Triora, l’incantevole borgo ligure, Paese delle Streghe
Bisogna salire fin quassù per vedere il cuore austero e scabro del paese ligure.
Riccardo Bacchelli
Borgo medioevale della provincia di Imperia e nel novero dei «più belli d’Italia», Triora, incastonato nella lussureggiante Valle Argentina, o Valargentina — ad 800 metri sul livello del mare — si staglia tra le Alpi Liguri di Ponente in sé custodendo ed offrendo echi di storia, tra meraviglie architettoniche, selvaggi panorami naturalistici, deliziose tradizioni enogastronomiche ed arcane vicissitudini per cui è anche noto come il Paese delle Streghe.
Plausibilmente fondata dai Ligures — popolo dell’Italia antica occupante la zona alpina occidentale e assoggettato all’Impero romano nel secondo secolo a.C. — Triora ha etimologia di radice latina, nome derivando da «tria ora», letteralmente le «tre bocche», che nell’emblema araldico appartengono a Cerbero — mitologica creatura greca dalle sembianze d’un mostruoso mastino a tripla testa, posta a guardia dell’Ade — raffigurato in un grigio brillante su sfondo azzurro, ornamenti esterni al campo essendo un ramo d’alloro e di quercia legati dal nastro tricolore, nella parte sottostante, mentre un’argentea corona turrita sovrasta il simbolico scudo.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.
(Divina Commedia, Inferno, Canto VI, 13-18)
Ulteriori interpretazioni dello stemma ipotizzano le tre bocche a metafora dei fiumi Argentina, Nervia e Tanaro — con sorgente nel territorio — o semplicemente inerenti ai tre prodotti — grano, viti e castagne – sui quali poggiava la florida attività economica di decenni addietro.
Numerosi sono i luoghi di culto a Triora e fra tutti s’eleva la Collegiata di Nostra Maria Assunta, chiesa parrocchiale che si pensa sia stata edificata sopra un preesistente tempio pagano e della quale documentazione certa — deducibile da disegni custoditi al suo interno — ne attesta presenza al diciottesimo secolo, quand’era suddivisa in tre navate, prima che — fra il 1770 e il 1775 — direttive dell’architetto Andrea Notari non ne modificarono struttura in navata unica.
Nel 1837 la facciata fu restaurata con lastre di pietra nera del posto, secondo uno stile neoclassico rimpiazzante le antecedenti forme romanico-gotiche, pur restando l’originario portale con arco a sesto acuto, costituito da blocchi di marmo bianco e d’ardesia che s’accostano in armonica divergenza cromatica.
A decorare gli interni dell’edificio religioso sono marmoree acquasantiere, tavole, dipinti, sculture, arredi, nonché due crocifissi lignei, l’uno quattrocentesco e l’altro — posto sull’altare maggiore — inopinabile testimonianza di maestria dello scultore genovese Anton Maria Maragliano (1664-1739), titolare d’una celebre bottega nel capoluogo ligure, dal cui laboratorio uscirono molteplici opere sacre, attualmente disseminate non soltanto entro i confini regionali, ma anche in musei nazionali ed all’estero.
Sul retro dell’abside, nel 1914 il parroco Sebastiano Lombardi venerò la Santissima Vergine con la realizzazione de La grotta di Lourdes, nella nicchia apponendo relativa statua e il complesso subendo più restaurazioni, con dedita partecipazione d’artigiani trioresi.
Fra i rinomati quadri adornanti le mura della Collegiata di Nostra Maria Assunta, spicca La Pietà d’autore ignoto e — nei pressi del battistero — il Battesimo di Cristo, risalente al 1397 e firmato dal pittore senese Taddeo di Bartolo (1362-1422), colui del quale l’illustre Giorgio Vasari (1511-1574) accennò nel trattato Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori — in prima edizione originale nel 1550 — il cui valore assume particolare significato per notizie riguardanti artisti rinascimentali e loro opere, spesso scomparse, dall’eclettico storico aretino raggruppate per donare al pubblico un volume maggiormente completo rispetto al libro Elogi degli uomini illustri, precedentemente redatto dal medico, biografo, museologo e vescovo cattolico Paolo Giovio (1483-1552).
Cospicuo d’opere, altresì il vicino Oratorio di San Giovanni Battista, racchiudente svariate tele pittoriche — soprattutto di Luca Cambiaso (1527-1585) e Lorenzo Gastaldi (1625-1690), detto ‘il Triora’ — in aggiunta a pale e statue di pregio, come la raffigurante il Santo, scolpita per abile e certosina mano del sopraccitato Maragliano.
Del quindicesimo secolo è la Chiesa di San Bernardino, pittoresca perla in pietra — internamente arricchita d’affreschi, fra gli altri, dei piemontesi Giovanni Baleison (ca. 1463- 1500) e Giovanni Canavesio (1450-1500) — protetta dalla regale e folta chioma d’un mastodontico ippocastano e incantevolmente attorniata da un manto erboso, in affaccio sulla rigogliosa vallata.
Datato fra il dodicesimo e il tredicesimo secolo, il Castello, costruito totalmente nella roccia e sul punto più alto della cittadina, posizione strategica altamente appetibile a livello difensivo, ragione per cui il 4 marzo 1261 — dopo vani tentativi d’usurparlo con la forza — il militare e politico Guglielmo Boccanegra l’acquistò dai conti di Ventimiglia su incarico della Repubblica di Genova, della quale Triora divenne IX Podesteria — con allargato dominio giurisdizionale sui territori in capo a La Superba — fra le due tessendosi un legame di fedeltà, protezione e alleanza bellica, durato centinaia d’anni nonostante saltuarie dispute e riconciliazioni.
Al sorgere di nuovi e migliori bastioni, maggiormente efficienti nell’affrontare battaglie con armi moderne, il fortilizio — in tempi lontani denominato Castrum Vetus Trioriae — cadde in graduale disuso, oggigiorno versando in rovina, benché al visitarne i ruderi, si percepisca nell’immediato la gloriosa imponenza che lo distinse e non sia difficile immaginar i fieri avamposti schierati a strenua difesa sulle mura, delle quali rimangono in piedi cinta e parziale torrione, nondimeno traspiranti rievocativo e permeante fascino.
All’epoca del suo pieno ed efficiente splendore, il maniero era gestito secondo economia curtense, tutt’intorno sviluppandosi una sorta d’acropoli — completamente autonoma — dal fervente scambio commerciale attuato con gli abitanti di Triora posti al di fuori della curtis, per mezzo di un sistema d’amministrazione organizzato sul rapporto tra signori del latifondo e coltivatori diretti, prassi alto-medievale scaturente dall’intenzione degli agricoltori di sottrarsi ai gravosi oneri, altrimenti imposti loro dallo Stato.
Ad accogliere spoglie dei trioresi casualmente ritrovate durante alcuni scavi, un vecchio Fortino, fino al 1850 adibito a dogana con il Piemonte e trentotto anni dopo trasformato in camposanto a seguito di smantellamento della Chiesa dei Santi Pietro e Marziano, della quale un’architrave in pietra nera, con il trigramma del Cristo, è stata posizionata nel cimitero di un borgo, la cui suggestiva atmosfera fu poeticamente dipinta fra le pagine di Italia per Terra e per Mare, dello scrittore, drammaturgo, critico teatrale, giornalista e traduttore bolognese, Riccardo Bacchelli (1891-1985) — vissuto a Triora circa un sessantennio — parole d’amore per il luogo, dall’artista Piero Filipetto in parte colte ed impresse su tavola lignea:
Omonimo dell’influente e longeva casata che lo fece erigere nel quattordicesimo secolo è invece Palazzo Stella, sede d’affari e dimora — nella quale soggiornarono autorevoli personalità e in parte devastata dagli inevitabili effetti del Secondo conflitto mondiale — che nel 1953 venne per tre quarti comprata dalle Suore di Santa Marta, congregazione ecclesiale femminile di diritto pontificio, creata nel 1878 dall’arcivescovo di Genova Tommaso Reggio (1818-1901), con l’obiettivo di fornire misericordiosa assistenza ai più bisognosi e prodigarsi nell’educazione scolastica cristiana.
Attualmente proprietà del Comune, lo stabile ospita il Museo Regionale Etnografico e della Stregoneria, contatto con le remote usanze agresti, attraverso la visione di fotogrammi, utensili, capi d’abbigliamento, giochi e non mancando interessante apporto naturalistico, proposto mediante l’esposizione d’esemplari animali, come ad esempio un bellissimo gufo reale.
Tramite visita delle sotterranee carceri ci s’inoltra a ritroso nell’orrore d’efferate sevizie, con ambientazioni fedelmente ricostruite non soltanto nelle scene, ma anche nella disponibilità di copie degli originali documenti del più grande processo per stregoneria compiutosi in Italia: nel 1587, dopo un abbondante biennio caratterizzato da grave mancanza di derrate alimentari per prolungata siccità, fra i paesani — essendo in quegli anni frequente l’abitudine d’attribuire a sortilegi e malocchi colpe di qualsivoglia genere — era maturato dubbio che la disastrosa aridità fosse un castigo divino, in risposta a rituali eretici.
Preoccupato del crescente malessere, a ottobre di quell’anno il Parlamento locale stanziò la consistente somma di cinquecento scudi e assegnò al podestà Stefano Carrega — sostenuto nell’incarico dal Consiglio degli Anziani, i cui membri prevalentemente proprietari terrieri — il gravoso compito d’avviare istantaneo procedimento penale contro presunte fattucchiere che sarebbero state ben presto incolpate della devastante carestia, barbaramente indagate, frettolosamente incarcerate e vergognosamente martoriate, in quanto ingiustamente tacciate d’esser possedute dal Demonio, in verità senza reali fondamenti, il giudizio basandosi esclusivamente su errate convinzioni, inficiate da ingannevoli preconcetti e deleterie superstizioni.
Su delega di Carrega, della sanguinaria “caccia alle streghe” s’occuparono direttamente il vicario inquisitore di Albenga — Girolamo del Pozzo — e quello di Genova, secondo usanza convocando i trioresi ad una Santa Messa nella Collegiata, appositamente celebrata per spronarne anonime segnalazioni e dapprincipio supposta responsabilità ricadendo su coloro che vivevano in periferia: all’esterno della muraglia v’era infatti una contrada, la Cabotina, popolata da prostitute e persone segnatamente disagiate, dunque agilmente stigmatizzabili, tuttavia diffidenza e sete di capri espiatori crebbero talmente a dismisura, da levare accuse non soltanto tra le frange sociali più emarginate e che non sarebbero riuscite a difendersi, bensì coinvolgendo moltitudini di dame consuete a pratiche occulte ed estensione del popolo da cui trarre “colpevoli”, costituendo parallelo tentativo clericale di liberare definitivamente Triora dall’ancora radicato paganesimo.
Abitazioni private furono sequestrate e tramutate a prigioni dove intraprendere logoranti interrogatori e crudeli torture, per estorcere con forza confessioni — spesso inveritiere, poiché rilasciate sotto supplizio — e nuovi nominativi da investigare, ad agghiacciante violenza non reggendo il cuore della sessantenne Isotta Stella, alla cui triste morte seguì quella d’altra donna, ella drammaticamente contrapponendo suicidio gettandosi dalla finestra, all’incontenibile e soffocante terrore di soprusi.
Intuendo quanto la situazione fosse deragliata e a rappresentanza delle casate più influenti, nel gennaio 1588 il Consiglio degli Anziani — tornato provvisoriamente sui propri passi — segnalò per iscritto alle autorità genovesi la mancanza di comprovati indizi che giustificassero il trattener dietro le sbarre signore dell’alta aristocrazia, al sacerdote Girolamo del Pozzo venendo quindi chieste precise delucidazioni dall’episcopo di Albenga, Luca Fieschi, ma nulla potendosi di fronte a ingranaggi della giustizia che s’erano messi in moto senza alcun freno e trasversalmente ai vari ceti sociali, con derivata difficoltà di gestione del caso, la cui risonanza suscitò nette discordanze di pareri e pullular d’opinioni incredibilmente oscillanti.
Perfino il Parlamento triorese — da cui tutto era partito — in clamorosa retromarcia chiese a quello di Genova una revisione dei processi, in vista della quale venne inviato in loco il reverendo inquisitore Alberto Drago, che nulla riuscì a risolvere nel subbuglio sociale e giuridico venutosi a creare, fatto di delicati rapporti fra Stato, Chiesa e patriziato, nell’ardua e irrealizzabile impresa di non leder gli interessi di nessuno.
Allungandosi tempistiche ecclesiastiche e in cerca di pronti chiarimenti sull’esorbitante e selvaggio espandersi degli atti persecutori, intervenne il Doge, erroneamente convinto di celermente sbrogliar matassa con la nomina del commissario speciale Giulio De Scribani, all’opposto destinando ad infausta sorte ulteriori malcapitate, per ferrea azione dell’insensibile e disumano pretore il quale — giunto a Triora l’8 giugno e trasferite le detenute nella Torre Grimaldina — lasciò dietro di sé una nuova scia, estesa alle zone limitrofe, d’inaudita brutalità, finché nell’agosto del 1589, dopo sfiancanti mesi di trattative e altri funzionari entrati in gioco, le rimanenti condanne vennero annullate dal Sant’Uffizio.
Seppure si narri che le ultime sventurate sopravvissute siano state scarcerate, non esiste certezza, all’opposto riecheggiando nell’eternità la comprovata tenacia di Franchetta Borrelli, intraprendente nobildonna da molti stimata per facoltà intellettuali e potere politico esercitato, tuttavia fin dalla gioventù mira di svariate maldicenze, verosimilmente sgorganti da sterile invidia nei confronti della di lei avvenenza e dell’appartener ad una delle famiglie più facoltose di Triora.
Evidentemente noncurante delle dicerie rivoltele, ella perseverò nel coltivar passioni e interessi, fra i quali il recarsi nei boschi alla ricerca di erbe mediche, attitudine che le sarebbe costata una miriade di segnalazioni, pilotate a dovere dagli interessati: in quel periodo, fra i trioresi sussisteva una consolidata visione matriarcale, in fede a cui la figura femminile non soltanto era estremamente considerata nella società a livello generale, ma qualora possedesse doti di “guaritrice”, diveniva un riferimento essenziale, per chiunque — indipendentemente da sesso ed estrazione di provenienza — s’affidasse a popolarmente riconosciuta sapienza per malanni, aiuto al parto o semplici consigli di benessere, da Borrelli recandosi addirittura giovani dottori in cerca d’insegnamenti che perfezionassero il loro bagaglio di sapere.
Sfaldare un simile retaggio, avrebbe permesso — a Chiesa e medici uomini in accrescimento — di non avere interferenze nell’affermar, rispettivamente, religiosità e rigore scientifico, di conseguenza l’instillare nei popolani la convinzione che guarigioni empiriche e stregoneria s’equivalessero, avrebbe dato man forte a sgombrare il campo da scomode avversarie, nella brama di riuscire ad assoggettarne volontà e gesta.
Nefasto incontro tra Franchetta Borrelli e Giulio De Scribani, si compì al di lei sessantacinquesimo anno d’età ed egli tentò in ogni modo di carpirle informazioni, indi umiliandola — violandone nudità e privandola di capigliatura — dette ordine di sottoporla a tortura del cavalletto, inumana pratica a cui, indomita, resistette quindici ore, sfoderando inimmaginabile e commovente tempra, nonché stringendo dignità nell’impedire agli addolorati occhi di lasciarsi sfuggire lacrima, neppure quando le posero brace a contatto con la pianta dei piedi; il perfido e vile vessatore — senz’ombra di clemenza ininterrottamente istigando l’aguzzino di serrare le corde — procurandole slogatura di giunture — nel vedersi inerte al di lei fronteggiare le angherie riservatele ed alla straziante pena corporale ignobilmente inflittale.
In seguito a rilascio, fuga dal domicilio dov’era stata obbligata a risiedere e seconda cattura, maltrattamenti si ripeterono — con supplementari e oltraggianti perquisizioni delle parti intime, all’assurda ricerca di “marchio del diavolo” — per un lasso orario superiore, ma sovrumana sopportazione di Franchetta Borrelli convincendo il De Scribani a verbalizzare l’avvenuta espiazione delle proprie colpe, con ufficiale sentenza assolutoria — del magistrato Caracciolo — per inattualità di addizionali torture, eccezionalmente subite.
Visitare oggigiorno la minuscola caverna della Cabotina — soprannominata Casa delle Streghe e per antonomasia all’epoca reputata ritrovo per alleanze col Maligno, utilizzato per miscelar magici filtri in grossi calderoni — significa posar pensiero a tutte le donne che sull’onda di ciechi principi vennero imperdonabilmente violate e offese in animo, mente e carne, nell’aria aleggiandone l’ingegnoso e nostalgico spirito, amaramente incompreso.
Dirigendosi verso il borgo medievale, appare agli occhi — discretamente conservatasi — la Fontana Soprana, dalle cui lastre in pietra zampilla acqua del canale discendente, mentre a ripartire i due livelli della città è il decaduto e spopolato quartiere Sambughea, fulcro di tramandate leggende, tra cui credenza che muratura dei diversi ingressi, sia stata effettuata al diffondersi della peste, per impedir definitivamente possibilità d’uscita ai contagiati.
Il centro, nell’intersecarsi di carruggi e piazze, racconta e meraviglia donando scorci pari a dipinti, da riflessi, mura e porte, vividi e variopinti, aditi tra cui ingresso all’antico antico forno panificatore, culla del pan rúndu de Triöa — tondeggiante pagnotta dalla fattura di mistero ammantata — e benché autorevole rappresentante della tradizione gastronomica locale, accompagnato da una moltitudine d’altre delizie, tra cui, miele, funghi, i sügeli — composto di acqua, farina, olio, sale e lavorato similmente a gnocchi, sovente apprezzato assieme a formaggio d’alpeggio o ricotta naturalmente fermentata — e non ultimo, il tipico dolce d’arabe origini, noto al nome di Cubaita, croccante costituito da mandorle, noci e nocciole, racchiuso fra fra sottili cialde.
Totale affaccio sul passato, consente il Museo Civico e diffuso, con sezioni didattiche, la succitata etnostorica, mostre inerenti artigianato, arte, fauna, archeologia, narrativa ed oltre, invero rilevante, la sala in onorabile e riconoscente ricordo della benefattrice sarda — traslocatasi a Triora nel 1901 — Margherita Brassetti (1877-1927), fondatrice di congregazioni femminili per le quali si spese con indelebile abnegazione.
Percorrendo le contrade, monumenti, santuari, ponti, fortezze e portali in ardesia, adornano e colmano esperienza di tal tratto d’entroterra ligure, ogni pertugio conducendo nel denso trascorso di una Triora che schiude pagine di storie, come un fiore al sentirsi lambito dal solare calore, lasciandosi dolcemente percepire in architetture, panorami, colori, profumi e arcane narrazioni sospese nel tempo.
A Triora, antico borgo forte di uno fra cotesti interni di Liguria, il contrasto si svela in tragedia. E’ l’antica e nuova tragedia ed elegia dei luoghi di Liguria che si vengono spopolando. E mentre l’ardita e possente mole del paese, erto sul taglio della rupe precipite, parla indimenticabilmente dell’antico amore, le rovine del tempo e dell’abbandono si confondono con quelle recenti che v’ha prodotta la rappresaglia di guerra; e tutte hanno un carattere di nobile e irremissibile melanconia.
Riccardo Bacchelli, Italia per Terra e per Mare
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