Kurt Cobain e Mark Lanegan: storia ed istanti di fraterna amicizia
Esistono sentimenti talmente criptici che, soltanto la musica riesce ad esprimerli.
André Esparcieux
Ad Ellensburg, Contea Kittias, il 25 novembre 1964, nacque Mark William Lanegan — secondogenito di Dale e Floy Hotarek, ambedue insegnanti di umili origini — musicista e cantante, giunto alla popolarità nel ruolo di leader degli Screaming Trees, gruppo rock alternativo, psichedelico e grunge — fondato, nel 1984, insieme ai fratelli Gary Lee e Van Conner, rispettivamente chitarrista e bassista, al terzetto presto accorpandosi il batterista Mark Pickerel il quale, abbandonati i compagni dopo un settennio, venne sostituito da Barret Martin, al nuovo quartetto unendosi in un secondo momento il chitarrista Joshua ‘Josh’ Michael Homme, a sua volta proveniente dai Kyuss.
Da sinistra: Mark Pickerel, Gary Lee Conner, Mark Lanegan e Van Conner
Fra alti e bassi causati da dissapori interni, lungo periodo d’inattività della band ne portò i membri verso ulteriori esperienze, Mark Lanegan destreggiandosi come solista e con gli Screaming Trees registrando settimo LP, pubblicato nel 1996, pochi mesi prima del loro scioglimento, formalizzato un triennio più avanti quando, a febbraio del 2000, due concerti d’addio vennero tenuti presso il The Viper Room a Los Angeles, uscita postuma — datata 2011 — appartenendo a Last Words: The Final Recordings, contenente una decina di brani incisi fra il 1995 e il 1999.
Consegnando estro a voce graffiata, oscura e profonda, Mark Lanegan dipinse quindi originale carriera individuale, tra il 1990 e il 2020 offrendo a memoria dodici album in studio, oltre a quattro EP ed in cammino annoverando svariate collaborazioni, nonché opera unanimemente eletta capolavoro, Whiskey for the Holy Ghost, disco edito nel ’94 e scandito da tredici tracce, per un incedere rock dalle potenti venature folk e blues, di quarantanove minuti e ventidue secondi, alla cui realizzazione contribuirono diciassette persone, fra strumentisti, ingegneri del suono e coristi.
Nel 1997, in tregua e scontro coi propri demoni, da sempre placati e al contempo sommossi con alcol e droghe, il cantautore si ritirò in una clinica e l’anno seguente — succeduta redenzione — Lanegan riprese ascesa e nel 2001 s’unì ai Queens of the Stone Age, esortato dal fondatore, voce e chitarra, Josh Homme, reduce dalla decennale esperienza — da egli stesso disegnata — coi Kyuss ed avventura durò sinché, nel 2004, dopo un’impegnativa e riuscita tournée, Mark Lanegan abbandonò progetto ascoltando perentorio desiderio d’immergersi in solitaria nei fluttuanti orizzonti costellati di note ed accordi verso cui, in fede a connaturata poetica musicale ed allorché naufrago di sé, come a stelle e costellazioni, sguardo volgere, costantemente e con lealtà, ricusando ogni compromesso anche nella scelta delle molteplici relazioni professionali strette, viceversa, in comunione di passione, d’intima espressività, donando e raccogliendo; fino a domenica 22 maggio 2022, quando giorno che sarebbe dovuto essergli in concomitanza col cinquantasettesimo anniversario di vita, ad essa e all’amor della consorte e cantautrice, Shelley Brien, lo sottrasse nel mentre si trovava nell’irlandese dimora di Killarney.
Il rischio è cadere malamente, ma la musica è ricerca individuale e nasce perché, innanzitutto, procuri benessere.
Mark Lanegan
Il 20 febbraio 1967, ad Aberden, Contea di Grays Harbor, dunque al medesimo cielo dello Stato di Washington, venne alla luce Kurt Donald Cobain, in petto custodendo cristallina indole artistica e sin da tenera età manifestata nella particolare predisposizione al disegno e per la musica, universo del quale soglia presto oltrepassò a merito di passione ampiamente condivisa fra i parenti del ramo materno, annoverando strumentisti e cantanti, tuttavia a sospingerlo fu soprattutto la zia e chitarrista, Mari, donandogli la prima sei corde, facendolo assistere a sessioni del gruppo in cui suonava, nonché permettendogli di viaggiare tra vinili e misurarsi in prove e registrazioni tra le mura della propria abitazione; ella pertanto accompagnandolo nella ricerca ed esternazione dell’intima creatività, oltre a rivelarsi rifugio con premurosa coscienza accogliendone doloroso disorientamento provato a fronte del divorzio dei genitori — Donald Leland e Wendy Elizabeth Fredenburg — evento che, subìto appena novenne, ne ferì indelebilmente sensibile emotività.
Puro ed inevitabilmente fragile, Kurt Cobain crebbe dunque avvolto dal tepido manto della musica, seppur patendo perenne sete affettiva ed incessantemente anelando d’esaudire — cuor lasciando elemosinar calore tanto dal padre quanto dalla madre — e primo passo nomade compiendo nel 1985, quando l’adolescente traslocò nella Contea di Thurson, in Olympia mantenendosi con lavori di vario genere, nel mentre accostandosi ad antiche religioni orientali e — insieme al bassista coetaneo Dale Crover ed al batterista Greg Hokanson — costituendo i Fecal Matter.
Dopo abbandono in dicembre da parte di Greg Hokanson, ad inizio 1986 s’associarono dapprima il bassista Roger ‘Buzz’ Osborne, detto King Buzzo, quindi Mike Dillard al posto di Crover, i tre suonando insieme fin al 3 maggio, data d’ultima apparizione dopo la quale Kurt Cobain confluì ogni speranza nel paio di demo — con loro registrati presso l’abitazione della zia — portati al cospetto del bassista Krist Anthony Novoselic, fra i due scoccando scintilla da cui s’originarono The Stiff Woodies, poi tramutati — nell’intento di trasmetter positive vibrazioni — in Nirvana, quindi adottando termine buddista indicante il culmine d’esistenza ascetica, e col quale, in definitiva formazione contando Dave Eric Grohl alla batteria e Georg ‘Pat Smear’ Ruthenberg alla seconda chitarra, nell’arco d’un settennio, dal 1987 al 1994, assursero a leggenda.
Nirvana significa liberazione dal dolore, dalla sofferenza e dal mondo esterno e questo si avvicina al mio concetto di punk.
Kurt Cobain
Fu nel 1991, l’album Nevermind, a catapultare definitivamente i Nirvana nell’empireo musicale e con tal potenza, da verosimilmente turbarne il supremo artefice: Kurt Cobain, animo mite e delicato che, a soli tre anni dall’aver esploso fulgente poetica sul mondo — stando a controversa e contestata versione ufficiale — chetò interior inferno, in fugace attimo spezzando respiro e così disseminando interrogativi, oltreché d’adorante presenza defraudando la figlia Frances Bean — per cui aveva toccato gioia paterna il 18 agosto 1992 — e la moglie Courtney Michelle Harrison ‘Love’.
Community Center, Ellensburg, 17 giugno 1988: nella Public Library s’esibiscono alcuni gruppi per lo più locali e Mark Lanegan, invitato da Dylan Carlson — chitarrista e fondatore degli Earth, conosciuto un paio d’anni prima in occasione d’un festival organizzato ad Olympia — data la partecipazione di una band guidata da un amico ed estimatore degli Screaming Trees, decide d’assister allo spettacolo, sopraggiungendo però in colossale ritardo sul programma, ma puntualmente, frattanto sul palco a chiuder serata, sale l’indicatagli formazione e pochi minuti bastano perché groove, intensità, oltreché impetuosa fisicità e stile di Krist Novoselic, lo rapiscano: «Una volta che i tre elementi hanno iniziato a suonare, la barriera di rumore, la cruda orecchiabilità delle canzoni, della voce del cantante e chitarrista mancino, mi resero consapevole d’assistere a qualcosa di straordinario. Probabilmente stavo guardando una delle migliori band mai incontrate e per assurdo nella fottuta Public Library di Ellensburg. Lo spettacolo fu interrotto appena dopo tre o quattro brani a causa del solito coprifuoco osservato nelle piccole città, momento in cui il possente bassista cominciò a lanciare il suo strumento fin al soffitto, per poi riprenderlo con una mano e con rabbia scagliarlo ancora, replicando più e più volte, finché la sala non è rimasta al buio. Uscendo dalla biblioteca, fui avvicinato dal cantante:
“Oh, grazie mille per essere venuto allo spettacolo”.
“Siete grandiosi! Uno schifo che questi idioti vi abbiano costretto a terminare”.
“Vi ammiro davvero anch’io e qualora vi servisse un’apertura o voleste provare una collaborazione, chiamatemi”.
Con una biro di fortuna ci scambiammo i numeri di telefono, usando il retro di un volantino dello spettacolo.
“Sicuro” — dissi — “vi terremo in considerazione, poiché davvero, mi avete sorpreso”.
“Grazie mille. E per favore, chiamami quando vuoi”.
“Lo farò”, replicai e dicevo sul serio, poi abbassai lo sguardo sul foglio e ne vidi la firma: Kurt».
Notte fu così auspice di sincero legame tra spiriti affini eppur distanti, peculiarmente crepuscolari, fuggevoli, disillusi, spregiudicati, cupi ed ironici, istintivamente consapevoli dell’ombre in sé, dell’umano essere e della dovuta, continua e non voluta lotta per ad esse sopravvivere; classico, e non differentemente definibile, ancestral ricongiungimento, che nulla, come già il primo istante lasciò intraveder, avrebbe potuto spezzare: «Tornai alla mia deprimente catapecchia elettrizzato e con ritrovato slancio. Non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea di aver appena vissuto un’esperienza grandiosa. Un paio di settimane dopo, rispondendo al telefono, udii una voce sconosciuta, lievemente nervosa e ansiosa:
“Mark Lanegan?”
“Sì…?”
“Sono Krist Novoselic, dei Nirvana, vorrei saper se siete ancora in cerca di un bassista, poiché non sopporto più di suonare con Kurt. Sono stanco di doverne sempre seguire le direttive”.
Rimasi in silenzio alcuni secondi.
“Sì, amico, stiamo cercando. Adoro il tuo stile e sarebbe fantastico averti nella mia band. Ma se fossi in te, proverei a risolvere con Kurt. Avete qualcosa di speciale”.
Non parlai mai della telefonata a Kurt. Fu semplice diventare amici, bastarono un paio di telefonate parlando di ragazze, musica, di vita. Amavo Kurt e lo invidiavo, perché dal primo istante in cui ascoltai i Nirvana, capii essere un gruppo evoluto. La differenza tra loro e i Trees era limpida ai miei occhi. I Nirvana erano già il gruppo che sarebbe diventato: avevano brani grandiosi, un cantante grandioso e grandioso l’aspetto, avevano tutto. Nei Trees invece, regnava la discordia: ai dissapori interni si aggiungevano contrasti con i sostenitori, promotori, buttafuori, una lotta perenne per qualsiasi ragione. Nonostante tre dischi realizzati non sapevamo cosa cazzo eravamo. Mancavamo d’un’identità che non fosse la fama derivata dalla follia di un live».
Similmente ad alba, naturale emerse brama d’intrecciar ispirazione e nelle sale del Reciprocal Recording — studio di registrazione nel quartiere Ballard di Seattle — sorto ad opera di Chris Hanzsek e gestito assieme a Jack Endino — idea confluì e battezzatisi The Jury, col supporto di Krist Novoselic e Mark Pickerel, rispettivamente al basso e batteria, s’accinsero a realizzar LP che al contrario, né Cobain, né Lanegan riuscendo ad assumer controllo in virtù di reciproca stima, mai si concretizzò e del proposito, null’altro rimase se non cover del folk, In the pines — altresì nota al titolo Black girl e Where did you sleep last night? — le cui radici si perdono nella notte dei tempi e attraversando generazioni, da mano del compositore inglese, Cecil James Sharp (1859-1924), apparsa su spartito nel 1917, mentre delle infinite interpretazioni succedutesi nel corso degli anni, a vantar maggior menzioni, versione dell’illustre bluesman, Huddie William ‘Lead Belly’ Ledbetter (1888-1949), potente accento e polistrumentista virtuoso della 12 corde, venerato da entrambi gli artisti, Lanegan peraltro raccontando — in un’intervista al New York Times — d’esser entrato in possesso d’una copia del 78 giri originale Musicraft del 1944, durante l’infanzia, ricevendola in dono dal padre, egli avendola «scovata all’interno di una scatola colma di dischi blues, abbandonata nella soffitta di una vecchia scuola».
Il 18 novembre 1993, tributo Kurt Cobain incise nei Sony Music Studios, al termine dello spettacolo un mese dopo trasmesso da MTV e il 1° novembre 1994 presentato in veste d’album, Unplugged in New York, unico lavoro acustico dei Nirvana; omaggio con quattro anni d’anticipo, altrettanto registrato e pubblicato da Mark Lanegan, nell’esordio da solista The Widing Sheet, debutto in cui voce e chitarra di Cobain emergono anche in Down in the dark, l’autore mai negando di riconoscergli — nel libro Sing Backwards and Weep ponendolo persin a a fianco di personalità artistiche come Bowie, Dylan, Hendrix e Lennon — impareggiabile genialità e d’altronde in Cobain suscitando egual ammirazione, stima e vicinanza d’un fratello maggiore, fidente e col quale potersi confrontare, bruciare dischi e giornate.
Tra i ricordi più belli di quando frequentavo Kurt, lo stare semplicemente seduti nel suo capanno, ascoltarlo suonare la chitarra acustica e cantare. Per me era come esser in compagnia di Skip James o Lightnin’ Hopkins. Era così profondo e reale, da darmi i brividi.
Mark Lanegan
Baby, you’re going down in the dark
Sure, my lonely night is falling
And I don’t have very long
Think my blood might boil
Within my veins, might burn
And you’re gonna make it better for a little while
Baby, you’re gonna die someday
See you when you’re crawling, wasted
Until you start to fade
Laugh when we start sinking faster
I wouldn’t wait so long
It won’t get any easier in the dawn
But you will
You will
You will
You will
Baby, you’re going down in the dark
Believe my lonely night is falling
I don’t have very long
Think my blood might boil
Within my veins, might burn
And you’re gonna make it better for a little while
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