Romania: viaggio tra mito e leggenda

 
 
Ricca di storia e di cultura, la Romania è una terra affascinante e misteriosa, la cui meraviglia, che un tempo fu di Mihai Eminescu, Emil Cioran, Lucian Blaga o George Enescu, è stata cantata in poesia come in pittura.

Al confine tra mondo orientale e occidentale, alla magia di castelli, fortezze e monasteri si uniscono gioielli della natura come i panorami sconfinati dei Monti Bucegi, la riserva delle Gole di Turda, il paradiso faunistico del Delta del Danubio ed ancora la foresta di latifoglie nei pressi di Zarnesti, dove tra l’altro, è possibile far visita a Libearty, il cosiddetto santuario degli orsi in cui oltre 80 esemplari, provenienti da zoo e strutture simili, dopo anni di prigionia hanno finalmente ritrovato pace e libertà.

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Monti Bucegi

 

Castello dei Corvino, Hunedoara, Romania https://terzopianeta.info
Castello dei Corvino, Hunedoara

 

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Parco Nazionale dei Monti Apuseni

 

La Romania però, ha in sé un altro grande tesoro, la regione può infatti vantare una tradizione fra le più varie e maggiormente conservate dell’intera Europa, un patrimonio denso di musica e balli celebrati con le caratteristiche vesti in eventi come il Pellegrinaggio della Domenica di Pentecoste a Szekely, la ‘fiera delle ragazze’ sul monte Găina, il Târgul Cireşelor di Sighisoara, l’Hora de la Prislop, festival di cui le cronache hanno parlato per la prima volta nel 1738 ed ancora la festa pastorale di Sambra, la parata Junii Brașoveni, suggestiva reminiscenza del passato che annualmente, da tempo immemore, si tiene nel quartiere Șcheii di Brasov.

A contraddistinguere le usanze romene sono anche le numerose leggende, antichi racconti che parlano di una folta popolazione di esseri magici: mostri, fate e titani, che fra incantesimi e maledizioni, ha resistito al tempo e da Bucovina a Oltenia, da Banat a Moldova, vivono tutt’ora nel folklore e nelle ricorrenze religiose.

 

I Giganti della Romania

Presenti fra le pagine della Bibbia, nella mitologia greca, norrena, finanche nella narrazione dei nativi americani, anche la Romania ha i suoi giganti. Fra le creature più amate e conosciute sono chiamati a seconda delle zone, Jidovi, Tartari, Blajini, oppure Novaci, colossi in grado di sradicare un albero senza durare fatica alcuna. Abitavano nelle caverne montane, aggirandosi per i boschi dove vivevano in armonia con gli animali ed anche con gli umani, verso i quali erano particolarmente amorevoli, li aiutavano e li consideravano come loro eredi sulla Terra.

Alla forza corrispondeva un animo docile e gentile, anche se a quanto pare, c’è stato almeno un episodio in cui uno di loro, preso dall’invidia, s’infuriò con un suo simile. E’ stato quando due giganti, decisero di costruirsi una città ciascuno, il primo scelse di edificarla su una montagna, mentre il secondo dove oggi sorge Deva, ma quando quest’ultimo si accorse di quanto fosse bella quella del compare, accecato dall’ira impugnò un aratro e lo scagliò con tale veemenza che ne distrusse la cittadella tagliando persino la vetta di roccia dov’era situata.

Il massiccio in questione è Muntele Retezat, ovvero la ‘montagna recisa’, custode del fiabesco Parco Nazionale, un vero monumento naturale che si estende su una superficie di 55mila ettari, popolato di camosci, marmotte, linci ed ha ben 58 laghi glaciali, scorci alpini strabilianti che d’estate si riempiono di piante e fiori dai mille colori.

Alcuni racconti dicono che Burebista (82 a.C – 44 a.C.), grande sovrano della Dacia, terra che grossomodo corrispondeva all’area delle odierne Romania e Moldavia, abbia con i giganti fatto un accordo. Chiese loro di proteggere con la propria vita i tesori del regno, tenendoli nascosti nelle grotte più profonde e recondite dei Carpazi. Non pochi sono coloro che sostengono sia realtà la storia secondo cui, fra il 1939 e il 1951, dove un tempo sorgeva Argedava, importante città della Dacia, un gruppo di archeologi avrebbe trovato non meno di 80 scheletri umanoidi che misuravano circa 4 o 5 metri.

 

I Şolomonar

Capaci con la magia di scatenare ogni fenomeno meteorologico e signori delle montagne e dei laghi, sono i Şolomonar. Nascono con un distintivo segno sul volto o sul corpo e da bambini, vengono rapiti e portati nella segreta Solomonărie, una scuola sotterranea situata in Transilvania e qui, per sette anni, senza mai rivedere la luce, vendono iniziati alle arti magiche.

Un lungo e severo addestramento all’inizio del quale viene dato loro un libro, sarà la fonte d’ogni potere e da lui non si separeranno mai. In esso infatti raccoglieranno tutte le conoscenze acquisite, compresi tutti gli idiomi e i diversi linguaggi degli animali, ma solo dopo aver superato dure prove potranno ritenersi un Şolomonar. Stregoni che a cavallo di terribili draghi, sorvolano i cieli portando con sé un legno per chiamare i venti e un’ascia per creare tempeste.

Da coloro che affermano di averli visti, sono stati descritti come individui alti, con occhi sporgenti e dai capelli rossi, sempre avvolti in lunghe vesti bianche. Sebbene siano considerati benevoli, allo stesso tempo sono temuti e rispettati. Hanno la facoltà di decidere le sorti delle coltivazioni ad esempio, ed a volte, per mettere alla prova l’animo della gente, si fingono mendicanti e chiedono un offerta, qualora la persona avvicinata si riveli avara e maleducata, grandine e tempeste si abbatteranno sui raccolti, mentre a fronte di gentilezza e generosità, le acque dei fiumi e i campi riceveranno doni.

Molti interrogativi e ipotesi sono state fatte sulla loro identità, secondo alcuni sarebbero i discendenti dei Kapnobatai (coloro che viaggiano sulle nuvole/fumo), sommi sacerdoti della Dacia, mentre altri collegano i Şolomonar alla figura di Re Salomone, simbolo di saggezza, conoscenza e con il potere di controllare i venti.

 

Zburatorul, il malefico principe della notte

Fatale intreccio di desiderio e amore irraggiungibile, la storia di Zburatorul, ‘colui che vola’, è quella di un misterioso quanto attraente essere, che durante le notti di luna piena tormenta il sonno di giovani donne, nubili o unitesi in matrimonio da poco tempo.

Viene descritto come una stella cadente che scende sulla Terra e una volta raggiunta, e individuata la vittima, assume le sembianze di un uomo dalla bellezza inimmaginabile, oppure quelle di colui che la ragazza ama e attraversando i vetri della finestra, si unisce a lei, in un sogno di passione talmente intensa che si fa indimenticabile, reale.

Il cuore delle donne che hanno incontrato Zburatorul strabocca d’amore così ardente che si fa ossessione. Esse si trovano a vagare in stato semi-cosciente, come ipnotizzate, rincorrendo un sentimento al quale non possono, non riescono a rinunciare, andando inevitabilmente incontro ai peggiori giudizi. Prese per pazze, il destino di coloro che avevano la fede al dito era maggiormente crudele, accusate di tradimento venivano emarginate dalla famiglia e dal resto del villaggio.

In loro, la vita spirava via tanto lentamente quanto inesorabilmente, ad attenderle c’era la morte, ammenoché, in loro aiuto non fossero intervenute zingare dai capelli rossi. Poche elette a conoscenza di parole e preghiere che rivolte al quel principe della notte, riuscivano a convincerlo ad abbandonare l’anima delle donne e a non fare più ritorno. Nel rituale però, non dovevano mancare particolari infusi d’erbe.

La giovane in preda a tale trasporto, doveva essere lavata con dell’acqua in cui la maga aveva immerso piante come la mandragora, l’aglio selvatico, il levistico, creando una pozione che una volta utilizzata, doveva poi essere sparsa ad un’incrocio di 4 strade nell’arco di 3 giorni. Solo allora la ragazza avrebbe potuto dirsi salva, anche se il ricordo, l’avrebbe perseguitata per il resto della vita.

 

Le Ielele, le ammalianti e terribili fate

Durante le notti, altre creature si aggirano per la Romania e sono le Ielele, fate che avvolte in abiti leggeri e trasparenti, danzano voluttuose facendo risuonare i campanelli che tengono legati alle caviglie, mentre il suono angelico del loro canto riecheggia sotto la tiepida luce delle stelle.

Esseri soprannaturali e dai poteri magici, possono apparire sia come meravigliose entità evanescenti, sia come donne di imparabile bellezza e seduzione. Come Driadi Naiadi e Ninfe, alle quali sono spesso associate, le Ielele abitano i boschi, le sorgenti, il sottosuolo, solitamente amano stare in posti isolati, prati, passi di montagna, vicino ai laghi.

Descriverne l’essenza in maniera esaustiva è pressoché impossibile, alcuni affermano siano anime maledette che non riescono a trovar pace nell’oltretomba, altri sostengono la tesi secondo cui sono le figlie di Alessandro Magno ed altri ancora vedono in loro le sacerdotesse della Dacia. Divergenze che persistono anche sul significato del nome. Molti pensano infatti che possa derivare dalla parola ‘ele’, femminile di ‘loro’, ma il filologo, linguista e folklorista Lazăr Șăineanu (1859 -1934) asseriva che l’origine era invece da ricercare nel termine cumano ‘yel’, ossia ‘vento’. Una conclusione alla quale giunse anche un altro filologo e grande studioso della cultura rumena, Bogdan Petriceicu Hasdeu (1838 -1907), secondo cui però alla fonte c’era la parola sanscrita ‘vel’.
 
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Una cosa è certa, sebbene venga riconosciuto loro uno spirito benevolo, mai provocarle o mancar loro di rispetto. Nei luoghi in cui di notte si riuniscono, a terra restano cerchi infuocati, tutto è carbonizzato, non un filo d’erba che faccia capolino e trascorso il dovuto tempo, questa ricresce di colore rosso, oppure verde scuro. Anche gli animali sanno di non doversene cibare, così come evitano persino di passarci sopra, chiunque lo faccia, diventa di loro proprietà.
Inoltre, ne conoscerà l’ira funesta chi le deride o le osserva di nascosto, quando di notte si ritrovano. Il loro canto è ipnotico e rende mute le persone che lo ascoltano, un potere che le fate uniscono a quello della danza Hora, con la quale fanno cadere le vittime in uno stato di vorticosa follia per poi farle sparire per sempre.

Un doppio aspetto delle Ielele che lascia queste enigmatiche fate in un limbo fra il bene e il male, ma in realtà, sono incarnazione della natura: miracolosa e allo stesso tempo terribile, soprattutto se non la si rispetta.

Per assecondare le Ielele, sono stati dedicati particolari momenti dell’anno, giorni in cui tutto si deve fermare, anche le attività agricole, altrimenti sia il bestiame, sia le persone, quand’anche avessero la fortuna di sfuggire alla morte, nulla potranno contro improvvise paralisi o gravi deformazioni, mentre violente tempeste di grandine si abbatteranno sui paesi e i fiumi esonderanno.

Uno di questi giorni è la prima domenica dopo 7 settimane dalla Pasqua, quando alla celebrazione della Pentecoste ortodossa è portato a compimento un altro importante cerimoniale, che perciò assicuri al villaggio benessere e da esso vengano allontanati spiriti maligni: il Căluş, ancestrale e acrobatico ballo che sembra tragga origine da un rito iniziatico di antichi guerrieri.

I danzatori, i căluşari, giovani esclusivamente di sesso maschile, sono scelti da un anziano, a volte viene arruolato anche il ‘Nebun’, il pazzo, e una volta formato il gruppo, depongono giuramento di massima segretezza, da quel momento nulla di ciò che accade all’interno può essere raccontato. Benché vi siano più ipotesi, la parola căluş, in romeno significa ‘bavaglio’.

Con indosso le vesti tradizionali, danzano, saltano fanno rintoccare le campane legate alle caviglie ed il bastone impugnato è adesso a terra, poi rivolto al cielo, mentre cantano, emettendo suoni a tratti gutturali, pronunciando parole che i linguisti dicono siano estratte da testi esoterici, ed ogni spiro malvagio scompare.

 

Mioriţa, storia di una poetica ballata

Fra le ballate del folklore romeno, ve n’è forse una che più d’ogni altra è rappresentativa e si tratta di ‘Mioriţa’ (Pecorella), poema epico tanto semplice quanto profondo e poetico, le cui radici affondano in tempi perduti.
 
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E’ narrato l’incontro di tre pastori che si trovano fra le montagne mentre fanno pascolare il proprio gregge: un valacco, un transilvanico e un moldavo. Quest’ultimo aveva un numero superiore di pecore, possedeva cavalli e i cani più attenti, cosicché negli altri due esplose l’invidia e decisero quindi di escogitare un piano per ucciderlo e rubargli tutte le sue ricchezze. Mioriţa carpì la conversazione e riferì tutto al suo padrone, pregandolo di prendere provvedimenti immediati ed evitare che gli fosse fatto del male. Egli però non sembrò affatto intimorito ed anzi, si mostrò pronto ad accettare gli eventi e così, non fece altro che rivelare i suoi ultimi desideri alla fedele bestiola.

Innanzitutto, per non dar loro dolore, le chiese di non parlare alle altre pecore della sua imminente morte, le suggerì di raccontare che la sua scomparsa era dovuta all’incontro con una bellissima principessa, con la quale si era poi sposato. L’unione l’avrebbero celebrata le montagne, con il sole e la luna testimoni, gli invitati i sicomori e gli uccelli a far da orchestra. Il pastore la pregò di raccontare la stessa cosa qualora sua madre avesse chiesto sue notizie. Una stella però cadrà dal cielo, rivelando una vita giunta al termine.

Migliaia di versioni esistono di questo pastorale, che per l’ennesima volta raffigura il legame tra uomo e natura, ma non solo, l’immagine di “sposalizio e morte” si collega ad una specifica usanza ancora viva in alcune aree della Romania, dove i defunti che non sono convolati a nozze, affinché portino a compimento i fondamentali eventi della vita, ovvero, battesimo, matrimonio e morte, vengono sepolti con abiti sponsali. Per di più, la mancanza di timori nell’affrontare l’aldilà, è espressione dell’eredità dacia, popolo che aveva fede nell’immortalità.

 

Baba Dochia e le rocce di Ceahlău

Un’altro, fra i più importanti miti della Romania, fa riferimento alla pastorizia e si tratta di una delle tante leggende legate al Ceahlău, monte dove sono presenti formazioni rocciose dall’aspetto vagamente umano. In particolare, è la cosiddetta Stânca Dochiei (La roccia di Dochia) ad esser entrata nella tradizione popolare, un masso dalla figura femminile circondata da più piccole rocce diventate ‘le pecore di Dochia’.

Si narra che Traiano (53 d.C. – 117 d.C.), imperatore e valoroso conquistatore romano, quando nel 101 d.C. decise di assoggettare la Dacia – riuscendo nella difficile impresa che invece aveva visto fallire il suo predecessore Domiziano – sia rimasto folgorato da Dochia, figlia di Decebalo, successore di Burebista e ultimo sovrano del regno.

La giovane però rifiutò quell’unione, ed un giorno, mentre stava portando a pascolare le pecore, si trovò ad essere inseguita da un manipolo di uomini dalle truppe romane, nel frattempo accampate alle porte della capitale Sarmizegetusa Regia.

Insieme al gregge, Dochia cercò riparo sulla vetta del Ceahlău, ma nel momento in cui realizzò che sarebbe stata catturata, rivolse il suo cuore al supremo dio Zalmoxis, pregando d’esser pietrificata assieme ai suoi animali, sfuggendo così a un destino che altrimenti l’avrebbe strappata dalla propria terra.
Immagine questa, ch’è interpretazione del poeta Eminescu (1850-1889), che appunto in questa storia, vide in metafora l’amore e l’attaccamento alle proprie origini.

Esiste un’altra famosa variante del racconto, che per altro introduce un’usanza tutt’oggi molto sentita nel Paese.

In questo caso Baba Dochia era la madre nient’affatto amabile di Dragobete, personaggio che molti fanno corrispondere a Cupido e che in Romania, ha un giorno dedicato, il 24 febbraio, del tutto simile alla festa di San Valentino.

Contro la volontà della donna, egli si unì in matrimonio con una ragazza che divenne subito malvista dalla suocera e così, in una fredda giornata invernale, Baba Dochia chiese alla nuora di andare al fiume e lavare della lana sporca. In realtà era nera, ma le ordinò di non rincasare finché questa non fosse divenuta bianca.

La giovane obbedì e una volta giunta sulle rive del torrente, iniziò con forza a pulire il gomitolo nelle gelide acque, ma per quanto strofinasse, la lana non ne voleva sapere di farsi candida. Le dita iniziarono a sanguinare a causa della temperatura e al dolore si univa l’angoscia di non poter tornare dal marito e alla fine la ragazza scoppiò in un pianto disperato. Avvertendone la sofferenza, impietosito Gesù le apparse e le offrì un fiore rosso, le spiegò di usarlo per lavare la lana e questa sarebbe diventata del colore della neve. Senza averlo riconosciuto, lo ringraziò e dopo aver immerso i petali in acqua, con meraviglia constatò la verità di quelle parole.

Poté finalmente fare ritorno e una volta a casa, raccontò l’accaduto facendo riferimento all’uomo apparsole chiamandolo Mărțișor. La suocera pensò che l’uomo non potesse altro che l’amante della nuora e così inveì contro di lei accusandola di tradire il marito. Più tardi, riflettendo sul fiore, si convinse che doveva essere giunta la primavera e il sole sembrava darle ragione. Prese la sua mandria e uscì di casa dirigendosi verso il Ceahlău. Per sicurezza si era coperta con 9 cojoc, il tradizionale indumento invernale, ma dato il gran caldo,lungo il tragitto cominciò a sfilarsene uno a uno. Giunta sulla cima della montagna però, il tempo mutò improvvisamente, si scatenò una burrasca di neve, la temperatura divenne gelida e Dochia rimase congelata insieme al suo gregge.

Da allora, oltre a trovar nella vicenda la spiegazione della precarietà meteorologica di marzo, usanza vuole che si scelga un giorno fra i primi 9 del mese e in base a come si rivelerà il tempo, sarà la vita per il resto dell’anno.

 

Mărțișor: un dono prezioso

Il 1° marzo però, oltre ad essere dedicato al ricordo di Baba Dochia, fin dalla notte dei tempi, in Romania è sinonimo della festa del Mărțișor, letteralmente ‘Piccolo Marzo’. Gli storici fanno risalire la nascita di questa tradizione a più di 8000 anni fa, secondo alcuni avrebbe origine nell’antica Roma, altri sostengono invece appartenga alla tradizione dacica, fatto sta, ch’è un momento di gioia.
Ormai simbolo di primavera, il Mărțișor è un oggetto realizzato intrecciando dei fili bianchi e rossi, ed un volta legati fra loro formando un ‘otto’, viene donato alle persone care come segno di amore e augurio di salute e fortuna.

Inizialmente era composto da fili bianchi e neri, rappresentazione dell’unità degli opposti, in cui il bianco, emblema di luce e purezza era il cielo, la parte maschile. Il nero, allegoria della fecondità in quanto colore della terra fertile, era la femminile, che in seguito, avrebbe poi rappresentato il rosso, tinta forte e solare. Il concetto dunque non cambiò, a volte infatti è regalato con appesa anche una moneta argentata, la quale richiama il Sole nella forma e la Luna nel metallo.

Inoltre, nel folklore romeno alle stagioni è associato un colore, il rosso alla primavera, il giallo all’estate, il nero all’autunno e il bianco all’inverno, per cui il Mărțișor è anche metafora di passaggio ed è evidente, che non si tratta di un semplice porta fortuna, quanto piuttosto di un talismano con una sua sacralità e chi lo riceve, dovrebbe tenerlo vicino al cuore.
 
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