Arte in prigione, tra racconto e liberazione
Ci sono luoghi le cui mura continuano a parlare, raccontare cosa hanno ascoltato, visto, accolto e qualcosa di pesante si avverte lasciandosi alle spalle l’accesso. La gravità si fa più severa, a volte la sensazione è quella di una mano che preme sul petto soffocando leggermente il respiro e questo accade benché siano poi stati adibiti tanto alla memoria storica, quanto a mostre o gallerie d’arte cercando di rivalutarne gli ambienti o spesso, nel mal riuscito tentativo di render l’iniziativa maggiormente suggestiva.
Sono i luoghi del dolore, della sofferenza, della violenza, sono gli ex-ospedali psichiatrici, le prigioni, dove alle colpe si mischiano da sempre silenziose e represse verità, negligenza dell’opportunità, difetto della sorte, soprusi della società e niente toglie quella mancanza d’aria, neppure l’arte, che può solo raccontare e questo, com’è ormai noto, è quanto hanno fatto i dieci street artists della Pick-Up Production, che della prigione di Nantes ne hanno ritratto la storia emozionale.
Costruita nel 1896 e situata nel centro storico del capoluogo della Loira Atlantica, a fine anno sarà demolita perché entro il 2019, al suo posto si trovino 160 unità abitative, un parcheggio sotterraneo con 400 posti auto e un asilo nido, il tutto disteso su una superficie di oltre 12mila metri quadrati.
La prigione sarà dimenticata e con lei tutte quelle anime che l’hanno vissuta fino al 2012, gli artisti francesi sembrano così averle liberate prima che le macerie ne seppellissero per sempre il drammatico ricordo, una sorta di perdono richiesto a coloro che tra quelle mura non avrebbero mai dovuto entrare.
Ed “Entrata Libera” è il nome della fugace esposizione ed anche solo dalla visita virtuale, è possibile vedere il sovraffollamento, l’angoscia, i tormenti, la sopravvivenza, la privazione di un inferno rappresentato e liberato strappandolo dalle viscere delle pareti.
L’arte è per sua natura liberazione dell’anima, anima che si fa avvolgere dalle parole ritmate come pioggia dei versi, dagli spazi delle note che battono in petto e scuotono le budella, dal magnetismo di un dipinto e l’incanto di una pietra che sembra aver preso forma per sua stessa volontà.
L’arte non esiste, non si tocca né si vede, la si può solo sentire come un respiro che toglie solitudine, dona e urla per smuovere gambe e coscienze, ruolo questo, ch’è della street art come della poesia, della musica o di qualunque altra forma espressiva.
Ricordare i tanti perché è alla base del “4661m² Art in Prison”, un progetto diventato poi libro e nato per iniziativa di Malik, artista svizzero che ha coinvolto altri 16 street artists, colmando di opere le pareti esterne, i cortili, i corridoi e le aree comuni della prigione di massima sicurezza di Lenzburg.
Non sono mancate polemiche da parte di chi giudica imprese del genere, mancare di tenere a mente i crimini commessi dai carcerati, alcuni dei quali probabilmente continueranno a “vedere” quei lavori per il resto della vita e forse, non paradossalmente, diventeranno pena aggiunta di una libertà perduta.
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