball. Nondimeno era desideroso di apprendere, tanto che una volta si offrì volontariamente per seguire le lezioni di inglese che la scuola aveva organizzato al di fuori dell’orario canonico. Sorprese persino il padre, ma il bullo di turno, un certo Rainer, rischiò di mandare a monte i suoi piani.
Dopo averlo sfidato a singolar tenzone per 3 giorni di fila senza aver sortito effetto, Rainer ottenne il suo mezzogiorno di fuoco: la mattina del quarto giorno avrebbero raggiunto la scuola in anticipo e si sarebbero affrontati in duello. E così andò, ma non appena Bert oltrepassò la soglia di classe, fu raggiunto da un improvviso pugno in faccia, non ebbe neppure il tempo di capire da dove fosse partito. Il povero Rainer, ignaro del carattere poco votato alla mitezza di Bert, tentò una mossa d’astuzia, ma pochi attimi dopo si trovò a terra con il mento tagliato, il naso come una zampogna e gli occhi di un panda.
I coniugi Trautmann furono invitati a presentarsi dal preside, questi raccontò loro la vicenda e soprattutto rese nota la sua di decisione: Bert doveva essere e espulso e presto spedito in istituto di correzione. Un fulmine a ciel sereno. Sapevano del temperamento del figlio ed anche se nei momenti all’aperto era capitato che lo avessero visto litigare con i coetanei, si trattava pur sempre di episodi sporadici e del tutto normali, senza contare che all’interno delle mura casalinghe si era sempre adoperato senza far capricci di alcun genere. Insomma, l’immagine che avevano di lui era quella di un bimbo amabile, con il solo sport a frullargli per la testa. A dar loro conferma di ciò che pensavano, arrivò un compagno di classe di Bert, il quale confessò alla maestra e poi al preside come erano andate realmente le cose.
Quel giorno, quando il piccolo Trautmann tornò da scuola non riuscì ad evitare una lavata di testa da parte della madre, aveva comunque pestato il malcapitato Rainer, ma trovò conforto nel padre, il quale, lontano dalle orecchie della moglie, gli sussurrò una frase che non avrebbe mai dimenticato: «Ben fatto, figlio mio. Non farti mai intimidire da nessuno».
Quando compì 8 anni, poté finalmente iscriversi alla Tura Brema, una società polisportiva che con una spesa irrisoria consentiva di avvicinarsi e gareggiare in una ampia varietà di discipline: atletica leggera, scacchi, völkerball, giochi di carte, pallamano, nuoto e quell’anno aveva fatto il suo ingresso anche il calcio. Bert scelse proprio quest’ultimo per fare la sua prima esperienza ed esordì come centrocampista esterno. Il padre lo portava spesso alle partite e nel tragitto di ritorno passavano il tempo a discutere di giocatori, tattiche, errori del portiere, dell’arbitro; due veri e propri tecnici come si conviene alla maggior parte dei tifosi.
Bert Trautmann e l’avvento del nazismo
Quando nel ’33 Hitler salì al potere, i cambiamenti ai quali era sottoposta la Germania si riflettevano nella vita quotidiana dei Trautmann. Karl cominciò a notare uno snellimento dell’iter burocratico, una maggior organizzazione, migliorie anche da un punto di vista sanitario, non era da disprezzare neanche la disposizione secondo cui ogni lavoratore doveva unirsi a un club e coltivare un hobby. I salari cominciarono ad esser pagati in base alla produttività e per lui non era certo un male, anche se poi fino a 1/4 dello stipendio finiva in ‘donazione’ al partito nazista. Dal canto suo, la moglie Frieda non aveva più visto scontri durante i cortei, per le strade si sentiva più sicura e avvertiva un generale seppur cauto ottimismo, ma soprattutto al calare della disoccupazione vedeva corrispondere un aumento delle fabbriche, delle reti stradali e ferroviarie. Niente lasciava immaginare quello poi sarebbe accaduto.
Quello stesso anno Bert entrò a far parte della Deutsches Jungvolk, la sezione voluta dal Führer nel 1928 e riservata alla fascia di età fra i 10 e i 14 anni, momento in cui gli adolescenti facevano il loro ingresso nella Gioventù Hitleriana, rimanendovi fino al 18° compleanno. Ai ragazzi veniva insegnato come diventare ‘buoni cittadini’ attraverso un addestramento militare, paramilitare, veniva impartita loro l’ideologia nazista. Erano la generazione che avrebbe fatto «tremare il mondo».
I genitori, soprattutto la madre non erano affatto convinti che fosse un bene, ma spinti da propaganda nazista e preghiere del figlio, lo accontentarono e gli comprarono la divisa. Il ragazzo viveva con estrema serenità quei giorni, poteva dedicarsi alle tante discipline sportive che lo vedevano eccellere, ricevere medaglie, lodi, ottenne perfino un certificato lo riconosceva ‘eccellenza atletica’. Neanche la rigida disciplina o il cameratismo smorzavano il suo entusiasmo, prendeva tutto come un’esperienza utile per un domani. Neanche le pseudo-scientifiche dottrine razziali alle quali era sottoposto lo turbavano, in fondo non poteva neppure comprenderle davvero e neanche prevedere a cosa avrebbero portato, tantomeno avrebbe potuto presagire che i campi d’addestramento dove stava crescendo, avrebbero fornito al Reich milioni di soldati.
Quando Bert Trautmann concluse la scuola, la Germania aveva già invaso la Renania e stabilito un patto di alleanza con Mussolini. Un anno dopo avrebbe portato a compimento l’Anschluss, l’annessione dell’Austria, occupato i Sudeti e inquadrato la Polonia come prossimo obiettivo, rivendicando la ‘città libera’ di Danzica. L’obiettivo era quello di collegare la Prussia Orientale al resto della Germania, ma l’Inghilterra si oppose e strinse alleanza con i polacchi. A quel punto Hitler guardò all’Unione Sovietica e con loro firmò un patto di non aggressione che non avrebbe rispettato e il 1° settembre 1939 invase la Polonia. Aveva inizio la Seconda Guerra Mondiale.
La felicità per le prodezze del figlio erano andate chetandosi in Karl e il motivo erano i crescenti dubbi sulle reali finalità della Gioventù Hitleriana, con quell’indottrinamento all’unica fede per il Führer, le teorie sul Lebensraum e la glorificazione della morte che Bert andava continuamente ripetendo. Quando però ebbe la piena consapevolezza che tutto aveva come unico scopo quello di preparare i ragazzi alla guerra, era ormai troppo tardi. Davanti a sé aveva un foglio di arruolamento volontario che se avesse firmato avrebbe permesso a Bert di far domanda la Luftwaffe. Il fatto è che sarebbe comunque partito, lo imponeva la legge, ma in quel modo avrebbe almeno potuto evitar l’arruolamento nella fanteria diventando carne da cannone.
A 17 anni Bert Trautmann presentò la sua domanda con la speranza di poter fare il pilota, ma l’esercito tedesco gli riservò un posto come operatore radio e fu inviato a Schwerin, nel nord-est della Germania, sulle rive dell’omonimo lago non distante dal Mar Baltico. Qui cominciò l’addestramento, tuttavia avvertì ben presto una certa apatia verso quei sistemi d’intercettazione e crittografie varie, così dietro suggerimento del suo comandante si fece trasferire nel quartiere berlinese di Spandau, fra i paracadutisti del V. Fliegerkorps, il 5° battaglione della Luftwaffe.
Dall’aprile del ’41 prestò servizio nella Polonia occupata, finché ad ottobre non si unì alla 35° Divisione fanteria a Dnepropetrovsk, in ambito dell’Operazione Barbarossa. Benché i sovietici avessero interrotto i rifornimenti, per un certo periodo di tempo riuscirono a resistere riportando vittorie e conquiste territoriali, ma la fame e la dura controffensiva alla fine ebbero la meglio e costrinsero le truppe alla ritirata. Le perdite furono oltremodo abbondanti, tuttavia, per quanto dimostrato sul fronte orientale, il caporale Bert Trautmann venne decorato con 5 medaglie, compresa una Croce di Ferro.
Negli anni successivi ne arrivarono altre 4 e all’alba del D-Day, dopo esser stato inviato al 1° Reggimento Paracadutisti della 7ª Divisione Aerea e aver guadagnato la promozione a sergente, fu trasferito in Normandia per formare nuove reclute, dopodiché inviato ad Arnhem ed infine Kleve, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, dove stavano avanzando le armate anglo-canadesi. La città venne conquistata, Trautmann fu tra i pochi sopravvissuti della sua unità e quel punto, decise di mollare armi e guerra e far ritorno a Brema. C’era un pericolo dietro quella scelta, i soldati trovati privi di un formale congedo, altro non erano se non disertori ed in quanto tali venivano fucilati all’istante. Da quel momento avrebbe quindi dovuto guardarsi forse più dai nazisti che dagli alleati.
Cominciò il suo cammino sul viale del ritorno, ma pochi giorni di viaggio e fu beccato da due soldati americani all’interno di un fienile; con le canne dei fucili puntate alla schiena, lo costrinsero ad uscire con le mani in alto ed una volta giunti all’esterno, Bert Trautmann scattò verso il traguardo dove ad attenderlo c’era la medaglia più ambita. Morto per morto corse via provando a bruciare più energia di quanta gliene avevano lasciato i tanti anni di guerra. Li aveva sorpresi, era ormai fuori tiro, davanti a sé una staccionata, la scavalcò e: «Ciao Fritz, ti andrebbe una tazza di tè?». Era atterrato davanti a un soldato inglese. Già in passato era caduto prigioniero del nemico, lo avevano catturato i sovietici, i francesi ed era sempre riuscito a scappare, ma stavolta, forse stanco di tutto, neanche tentò di fuggire.
Dopo un primo periodo di detenzione in Belgio, viene trasferito in Inghilterra: a seguito di un lungo interrogatorio viene classificato come prigioniero di categoria C, ovvero un fervente nazista. Nei mesi successivi, dopo vari trasferimenti in carceri inglesi, i giudici lo declassarono alla categoria B, cadde quindi l’accusa nei suoi confronti di aver supportato l’ideologia nazista.
Come avvenne per altri soldati tedeschi, cambiò diversi campi di prigionia, finché non venne destinato a quello di Ashton-in-Makerfield, vicino a Wigan, nel Lancaster. La sua mente fu sottoposta ad un addottrinamento diametralmente opposto a quello subìto durante gli anni nella Gioventù Hitleriana e quando i campi vennero smantellati, gli venne offerta la possibilità di tornare in patria. Rifiutò e rimase all’ombra della corona lavorando in una fattoria a Milnthorpe e poi con l’unità artificieri di Huyton, a pochi chilometri da Manchester.
Lo sport, come riscatto di una vita
Per dare libero sfogo alla sua passione per lo sport, gioca a calcio ogni volta che ne ha occasione. Come da ragazzino è a centrocampo, ma anziché saltare l’uomo e andare al cross, preferisce il ruolo di mediano e come ogni mediano che si rispetti, le dà e le prende. Durante una partita però la botta presa è forte, gli consigliano di uscire, Trautmann però non ne vuole sapere di lasciare il campo e dopo alcuni minuti arriva il compromesso: continua a giocare, ma lo fa tra i pali e non li abbandonerà più.
E’ spericolato nelle uscite, si spinge oltre l’area di rigore e come eredità di discipline come la pallamano, innesca il contropiede con veloci e lunghi lanci effettuati con le mani.
Cominciarono a circolare voci insistenti sulle abilità di questo anonimo portiere ed i primi a crederci furono quelli del St. Helens Town, una squadra di calcio dilettantistica che al tempo militava nel campionato Liverpool County Football Combination. Partita dopo partita il pubblico era sempre più numeroso, la gente accorreva e si accalcava pur di veder quel gigante e nei suoi confronti crebbe rapidamente anche l’affetto dei tifosi. Nel 1949 Trautmann venne però trasferito a Bristol, a 280km di solitudine più a sud e a sollevargli il morale neanche l’incontro con alcuni connazionali conosciuti nei campi di prigionia. Lo invitarono a unirsi a loro giocando con la maglia del Bristol City, ma Trautmann non desiderava altro che tornare a Huyton e quel desiderio fu esaudito per intercessione di Jack Friar, il sottosegretario del suo club.
Nel frattempo, quel nome di battesimo, Bernd, troppo difficile da pronunciare e troppo simile al suono di burned, in terra inglese divenne ufficialmente Bert e il tal modo cominciò ad apparire nei taccuini dei manager delle più blasonate società di calcio. Al termine del campionato 49-50, il St. Helens Town aveva conquistato la promozione nella seconda divisione del Lancashire Combination League ed a Trautmann stavano interessandosi Bolton, Burnley, Everton, ma dopo un’amichevole giocata contro il Manchester City, i dirigenti ne rimasero così incantati che gli presentarono immediatamente un contratto.
Friar l’aveva esortato a non prendere decisioni e apporre firme senza in sua assenza, ma la raccomandazione venne disattesa e quando rientrò, l’uomo dai giorni intrisi del sangue e dell’orrore nazista della Seconda Guerra Mondiale, era ormai un calciatore della prima divisione inglese. Tuttavia, con quel passato più che mai vivo nella memoria, Trautmann si sarebbe presto confrontato.
A Manchester viveva un’importante e ben radicata comunità ebraica e come se non fosse abbastanza, in città era presente anche una nutrita rappresentanza di esuli tedeschi sfuggiti al nazismo. Appena la notizia dell’ingaggio ebbe voce, i tifosi e più di mezza Inghilterra fin ad allora ignara della storia di Bert Trautmann, reagirono furiosamente invadendo giornali e club con lettere di protesta, i venditori di biglietti minacciarono di sabotare la squadra e altrettanto fecero molti reduci promettendo di boicottare la città. Per Bert Trautmann si trovò a dover scalare una montagna, una colossale prova da superare che per altro includeva sostituire agli occhi dei sostenitori, il beniamino Frank Victor Swift, colui che la porta del City l’aveva difesa praticamente senza tregua dal 1933 al 1950, fregiandosi inoltre di una FA Cup, la principale coppa nazionale.
Per tentare di calmare gli animi intervenne anche il rabbino Alexander Altmann, il quale si fece protagonista di un appello lanciato attraverso una lettera aperta inviata al Manchester Evening: «Nonostante le terribili crudeltà che abbiamo subìto per mano dei tedeschi, non cercheremmo di punire un singolo tedesco estraneo a questi crimini, per puro odio. Se questo calciatore è un bravo ragazzo, direi che non c’è alcun problema. Ogni caso deve essere giudicato in base al merito».
Il messaggio non sortì alcuna distensione, ma a dar sollievo a Bert fu la vicinanza dei compagni di squadra, in particolare il capitano Eric Westwood, anch’egli reduce ma per opposta causa, lo accolse con una frase che il portiere avrebbe conservato con affetto e profonda emozione: «Non c’è guerra in questo spogliatoio, ti diamo il benvenuto come dev’esser dato a ogni membro dello staff, sentiti a casa e buona fortuna».
Dopo le prime partite di campionato osservate dalla panchina, fece il suo esordio a Londra, contro il Fulham e sotto lo sguardo di gran parte della stampa sportiva britannica, durante i 90 minuti caddero sul campo come pesanti gocce d’una pioggia torrenziale gli insulti provenienti da entrambe le tifoserie.
Al triplice fischio i padroni di casa avevano vinto 1-0, ma con una serie di miracoli Bert Trautmann aveva letteralmente evitato la goleada e dagli spalti, inaspettata salì al cielo un’ovazione seguita dalle congratulazioni dei giocatori avversari.
Il cammino verso la storia
Per i Citizens il campionato si concluse con la retrocessione, ma la stagione successiva li vede nuovamente in prima divisione e il portiere tedesco, ormai venerato dai propri tifosi, torna ad essere al centro dell’attenzione. E’ una figura popolare, raccoglie applausi anche quando dietro la sua porta ci sono i tifosi avversari.
Lui si gira, sorride, ringrazia, poi torna a meravigliare per il senso della posizione, la forza esplosiva, la capacità di aprire il gioco quasi fosse un portiere volante.
Il miglior portiere contro cui abbia mai giocato.
Bobby Charlton
In seconda divisione il City non scese più fino al 1963 ed anche se nei successivi campionati non andarono oltre il 4 posto in classifica, non mancarono importanti vittorie, sopratutto in FA Cup. Nel 1955, dopo aver battuto gli acerrimi rivali del Manchester United, Luton e Sunderland raggiunsero la finale contro il Newcastle.
La partita cominciò nel peggiore dei modi, dopo appena 1 minuto erano già sotto di una rete segnata da Jackie Milburn, ma allo scadere del primo tempo Robert Johnstone donarono nuove speranze riportando le due squadre in parità. Purtroppo per loro si trattò solo di gioia effimera. Tornati in campo, le speranze del City di alzare la terza coppa nazionale della propria storia, sfumarono in 6 minuti: Robert Mitchel al 52°e George Hannah al 59°, regalarono la vittoria al Newcastle.
Il 5 maggio 1956, Bert Trautmann e compagni erano però nuovamente in finale. Lungo il cammino eliminarono squadre come Everton, Liverpool, Tottenham e adesso, a separarli dalla coppa, c’era il favorito Birmingham City.
Davanti ai 100mila di Wembley, il portiere tedesco si presentò due giorni dopo esser stato nominato Calciatore dell’anno e gli Dei del calcio, almeno inizialmente sembrarono desiderosi di sospingere i giocatori del City. La partita prese infatti una piega esattamente opposta alla precedente finale. Dopo soli 3 minuti Joe Hayes segnò la rete del vantaggio e come da copione il Birmingham agguantò il pareggio con un gol di Noel Kinsey, segnato al 15°. Le due squadre raggiunsero quindi gli spogliatoi in perfetta parità. La ripresa vide i Citizens subire il gioco degli avversari, senza riuscire a crear occasioni pericolose per più della metà del secondo tempo, ma al 62° Bobby Johnstone riportò il City in vantaggio e due minuti arrivò anche la Jack Dyson.
La finale sembrava ormai aver scelto il suo vincitore, ma al 73°, l’attaccante del Birmingham Peter Murphy, dopo aver superato l’ultimo difensore Dave Ewing s’involò verso l’area di rigore.
Trautmann venne chiamato a compiere un intervento che avrebbe potuto rivelarsi decisivo.
Esce, corre, si tuffa sul pallone e l’urto è di una violenza inaudita.
Il ginocchio destro di un incolpevole Murphy finì per colpire testa e collo del portiere tedesco e questi cadde a terra privo di conoscenza.
Il massaggiatore si precipitò in campo con i mezzi di allora: spugna, acqua e sali.
Alcuni minuti dopo però Trautmann era di nuovo in piedi, con il terzino Roy Little pronto a inventarsi portiere.
Al tempo non c’erano sostituzioni, se Bert avesse abbandonato il campo avrebbe lasciato la sua squadra in 10. Non ci pensò due volte e rimase fra i pali, nonostante avesse la vista annebbiata, un dolore lancinante e la testa che non riusciva a stare su da sola.
La reggeva con una mano.
Ogni qual volta il pallone arrivava dalle sue parti i compagni cercavano di rilanciarla quanto più lontano possibile. Questo non lo esonerò dall’effettuare parate, fece almeno un paio di miracoli su Eddy Brown e ancora su Peter Murphy. E non gli evitò neanche un secondo scontro fortuito con un proprio difensore, urto che lo gettò nuovamente a terra privo di sensi. Ma continuò. Volava cadeva stringeva i denti si rialzava e si reggeva la testa. Finché non arrivò il sospirato triplice fischio dell’arbitro che aggiudicava la FA Cup al Manchester City. Gli applausi e cori dello stadio esplosero tutti per Bert Trautmann.
Ci sono stati solo due portieri di livello mondiale.
Uno era Lev Yashin; l’altro era il ragazzo tedesco che giocava a Manchester
Lev Yashin
Sottoposto ad esame radiologico, le lastre evidenziarono la frattura di una vertebra e lo slogamento di altre quattro, la terza delle quali si era incredibilmente incuneata sulla seconda, impedendo ulteriori danni che avrebbero messo seriamente a repentaglio la vita di Trautmann. I medici gli consigliarono di smettere con il calcio, ma neanche a dirlo lui proseguì, chiudendo la carriera a 40 anni. Fece il suo saluto ad uno sport che gli aveva dato tanto, che gli aveva offerto una seconda possibilità, il 15 aprile 1964, davanti a 60mila tifosi, con una partita di addio alla quale presero parte giocatori come Denis Law, Derek Kevan, Stanley Matthews, Bobby Charlton.
Prima di abbandonare lo stadio, si lasciò in un breve commento: «Ho avuto tanti bei momenti nella mia vita e ho avuto il privilegio di condividere il campo con giocatori fantastici. Ho l’onore di vivere in un paese dove vivono grandi persone. […] Spero di aver contribuito, anche se in piccola parte, alla gioia e alla comprensione del nostro mondo»
Bert Trautmann si spense il 19 luglio 2013 a causa di un attacco cardiaco.
Mi sono arruolato volontario a 17 anni. Sono stato un paracadutista. Ho combattuto tre anni in Russia. Poi in Francia dopo il D-Day e sulle Ardenne. Sono stato catturato nel marzo 1945 e portato in Inghilterra come prigioniero di guerra. È lì, che ha avuto inizio la mia educazione. Ho imparato a conoscere l’umanità, la tolleranza e il perdono.
Bert Trautmann
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