Erri De Luca, poesie fra impegno politico e sociale
Autore di decine di saggi, raccolte poetiche, testi teatrali, traduzioni e romanzi, Enrico, Erri De Luca nacque a Napoli il 20 maggio 1950 e all’età di 18 anni, conseguito il diploma al Liceo Classico Umberto I, si separò dal Vesuvio per trasferirsi a Roma. All’ombra del Colosseo entrò in contatto con il movimento Lotta Continua, tra i principali schieramenti extraparlamentari di orientamento comunista rivoluzionario e operaista, caratterizzato da una visione eterodossa e critica nei confronti dei regimi ‘rossi’. Ne divenne presto figura autorevole, ma nel 1976, in concomitanza con la scelta della formazione di presentarsi alle elezioni facendo liste comuni con altri schieramenti di sinistra, si allontanò dall’impegno politico — definitamente lasciando nel 1980 — ed iniziò a viaggiare in Italia e all’estero. Un’avventuroso peregrinare durante il quale insegnò a mani e fronte il valore di rughe e sudore prestandole a una moltitudine di mestieri: operaio, muratore, camionista, magazziniere, assecondando al contempo coscienza dedicandosi a problemi sociali, svolgendo attività di volontariato in Africa, all’interno di un progetto inerente il servizio idrico in villaggi della Tanzania e più tardi, mentre infuriava la guerra, in quella ch’era la Repubblica Federale di Jugoslavia, adoperandosi in veste d’autista di convogli destinati alle popolazioni.
Nel frattempo, Erri De Luca, il cui nome portato «come lo zaino del contrabbandiere» deve allo zio Harry di madre americana, s’immerse nello studio d’idiomi quali swahili, russo, yiddish, ebraico antico cimentandosi in traduzioni della Bibbia da egli definite «di servizio», ossia volte a restituire un testo quanto più rispettoso e fedele all’originale.
Benché inchiostro avesse preso a scorrere già sotto i cieli della capitale, esordio d’arte letteraria espressa attraverso un costante poetare, immaginativo, musicale, tracotante d’umanità sia narrando sfumature d’amore, sia affanni e abiezioni del vivere, arrivò soltanto nel 1989 con il libro dal titolo Non ora, non qui, un intenso racconto sospeso tra passato e presente sullo sfondo di una Napoli dalle tante contraddizioni. Primo riconoscimento, il Prix France Culture, giunse nel 1994 per Aceto, arcobaleno e da allora, la notorietà dello scrittore De Luca avanzò valicando i confini nazionali in un succedersi di successi editoriali scanditi da opere come l’originale Alzaia, Montedidio, In nome della madre, Il giorno prima della felicità, Il peso della farfalla, la delicata narrazione de I pesci non chiudono gli occhi.
Accanto alla penna — negli anni offerta anche a numerose testate giornalistiche fra le quali Il Corriere Della Sera, Il Manifesto, L’Avvenire, La Repubblica — v’è da sempre il legame con la montagna vissuta da «ospite senza invito» per toccarne le cime deserte e trovar silenzio di solitudine attraverso l’alpinismo, l’arrampicata sportiva, passioni seguite sfidando cinquantaduenne gli strapiombi della Grotta dell’Arenauta tra Gaeta e Sperlonga, compiendo nel 2005 una spedizione sull’Himalaya dipoi narrata in Sulla traccia di Nives.
A settembre 2013, sull’autore cadde accusa di istigazione a delinquere, a denunciarlo la Lyon-Turin Ferroviaire — l’attuale Tunnel Euralpin Lyon Turin sas — a seguito di interviste in cui aveva descritto il TAV in Val di Susa, un progetto da sabotare. «Per uno scrittore il reato di opinione è un onore», fu l’immediato commento. L’apertura del processo venne fissata per il 28 gennaio 2015, due settimane prima il partenopeo espose ragioni attraverso il libro La parola contraria edito dalla Feltrinelli e a distanza di otto mesi, il 19 ottobre, dopo cinque udienze si vide assolto con formula piena «il fatto non sussiste». Nel corso della mattina, anticipando il ritirarsi della Corte in camera di consiglio e quindi sentenza, Erri De Luca corroborò pubblicamente le proprie idee rilasciando spontanea dichiarazione: «Confermo la mia convinzione che la linea sedicente ad Alta Velocità va intralciata, impedita e sabotata per legittima difesa del suolo, dell’aria e dell’acqua».
Da ragazzo sono diventato anarchico dopo la lettura di Omaggio alla Catalogna di George Orwell. Ho scelto la parte in quell’età che contiene tutte le possibilità. Non ho cambiato i sentimenti di quell’adesione. La letteratura agisce sulle fibre nervose di chi s’imbatte nel fortunoso incontro tra un libro e la propria vita.
(La parola contraria)
Valore
Considero valore ogni forma di vita,
la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale,
l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto,
un sorriso involontario,
la stanchezza di chi non si è risparmiato,
due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani
non varrà più niente e quello
che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua,
risparmiare un paio di scarpe,
tacere in tempo, accorrere a un grido,
chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’é il nord,
qual’è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo,
la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare
e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.
Un albero soltanto
Eden è il giardino botanico e zoologico,
tutte le specie insieme, ultima quella umana
incaricata di segreteria.
Adàm nomina le creature una per una,
i figli invece no, sono di Eva
e a lei spetta inventare nome e vita.
Nel giardino c’è un albero isolato,
contiene la notizia di ogni bene e male.
Un albero soltanto:
che ibrido ha innestato il giardiniere?
Poteva farne due, lontani, opposti,
uno coi fiori, l’altro con le spine,
il rigoglioso e l’arido,
quello da fusto e l’altro aggrovigliato,
uno profuma, l’altro sfiata zolfo.
Invece no:
bene e male e la radice uguale,
stesso tronco, fogliame, linfa, frutto.
Se non l’assaggi non lo puoi sapere.
Quell’albero maestro
fu prima caloria di stordimento.
Dopo
Non quelli dentro il bunker.
non quelli con le scorte alimentari, nessuna città,
si salveranno indios, balti, masai,
beduini protetti dal vento, mongoli su cavalli,
e poi uno di Napoli nascosto nel Vesuvio,
un ebreo avvolto in uno sciame di parole,
per tradizione illesi dentro fornaci ardenti.
Si salveranno più donne che uomini,
più pesci che mammiferi,
sparirà il rock and roll, resteranno le preghiere,
scomparirà il denaro, torneranno le conchiglie.
L’umanità sarà poca, meticcia, zingara
e andrà a piedi.
Avrà per bottino la vita
la più grande ricchezza da trasmettere ai figli.
H2O2
Mia madre mi lavava i capelli con l’acqua ossigenata
ero bruna, mi faceva bionda,
l’unica della strada.
(La guerra è finita signora, adesso siamo a casa nostra.)
All’età di sei anni mi portò da un chirurgo,
il mio naso era curvo, divenne all’insù.
(La guerra è finita signora, non siamo in Europa.)
Sull’album di fotografie col blu ritoccava
il colore degli occhi a sua figlia,
la piccola ariana inventata.
(La guerra è finita signora, questa è Tel Aviv.)
Ho perduto i capelli da ragazza
e il mio naso assomiglia a un foruncolo, no,
non ce l’ho con mia madre,
veniva da un posto d’Europa
dove l’acqua ossigenata decideva
tra la vita e la morte.
Fiumi di Guerra
Alle fontane i vecchi
le donne con i secchi lungo il fiume
e l’aria fischiettava di proiettili e schegge,
la banda musicale degli assedi, insieme alle sirene.
Danibio, Sava, Drina, Neretva, Miljacka, Bosna,
ultimi fiumi aggiunti alle guerre del millenovecento,
gli eserciti azzannavano le rive, sgarretta vano i ponti,
luci della città, Chaplin, le luci di quelle città
erano tutte spente.
L’Europa intorno prosperava illesa.
Altre madri in ginocchio attingono alle rive,
dopo che il Volga fermò a Stalingrado
la sesta armata di von Paulus
e la respinse indietro e l’inseguì
fino all’ultimo ponte sulla Sprea,
affogando Berlino.
Acque d’Europa specchiano ancora incendi.
La Vistola al disgelo illuminata dalle fiamme del ghetto
non poteva bastare al novecento.
L’acqua in Europa torna a costare l’equivalente in sangue.
Variazione sul salmo 137
Se potrò scordare di te
si dovrà scordare di me
la mano che scrive le lettere
la destra del martello
e del palmo di fionda.
se potrò scordare di te
s’attaccherà la lingua
alla sella del palato,
la lingua dei fischi alla notte
e dei baci alla pelle
leccata come una capra il sale.
s’attacchi lingua a mascella
se non ti salirò
in cima all’allegria.
Ballata per una prigioniera
Era pericoloso
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio, alberi, strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l’ergastolo non scade,
più vivi più ci resti.
Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.
Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.
Per affacciarsi, lacrime e sorrisi,
debbono avere un po’ d’intimità
perché sono selvatici, non sanno
nascere in stato di cattività.
«Non si è più stati insieme, vero, babbo?
Prima la lotta, gli anni clandestini,
neppure una telefonata per Natale,
poi il carcere speciale, la tua faccia,
rivista dietro il vetro divisorio,
intimidita prima, poi spavalda
e con una scrollata delle spalle
dicevi: “muri, vetri, sbarre, guardie,
non bastano a staccarci,
io sto dalla tua parte
anche senza toccarti,
anzi, guarda che faccio,
metto le mani in tasca”.
Porta pazienza, babbo, anche stavolta
non posso accarezzarti
tra i miei guardiani e i ferri.
Però grazie: di avermi fatto uscire
stamattina, di un gruzzolo di ore
di pena da scontare all’aria aperta».
Ora la puoi incontrare
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia,
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attraversa la strada, non si gira,
compagna Luna, antica prigioniera
che s’arrende alle sbarre della sera.
Io vorrei bastarti
«Io te vurria vasà», sospira la canzone
ma prima e più di questo io ti vorrei bastare,
io te vurria abbastà,
come la gola al canto come il coltello al pane
come la fede al santo io ti vorrei bastare.
E nessun altro abbraccio potessi tu cercare
in nessun altro odore addormentare,
io ti vorrei bastare,
io te vurria abbastà.
«Io te vurria vasà», insiste la canzone
ma un pò meno di questo io ti vorrei mancare
io te vurria mancà,
più del fiato in salita
più di neve a Natale
di benda su ferita
più di farina e sale.
E nessun altro abbraccio potessi tu cercare
in nessun altro odore addormentare,
io ti vorrei mancare,
io te vurria mancà.
Proposta di modifica
C’è il verbo snaturare,
ci dev’essere pure innaturare,
con cui sostituisco il verbo innamorare
perché succede questo:
che risento il corpo,
mi commuove una musica,
passa corrente sotto i
polpastrelli,
un odore mi pizzica una lacrima,
sudo, arrossisco,
in fondo all’osso sacro scodinzola una coda
che s’è persa.
Mi sono innaturato: è più leale.
M’innaturo di te quando t’abbraccio.
Notizie sull’acqua
Sta nella nuvola e nel pozzo,
nella neve e nella noce di cocco,
negli occhi e nel fiume,
nell’arcobaleno e nel lago,
nel ghiaccio e nel vapore della pentola sul fuoco,
nella bocca.
È la maggioranza della superficie.
È la maggioranza del corpo.
Una persona è acqua che cammina, dall’acqua di placenta all’acqua del sudario.
In ebraico è plurale, màim, acque.
In francese è una vocale sola, eau, ô.
In greco e in tedesco è neutra.
In russo e nelle latine è femminile.
Dal fondo del pozzo avverte il terremoto.
Fa tremare il ramo scortecciato in mano al rabdomante.
La sua avventura chimica è prodigio, ossigeno più idrogeno,
ad accostarli, esplodono.
Spegne fuoco, anche quello dei vulcani.
Fa il pane, fa la pasta.
È nel bianco e nel rosso dell’uovo. È nella sua buccia.
È nella carta e nel vino, nelle ciliegie e nelle comete.
Chi la spreca verrà assetato.
Chi sporca l’acqua verrà sporcato.
Secondo Geremia la voce di lod/Dio è chiasso di acque nei cieli.
Giusta sarà la sorpresa di chi ascolterà la prima domanda,
appena morto: «Quant’acqua hai versato?».
Ognuno di noi sarà pesato a gocce.
Breve cronaca dei roghi
Bruciarono i libri di Protagora in Atene.
Bruciarono libri in Efeso, negli Atti degli Apostoli, capitolo 19.
Bruciarono i libri di alchimia su ordine di Diocleziano.
Bruciarono i libri non inclusi nel Canone Biblico del Nuovo Testamento.
Bruciarono i libri della Biblioteca di Alessandria su ordine del generale arabo Amr Ibn Al As nel 642.
Bruciarono i libri in Firenze su ordine di Savonarola nel 1497.
Bruciarono i manoscritti Aztechi e Maya su ordine di Diego de Landa, mandato dall’Inquisizione.
Bruciarono i libri ebraici e il Talmud in piazza Campo dei Fiori a Roma il 9 settembre 1553, giorno di capodanno ebraico, su ordine di Giulio III.
Bruciarono i libri in Germania dal 1933, arrivo al potere dei nazisti.
Bruciarono i racconti di De Sade nel cortile della procura di Varese nel 1961.
Bruciarono i libri in Cile dopo l’arrivo della dittatura di Pinochet, 1973.
Bruciarono i libri in Argentina nel 1976 su ordine del generale Luciano Benyamin Menendez, della giunta militare Videla.
Bruciarono i libri della Biblioteca di Sarajevo nel 1992 con gli obici e i mortai dei Cetnici.
Negli inverni degli anni ’90, durante l’assedio di Sarajevo, il poeta Izet Sarajlic bruciò la sua biblioteca nella stufa.
È l’unico caso di libri bruciati per riscaldamento.
Tutti gli altri bruciarono per volontà di censura.
«Lá dove si bruciano libri, alla fine si bruciano anche gli esseri umani».
(Heinrich Heine 1797-1856).
Siamo gli innumerevoli
Siamo gli innumerevoli
raddoppia ogni casella di scacchiera
lastrichiamo di corpi il vostro mare
per camminarci sopra;
non potete contarci:
se contati aumentiamo,
figli dell’orizzonte che ci rovescia a sacco.
Nessuna polizia può farci prepotenza
più di quanto già siamo stati offesi.
Faremo i servi, i figli che non fate,
le nostre vite saranno i vostri libri di avventura.
Portiamo Omero e Dante,
il cieco e il pellegrino,
l’odore che perdeste,
l’uguaglianza che avete sottomesso.
Da qualunque distanza arriveremo a milioni di passi,
noi siamo i piedi e vi reggiamo il peso.
Spaliamo neve, pettiniamo prati, battiamo tappeti,
raccogliamo il pomodoro e l’insulto.
Noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo,
noi siamo il rosso e il nero della terra,
un oltremare di sandali sfondati,
il polline e la polvere nel vento di stasera.
Uno di noi, a nome di tutti, ha detto:
«Non vi sbarazzerete di me.
Va bene, muoio, ma in tre giorni resuscito e ritorno.»
Elogio dei Piedi
Perché reggono l’intero peso.
Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi.
Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare.
Perché portano via.
Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta.
Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali.
Perché sanno piantarsi nel mezzo delle strade come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica.
Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare.
Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura.
Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Puskin.
Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante.
Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio.
Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo.
Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella.
Perché non sanno accusare e non impugnano armi.
Perché sono stati crocefissi.
Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l’appoggio.
Perché, come le capre, amano il sale.
Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte.
Due
Quando saremo due saremo veglia e sonno
affonderemo nella stessa polpa
come il dente di latte e il suo secondo,
saremo due come sono le acque,
le dolci e le salate, come i cieli,
del giorno e della notte,
due come sono i piedi, gli occhi, i reni,
come i tempi del battito i colpi del respiro.
Quando saremo due non avremo metà
saremo un due che non si può dividere con niente.
Quando saremo due, nessuno sarà uno,
uno sarà l’uguale di nessuno e l’unità consisterà nel due.
Quando saremo due cambierà nome pure l’universo
diventerà diverso.
Tessera
Il nome che porto come lo zaino del contrabbandiere
È di uno zio, lui Harry, Erri io.
Nell’estate del sessantasei volevo diventare
il legno di faggio di una sedia a sdraio
dove posava il corpo illuminato a gocce la ragazza.
Sono stato il due di spade e il niente di denari,
operaio salariato e anche gratuito.
Sono stato un lardo di malaria,
dieci chili deposti a scolare su branda,
un odore di gomma nelle ascelle,
sette gradi di là dell’equatore e quarantuno in corpo.
Lì denunciai un serpente verde sotto una pietra,
l’hanno ucciso. Non ho avuto figli.
Per complimento una donna mi ha detto: che bel sangue ti esce
Era rosso, rissoso, con le bollicine, ubriacato di ossigeno.
Amo il la minore in musica, lo strapiombo in parete.
Di tutta la macchina dell’amore ho preferito i baci,
il primo, quello dopo, qualche altro non contato.
Molti amici in prigioni e negli esili
scontano in novecento anche per me.
Nell’orecchio è rimasto qualche sparo vicino.
Alla mano basta una sera per dimenticare,
il resto di me no.
Diga
Chiasso di acque nei cieli, «hamòn màim bashamàim».
Così un profeta intese la voce che grondava su di lui
da un acquario di stelle.
Ascolta un altro chiasso,
una montagna intera che sfracella sopra l’invaso di una diga.
Era di notte, aggredite dal crollo
esplosero le acque verso l’alto a strappare le case di Erto e Casso
dai pendii a meridione e poi di nuovo in giù, acque su acque,
oltre la muraglia-sgabello a sradicare a valle Longarone,
lago, fiume e tempesta di Vajont, duemila nostri spenti.
Ascolta il tutto del sangue quando l’amore stringe:
moltiplicalo per il quadrato delle stelle fisse,
per il grido del capretto sgozzato ogni Pasquanatale,
per la sega del fulmine e il piccole del tuono,
aggiungilo agli schianti del bosco cancellato,
larici, abeti, càrpini, betulle, cervi, gufi, lepri, martore,
uova, ali, zampe, artigli stritolati: e poi dividi
per il silenzio di un minuto dopo. Non giocare con l’acqua,
non chiuderla, frenarla, è lei che scherza
dentro grondaie, turbine, ponti, risaie, mulini e vasche di saline.
È alleata col cielo e il sottosuolo,
ha catapulte, macchine d’assedio, ha la pazienza e il tempo:
passerai pure tu, specie di viceré del mondo,
bipede senza ali, spaventato a morte dalla morte
fino a metterle fretta.
Economia del dono
«Lancia il tuo pane ai volti delle acque»:
al fiume, alla corrente, offrilo al mondo,
senza destinatario, come chi dona il sangue,
un organo o la vita tutt’intera.
Bisogna amare assai la formula dell’acqua,
dalla neve al sudore,
dalla piovana a quella di sorgente
per affidarle in dono il nutrimento.
«Questo è il mio pane»
disse il donatore di se stesso.
La cena era di Pasqua
e la città in collina.
Offriva il pane di stesso
alla corrente delle generazioni.
«In molti giorni lo ritroverai»:
ecco l’innumerevole rimborso,
il dono di un momento
che torna molte volte in molti giorni.
Così fu scritta a cuore calmo e tiepido
la sovversiva economia del dono
offerto a spargimento,
restituito a scroscio.
Scompiglio e dismisura
della partita doppia dare/avere,
pareggio di bilancio gambe all’aria
con l’avvento del gratis, della grazia,
lo spariglio infallibile
su cui si regge il mondo.
Mare nostro
Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell’isola e del mondo
sia benedetto il tuo sale
e sia benedetto il tuo fondale
accogli le gremite imbarcazioni
senza una strada sopra le tue onde
pescatori usciti nella notte
le loro reti tra le tue creature
che tornano al mattino
con la pesca dei naufraghi salvati
Mare nostro che non sei nei cieli
all’alba sei colore del frumento
al tramonto dell’uva di vendemmia,
Che abbiamo seminato di annegati
più di qualunque età delle tempeste
tu sei più giusto della terra ferma
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le riabbassi a tappeto
custodisci le vite, le visite cadute
come foglie sul viale
fai da autunno per loro
da carezza, da abbraccio, da bacio in fronte
di padre e di madre prima di partire.
da Sulla traccia di Nives
Ho bisogno d’inventare una rima
tra quello che sta succedendo
e qualcosa di altro.
Ho bisogno di accoppiare un vicolo cieco,
in cui mi sono cacciato,
a qualche sconfinata prateria.
Mi fa da ormeggio per non naufragare.
Sono predisposto al soccorso della poesia,
che non è un’arte di arrangiare fiori,
ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella tempesta.
Per me è pronto soccorso, la poesia,
non una sviolinata al chiaro di luna.
La Pecora Bruna
È la prima aggredita dal lampo e dal lupo,
lo scherzo di mala fortuna
che guasta il colore uniforme del bianco di gregge.
Il giorno la scaccia,
la notte l’accoglie nel buio d’acqua ragia
che scioglie colore e contorno
e fa che assomigli alle altre.
La notte è più giusta del giorno.
In faccia al pericolo,
il grido più limpido è il suo,
sul ghiaccio dell’alba
la traccia è battuta da lei.
Dove corre il confine,
lei sola rasenta la siepe di more,
e chi si è smarrito
si tiene al di qua della pecora bruna,
che fa da frontiera alla vita veloce,
feroce, che tregua non dà.
L’Intruso
Camminava sull’acqua, riempiva le reti,
i pescatori lasciavano il mestiere per seguirlo.
A una festa di nozze mancò il vino e provvide,
litri a centinaia, un colpo da maestro di vendemmie,
acqua in vasi di pietra si girava in vino.
È migliore, dissero i commensali,
sì, è migliore,
il vino che non costa premitura,
il pane fatto senza grano e forno
il pesce che da solo salta in barca:
scatenava il gratis che appartiene alla grazia,
passionale e guappa.
Veniva da un battesimo in acque di Giordano,
morì poco lontano sopra una trave a T
e quando un ferro gli trafisse il fianco,
spillò acqua con sangue,
come breccia di parto,
morì come sorgente.
Ecco l’intruso del mondo,
intriso dal grasso di tutte le colpe,
messo a sbiadire pallido di freddo in un aprile
o addirittura un marzo,
oltre ottocento metri sul livello del mare mai toccato.
Un gargarismo d’acque in fondo a un pozzo asciutto,
uno scatarro nella tubatura delle arterie:
così scroscia la sua resurrezione.
Tavole
Mi sono seduto anche a tavole sontuose,
dove i bicchieri vanno secondo i vini
e uomini di molto più eleganti s’aggirano a servire le pietanze.
Ma so meglio la tavola dove si strofina il fondo della scodella
con il pane e le dita arrugginite mensa di panche basse
a mezzogiorno di fiati vergognosi di appetito.
Non bisbiglio di commensali a commentare il pasto
ma di gole indurite che inghiottiscono per rimettere forza di lavoro
e non portano eretti alla bocca la posata
ma si calano sopra, addentano a mezz’aria
per nascondere il magro del boccone
il quasi niente avanzo della sera.
E di cibo non parlano per il timore di nominarlo invano.
Volti
Chi ha steso braccia al largo
battendo le pinne dei piedi
gli occhi assorti nel buio del respiro,
chi si è immerso nel fondo di pupilla
di una cernia intanata
dimenticando l’aria, chi ha legato
all’albero una tela e ha combinato
la rotta e la deriva, chi ha remato
in piedi a legni lunghi: questi sanno
che le acque hanno volti.
E sopra i volti affiorano
burrasche, bonacce, correnti
e il salto dei pesci che sognano il volo.
Mamm’Emilia
In te sono stato albume, uovo, pesce,
le ere sconfinate della terra
ho attraversato nella tua placenta,
fuori di te sono contato a giorni.
In te sono passato da cellula a scheletro
un milione di volte mi sono ingrandito,
fuori di te l’accrescimento è stato immensamente meno.
Sono sgusciato dalla tua pienezza
senza lasciarti vuota perché il vuoto
l’ho portato con me.
Sono venuto nudo, mi hai coperto
così ho imparato nudità e pudore il latte e la sua assenza.
Mi hai messo in bocca tutte le parole
a cucchiaini, tranne una: mamma.
Quella l’inventa il figlio sbattendo le due labbra
quella l’insegna il figlio.
Da te ho preso le voci del mio luogo,
le canzoni, le ingiurie, gli scongiuri,
da te ho ascoltato il primo libro
dietro la febbre della scarlattina.
Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze,
a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco,
a finire parole crociate, ti ho versato del vino
e ho macchiato la tavola,
non ti ho messo un nipote sulle gambe
non ti ho fatto bussare a una prigione
non ancora, da te ho imparato il lutto e l’ora di finirlo,
a tuo padre somiglio, a tuo fratello,
non sono stato figlio.
Da te ho preso gli occhi chiari.
Non il loro peso.
A te ho nascosto tutto.
Ho promesso di bruciare il tuo corpo
di non darlo alla terra. Ti darò al fuoco
fratello del vulcano che ci orientava il sonno.
Ti spargerò nell’aria dopo
l’acquazzone all’ora dell’arcobaleno
che ti faceva spalancare gli occhi.
Per Ante Zemljar
Era una finestrella, sbarrata da una tavola di legno
l’unica presa d’aria della cella.
L’uomo si abitua all’ombra,
a mezzogiorno, in piedi sulla branda
s’allunga alla fessura della luce,
meno di un rigo, un verso breve
passa sulle palpebre degli occhi.
C’è un nodo nel legno che lui tocca
con l’unghia e con il tempo,
con la punta dell’unghia e del tempo,
all’uomo serve un gioco nella cella.
Un giorno il nodo cede
pregato dall’unghia amica del tempo
che ricresce ogni giorno,
il nodo cede.
Si toglie come un tappo di bottiglia
e nel suo collo passa uno zampillo di luce liscia e dritta
s’allarga a terra, allaga il pavimento.
Il prigioniero Ante si mette scalzo
e ci si bagna i piedi. È un anno
che non esce di cella, niente cortile, aria,
un anno che la porta è uguale al muro,
che la porta non porta da nessuna parte
un anno, strizza gli occhi,
il sole dentro il buco è un’arancia rotonda nella mano
i piedi si strofinano fra loro
sono due bambini, la prima volta al mare
i piedi di Ante Zemljar comandante di molti partigiani,
congedato col merito della vittoria in guerra,
adesso chiuso dagli stessi compagni: nemico della patria.
Nemico lui che l’ha agguantata al collo
l’ha scrollata di eserciti invasori
fiume per fiume, da Neretva a Drina,
coi calci della fame senza nemmeno portar via una cipolla
a un contadino perché così è la guerra partigiana.
Nemico lui: l’hanno tolto da casa
da Sonia di due anni che sa gridare già:
«Lasciate il mio papà, lasciatelo è mio padre”.
Adesso sì, voi siete suoi nemici.
Ante sa le percosse, sa che un pugno da destra
lascia sangue sul muro di sinistra e viceversa
e un pugno dritto in faccia lascia sangue a terra,
ma c’è la novità qui le botte riescono a lasciare
il sangue sul soffitto.
C’è sempre da imparare circa le vie del sangue
e dei colpi ingegnosi dei gendarmi.
Ante conserva il nodo, lo rimette nel legno
la guardia non saprà,
il sole non è spia,
s’infila svelto e poi non lascia impronte,
pure se perquisisce la guardia non può dire:
qui c’è stato il sole, sento il suo odore.
Il sole non è un topo,
pure se ne finisce molto in una cella
nessuno si accorge che fuori manca un raggio,
che la sua conduttura ha un buco
e perde luce da un nodo di legno.
Ancora un po’ di mesi, poi glielo daranno,
il sole, tutto in una volta, sulla schiena
peggio dei colpi di bastonatura
sopra l’Isola Nuda a spaccar pietre.
Il prigioniero Ante ha conservato il nodo,
qualche volta lontano dalla guardia
lo punta contro il sole e si procura un’ombra
sopra l’Isola Nuda a spaccar pietre bianche
e poi gettarle a mare, all’Adriatico,
perché la pena è pura, senza valore pratico,
e il mare non si riempirà.
Portatori
Il nostro mondo poggia sulle spalle dell’altro. Su bambini al lavoro, su piantagioni e materie prime pagate a costo spicciolo: spalle di sconosciuti reggono il nostro peso, obeso in sproporzione di ricchezze. L’ho visto.
Sulle salite lunghe molti giorni verso i campi base sulle alte quote, uomini e anche donne e anche ragazzi portano nelle gerle intrecciate il nostro peso. Tavoli, sedie, stoviglie, tende, cucine, combustibili, corde, arnesi da scalata, cibo per molte settimane, insomma un villaggio per abitare dove non c’è niente.
Reggono il nostro peso al prezzo di trecento nepali-rupie al giorno, meno di quattro euro. Le gerle caricano quaranta chili, ma c’è chi porta di più. Le tappe sono lunghe, affaticano il viaggiatore che porta un suo zainetto col minimo occorrente.
Facchini di ogni nostra comodità, camminano su sandali infradito oppure scalzi lungo pendii che scarseggiano di ossigeno, mentre si abbassa la temperatura. Di notte si accampano all’aperto intorno a un fuoco, si cucinano il riso con verdure raccolte nei paraggi, finché c’è qualcosa che spunta dal terreno. In Nepal c’è vegetazione fino a tremilacinquecento.
Noialtri dormiamo in tenda dopo un pasto caldo cucinato da loro.
Reggono il nostro peso e non perdono un grammo, non manca un fazzoletto nel bagaglio consegnato a fine tappa.
Non sono più adatti di noi alla quota, di notte li sento tossire.
Sono spesso contadini di vallate basse di risaie. Noi arranchiamo in silenzio, loro non rinunciano a parlarsi, a raccontare, mentre vanno.
Noi vestiti a strati di tecnologia leggera, traspirante, calda, antivento, eccetera, loro con panni logori, qualche maglia di lana straconsunta: reggono il nostro peso e sorridono cento volte di più del nostro più estroverso buontempone.
Ci cuociono la pasta con l’acqua della neve, hanno portato qua, su a cinquemila metri, perfino le uova.
Senza di loro non saremmo agili, né atletici, né ricchi. Scompaiono a fine trasporto, vanno a sparpagliarsi nelle valli, ancora in tempo per il lavoro del riso e dell’orzo.
Onore ai poeti che aiutano a vivere
(Il Mattino, 13 settembre 2002)
Quando c’è poco tempo e bussano alla porta, battono la città con artiglieria, quando brucia, quando sei solo in un letto d’ospedale, quando arrivi troppo tardi, quando ti mancano le parole e il fiato è corto, allora la poesia, una, prende il tuo posto, prende la tua mano che non ci arriva: e arriva.
Negli assedi, nelle prigioni, nelle cantine su pezzi di carta di fortuna si scrivono poesie.
Il partigiano jugoslavo Ante Zemliar ne scriveva durante la guerra in montagna contro i nazifascisti. Le scriveva su quaderno. In sua assenza i compagni la trovarono e con la carta fecero sigarette.
Non c’era molto per fumare e Ante sa che anche così le sue poesie hanno avuto respiro.
Il partigiano Zemliar dopo la guerra vinta ha fatto cinque anni di prigionia nella colonia penale di Tito, Goli Otok, isola nuda. Anche lì scriveva poesie con un pezzetto di carbone nell’unghia su pezzi di cartone, di nascosto. Nel ghetto di Lotz nel 1943 Isaia Spiegel scriveva nel suo yiddish braccato: «Il mio corpo è un pane/calato in un calice di sangue».
Scusate amici, non sto parlando di Leopardi e Virgilio, entrambi napoletani terminali, non sto facendo onore alla poesia. Parlo di dove essa è all’improvviso indispensabile.
Parlo di dove è urgente anche se in quel momento il poeta è muto e non riesce a scrivere neanche il suo nome sulla porta di casa. Il mio amico Izet Sarajlic scriveva in Sarajevo versi da tutti ripetuti a mente perché laggiù le poesie stanno sul davanzale delle labbra.
Ecco, Izet durante gli anni dell’assedio scrive poco, non fa più il poeta.
Cosa fa? Sta lì, vive con la città scassata, condivide la fame, le code per l’acqua, per il pane.
Non profitta di inviti a emigrare.
Sta lì, quella è la sua poesia tra i suoi concittadini, e scalda uguale.
Un poeta è responsabile del dolore come della gioia.
Scusate, non sto parlando di Leopardi e Virgilio, ma di amici miei.
Ma se non senti amico all’improvviso un poeta, un suo verso caduto sopra gli occhi a illuminarli, a che serve un poeta? A prenderti sotto braccio, a metterti le sillabe di una strofa miracolosa, per esempio perfetta di malinconia e puntiglio come questa: «E fuie tanto arraggiuso ’o primm vaso/ca mocca, mo’ ca n’ato se la sposa/na guccetella e sango n’è rummasa».
E non vi dico il nome del poeta perché un napoletano deve già saperlo e se no correre per la città e chiedere ad ogni incrocio: sapete chi l’ha scritta, chi l’ha fatta? E una sera di luglio senza sapere come scavalcare i centimetri tra una donna e me, tirai dallo scaffale le poesie di Hikmet, misi la voce spenta sui suoi versi e tra noi due sparì anche l’ultimo millimetro.
Ma questo non è calcolo o sistema: o è frutto di un momento di improvvisazione oppure è falso. Perché poesia è una mossa che inventa la verità.
Non la sa prima. E in tempi di richiamo alle armi, quando la parola guerra gira per i giornali come una ricetta, un vaccino contro l’epidemia febbrile di stagione, allora la poesia serve a stonare.
Infilata nel coro, lo fa stridere, fa per un momento ritornare in silenzio.
Perché dà valore alle parole, usandone poche e ben serrate, perché dà sangue alla parola guerra, le dà sventramento e gas nervino, le dà corpi di donne, bimbi, vecchi, molto più che di poveri fanti.
In tempi di generali, di squilli, di proclami, i poeti, le poesie salvano le orecchie.
No, salvano il mondo.
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