Viaggio sul treno della Musica (cap.7)
Fu in territorio sassolese che la passione musicale d’un ragazzo dalla profonda voce ne brecciò cuore e pensiero, coltivata fra mura domestiche in cui, nonostante le necessità primarie non mancassero, mai il superfluo si concesse nei beni materiali, nemmeno una radio attraverso la quale dissetarsi di musica che il giovane, una volta venticinquenne, ebbe possibilità di sperimentare su una chitarra lui donata in prestito. Pathos d’autodidatta dapprima e passo di compositore in seguito, il legame con lo strumento si fece carriera e missione, percorse sul binario di un’esistenza già messa a dura prova dalla disabilità che fin dai primi mesi di vita, causa un episodio di poliomielite, lo costrinse alla sedia a rotelle, immobilità fisica che non ne limitò il volo cantorio ed il trasporto conseguente all’ascolto del suo saper cantare interpretando gli eventi più drammatici.
Parole, le sue, che, a cavallo fra gli anni settanta ed il passaggio di secolo, si fecero melodie che divennero messaggio di protesta nei confronti delle ingiustizie sociali e politiche dell’epoca, nonché denuncia dell’ipocrisia religiosa, sfiatate in diretta sincerità e filate come storie da raccontare al suo pubblico in poetico cantautorato intriso di bontà, genuinità ed immediatezza di comunicazione.
Ambito civile e sociale i prediletti del suo pensare, intrecciato a musical nota, la difesa dei più deboli e l’assurdità della guerra s’unirono a lui in canzoni che di senso popolare ed umano fecero il proprio nutrimento, nobilitandone la capacità artistica al cospetto dell’uomo che dagli eventi seppe non farsi travolgere, facendo d’ostacolo timone e navigando in orgogliosa fierezza sul burrascoso esistere.
Il Treno
(Pierangelo Bertoli)
Quando partì con l’ordine di leva la madre lo pregò di riguardarsi
Salì sul treno come un condannato
Piegò le spalle e finse di adattarsi
Sentiva freddo e aveva un po’ paura
E poi si rifiutava di accettare che un pezzo della vita dovesse regalarlo
Per divertire qualche generale
Così arrivò, trovò la sua divisa
Gli diedero un assetto militare
La disciplina, l’indottrinamento, rispondere di sì senza pensare
S’armò di gloria, di sacre convinzioni
Qualcosa che ti cambia, ti snatura
Un corpo senza mente che spara, spara e uccide per procura
Un treno è passato una volta e non è più ritornato
Da noi son rimasti un bambino ed un vecchio soldato
Che resta lì tutto il suo tempo e narra giorni migliori
Racconta una guerra perduta e la chiama valori
Si ritroverà tra ignoti contendenti portando con le armi la sua pace
Sapremo poco dei combattenti dal fronte quasi sempre tutto tace
E dietro al fronte dovremo adoperarci
Installeremo missili a milioni
E quindi scopriremo che in fondo siamo solo dei coglioni
Avremo ancora fulgidi ideali, un capo senza macchia da seguire
Un angelo di morte che corre, corre e uccide l’avvenire
Un treno è passato una volta e non è più ritornato
Un treno è passato una volta e non è più ritornato
Da noi son rimasti un bambino ed un vecchio soldato
Che resta lì tutto il suo tempo e narra giorni migliori
Racconta una guerra perduta e la chiama valori
Il vecchio da dentro il cancello non vede nessuno
Ignora le tracce di sangue coperte dal fumo
Racconta di nobili gesta di patrie guerriere
Risveglia fantasmi passati per farne bandiere
Il treno di Bertoli, album Dalla Finestra, 1984, sfreccia sotto la pelle d’una madre nella cui preghiera di riguardarsi fatta al figlio in partenza per il fronte, sta tutta la dignità della disperazione materna che non vuol esplodere agli occhi della prole, inimmaginabile afflizione che nel ragazzo cresce fino a divenir senso di condanna, finzion d’adattamento, freddo e paura, concretizzatisi nell’uniforme che abbiglia corpi fattisi burattini dai pensieri abbottonati, resi inermi fra estrema disciplina ed ingannevoli indottrinamenti.
Corpi snaturati nel loro pensare e magistralmente istruiti al recidivo sparo in nome dell’effimera gloria, real quanto crudele favella spiegata all’infanzia dalla saggezza degli vecchi soldati, uomini i cui timori si fan protettiva staffetta di speranza in giorni che s’attendono migliori, dilatati nel tempo ed incerti nell’accadere, narrando di guerre perdute e di valori che si fan amo nel palato e missili fra le mani di chi si trova a combatterle.
Coglioneria che del senno di poi si farà guida, bellico scontro fra terrore e morte idealizzato che sui campi di battaglia sarà medaglia d’onore al servizio del generale senz’apparente macchia, militare marionetta in ballo sul giovane avvenire che si spezza sul terreno, sangue e lacrima che notizia non daranno, in penoso soccombere sotto plumbei cieli densi di fumo fra patriottiche gesta, fantasmi del passato esorcizzati a bandiere e treni la cui partenza non avrà ritorno.
25 Aprile
(Vinicio Capossela)
Benvenuta
stava scritto sui fiori per te
ma io rimango solo
solo qui
coi fiori e le speranze
non chiedermi perché
quanta gente aspetta un treno
e come gli altri io sicuro
aspettavo te
Dio quanto tempo
son felice di vederti
hai fatto tardi non importa
ma non ferirmi un’altra volta
e ho comprato champagne e pasticcini
e mi son sentito quasi un uomo
a trattarti da signora
e a scordarmi quel che è stato
ti offrirò la mia allegria
quel che non posso dare agli altri
e anche io lo sai
so ridere e scherzare
preparo la faccia da proporti
un po’ stupita, un po’ contenta
ecco sono pronto ad incontrarti
e ho una macchina nuova
tutta pronta per portarti
verso nuovi sentimenti
più maturi, più contenti
che amarezza però
rimanere così da soli
sul marciapiede
mi vengono in mente le altre volte
ad aspettare te
e non c’è niente più da fare
aspettare un altro treno
tu non verrai e che stupido son stato
venire subito da te
chiederti perché
ma non importa,
che t’importa
m’infilerò in questo locale jazz
ti cerco un po’ prendo una birra
e un altro po’ d’amore
se ne va
Fra appassionati tocchi di pianoforte, profondità vocale ed interpretazione cantoria che di musicante fa artista miscelato al proprio canto, Capossela scioglie malinconico mal di cuore, se in sentimental chiave si vuol interpretare il brano in questione, sui binari d’una nostalgia amorosa che in solitudine si concreta sull’asfalto d’un marciapiede.
Nell’attesa d’un treno in bramoso desiderio di ritrovar l’Amore, fievole speranza si suddivide nell’essenza con timorosa disillusione, mestamente ancorata ai ricordi dei tempi che furono, trascorsi tra ferite e rinascente allegria che, titubante sul nascere, materializza alla mente l’immagine di un nuovo incontro. Resta l’amarezza del disincanto, in sopraggiunta consapevolezza che nell’invano attendere trancia l’illusione, unita alla personal contezza che da emotivo impulso fila coscienza di stupidità e drenata in sofferenza di neuroni che, fra una birra e note di jazz, scemeranno il patimento.
Quarta traccia dell’album Modì, 1991, il titolo del brano rimanda a storica data il cui intrinseco ardor partigiano è argomento caro al Vinicio uomo e cantante, motivo per cui, in azzardata ed alternativa interpretazione del testo, verrebbe da metaforizzarne il contenuto in allegorico desiderio di libertà, aspirata nel suo valore universale ed assoluto, contrariamente e rassegnatamente assaporata in altalenante andirivieni sul corso degli eventi.
Sesta traccia in medesimo album, Ultimo Amore conduce in passo di ballo nella magica atmosfera delle serate estive, ove la nascita di un’attrazione inaspettata, sapientemente narrata nel brano, coglie nel petto un uomo ed una donna che Vinicio descrive fra voce ed intonazione in maniera paradisiaca, unendo alla descrizione degli stessi immagini di luoghi che si materializzano alla mente in tutta la loro beltà, quasi ch’egli riesca a farne percepire profumi e colori, così come il vortice di passione che, fra parole e timbro vocale, avvolge i due protagonisti in carnal congiungimento del quale si captano movimenti e vibrazioni in incantevole unione di mente e spirito. Ardor di coppia che satura pelle e sguardo, ma che nella donna non riesce a lenir la disperazione per la perdita d’un precedente Amore, gettandone corpo e disperazione fra binari e ruote di locomotiva.
Il treno è un lampo infuocato
Se si guarda impazziti il convoglio venir
Un momento, un pensiero affannato
E la vita è rapita senza altro soffrir
La poteron riconoscere soltanto
Dagli anelli bagnati dal suo pianto”
Il pianto di quell’ultimo suo amore
Dovuto abbandonar
Macabra vista che nell’uomo, gendarme, si fan vuoto e sofferenza che esplode le vene, sciolta fra crepacuore e ricordi di quell’attimo fuggente che in loro unì anima e vissuti nella passione più intensa, infinita nella brevità, imperitura nella memoria, perforante nel rancoroso dolore.
Quando dopo al profumo dei fossi
A lui parve in quegli occhi potere veder
Lo stesso dolore che spezza le vene
Che lascia sfiniti la sera
La luna altre stelle pregava
Che l’alba imperiosa cacciava
A lui restò solo il rancore
Per quel breve suo amore
Che mai dimenticò
Canzoniere dell’universalità umana, è in Capossela l’arte del racconto attraverso esperienze di viaggio durante le quali egli osserva, assorbe e rimusica il mondo in camaleontica interpretazione.
Natali ad Hannover, origini genitoriali in Irpinia e figlio adottivo di terra emiliana, sta in lui la magia delle radici che in viscera ramificano senza necessità di suolo al piede, in perenne vagare che di diversità fa tesoro e materia prima da plasmare a melodia, fra insaziabile sete di sapere e travolgente evoluzione mentale, indomabile nell’onda emotiva che ne distingue l’approccio alla vita ed incomparabile nella caratura artistica.
Poeta di strada e trapezista del proprio vocal timbro, passion di suono ne ha unito bizzarri e differenti strumenti fra cui l’Er uh (sorta di violino cinese), il Balafon (xilofono africano) ed il Theremin (strumento elettronico che si basa su oscillatori e frequenze da essi originate) che nell’album Ovunque proteggi del 2006, tredici brani fra luoghi mitici e reali in mistico approccio, intrecciano ancestrale cultura a disarmante poetica d’esecuzione. L’ultima traccia, title-track, commuove profondamente nella pienezza di protezione che animi magnanimi sono in grado di donare, quella preziosa inclinazione all’accudimento che il fiato di Vinicio sa rendere incanto nell’ascolto, lasciando che il brano si sorseggi in estatico e fasciante stato di benessere.
Ovunque proteggi la grazia del mio cuore
Ovunque proteggi la grazia del tuo cuore
I Treni A Vapore
(Ivano Fossati)
Io la sera mi addormento
E qualche volta sogno
Perché voglio sognare
E nel sogno stringo i pugni
Tengo fermo il respiro
E sto ad ascoltare
Qualche volta sono gli alberi d’Africa a chiamare
Altre volte sono vele spiegate a navigare
Sono uomini e donne, piroscafi e bandiere
Viaggiatori viaggianti da salvare
Tra le città importanti io mi ricordo Milano
Livida e sprofondata per sua stessa mano
E se l’amore che avevo non sa più il mio nome
E se l’amore che avevo non sa più il mio nome
Come i treni a vapore
Come i treni a vapore
Di stazione in stazione
E di porta in porta
E di pioggia in pioggia
E di dolore in dolore
Il dolore passera’
Io la sera mi addormento
E qualche volta sogno
Perché so sognare
E mi sogno i tamburi
Della banda che passa
O che dovrà passare
Mi sogno la pioggia fredda dritta sulle mani
I ragazzi della scuola che partono già domani
E mi sogno i sognatori che aspettano la primavera
O qualche altra primavera da aspettare ancora
Tra un bicchiere di miele e un caffè come si deve
Questo inverno passera’
E se il mio amore di ieri non sa più il mio nome
E se il mio amore di ieri non sa più il mio nome
Come i treni a vapore
Come i treni a vapore
Di stazione in stazione
E di porta in porta
E di pioggia in pioggia
E di dolore in dolore
Il dolore passerà
In piena sfera onirica, i treni di Fossati, scritti per Fiorella Mannoia nel 1991 e da lui stesso portati in live nel 1993, si fan staffetta fra relazioni e tormenti. È la voglia di sognare che fa stringer i pugni, trasportando mente e corpo in desiato peregrinar fra esotiche terre africane ed in cullante dondolio fra le onde marine.
Rimembra Milano, il genovese cantautore, quella da bere, quella ferita dal suo stesso produrre, territorio meneghino nella cui aria Amor del passato ha affidato il nome dell’amato, probabilmente obliandosene. Ma son gli eventi della vita stazioni stesse dell’umano transitar sull’esistenza, animi sbuffanti il passato e dolorosi sul presente, proiettati nel futuro in rivincita sull’invernal stato d’animo che perder non vuole la capacità di vagheggiare.
Tempo a ritroso che riporta la mente ai banchi di scuola, ove i ragazzi da studenti si fan giovani in militar partenza, in susseguirsi di primavere che, in balia delle stagioni, maturano la gioventù accelerando il vivere, spalmato sui binari d’un percorrere che non vuol arrendersi al dolore.
Compositore polistrumentista, tipico d’Ivano è il porre l’accento sulle vicissitudini umane (probabilmente segnato dall’abbandono del padre al primo anno di vita) e l’unire alla tematica del viaggio la sua intensa produzione scrittoria, in variabilità di genere musicale che ne ha concretizzato il valore d’uomo e d’autore. Riferimento dell’epoca come scrittore di canzoni per numerosi artisti, il suo getto d’inchiostro ha infiammato l’ugole delle personalità cantorie più carismatiche, unendo capacità delle stesse a testuale espressività di contenuto.
Successivo taglio, maggiormente cantautoriale, alla propria carriera e conseguenti esibizioni live lo accompagneranno fra gli anni 80 ed i 90, in incessante evoluzione temporale, nei generi come nell’argomentazioni, a dimostrazione d’essere musicista magmatico dalla cui interiorità attingere, in libero afflato di sé sulla carta, sul suono, sullo strumento, sul pubblico. Finezza di sentire lo accomunerà a differenti artisti, in particolar modo a Fabrizio De André ed a Francesco De Gregori, anime affini ed intersecanti, con riguardosa collaborazione, il suo animo schivo e riservato, seppur fermo nel rispetto delle proprie inclinazioni.
Ha saputo essere carrozza e binario, Fossati, nel suo inconfondibile stile gentilmente diretto che ne fa contenitore in movimento di vocaboli ch’egli sa amalgamare con lealtà e purezza, direzionandone i suoni con l’esperienza tipica di colui che nulla lascia al caso, sostenendone il peso del significato e definendone la tratta tematica fra sé ed il mondo esterno, quasi che le parole fossero un meraviglioso tappeto di velluto, srotolato nel panorama storico-musicale della canzone italiana ed invitante al passaggio a piedi nudi, in sperimentale contatto a pelle fra l’ascolto e l’immedesimazione. Approcci musicali nati fra le mura della sua Genova e traslocati in brezza fra il suo porto ed il Bel Paese, in significativi arrangiamenti di ballate leggendarie, suggestive nei toni, nei luoghi, nei sentimenti, rimodellati in poliedricità, unicità, irrequietezza e pervicacia, peculiari al musichiere dell’animo impermeabile alle lusinghe del successo, ripudiando a tal proposito la smisurata fama del brano La Mia Banda Suona Il Rock, cocciutamente fedele ai propri principi e semplice “modulazione di frequenza” di se stesso e del proprio donarsi schietto.
Mi voglio staccare da quella che si chiama comunemente attività discografica, il mestiere, l’avere a che fare con la promozione, anche l’avere a che fare con il girare il mondo che mi piace tanto e il dover stare attento vedere tutto per catturare tutto, prestando attenzione agli avvenimenti, a quello che dice la gente e ai colori, a tutto quello che avrebbe potuto servirmi per scrivere canzoni. Da questo punto di vista comincerò a viaggiare e a vedere le cose in un altro modo. Mi sentirò più libero.
Il Treno Va
(Paolo Conte)
Dir che ti penso
è un controsenso
perché sei sempre qui, sì
tra le mie dita
come la vita
che in un sorriso vivi
Il treno va
scomparirà
sulle sue ruote rotonde
dietro alle nuvole bionde
Io sono qua
rimango qua
in quesa ruggine densa
come qualcuno che pensa a un treno
Tu dove vai?
con quei begli occhi che hai
ritornerai
me l’hai promesso, lo sai
Il treno va
scomparirà
dietro le nuvole bionde
sulle sue ruote rotonde, ormai
Tu dove vai?
con quei begli occhi che hai
ritornerai
me l’hai promesso, lo sai
Il treno va
scomparirà
sulle sue ruote rotonde
dietro alle nuvole bionde, ormai
È «con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così» immaginata dal Paolo, genovese d’adozione, sul viso tutti coloro che hanno avuto modo di visitare la città a lui tanto cara, che la vigorosa e graffiante poetica dell’astigiano cantautore, cardine indiscusso della musica italiana, colpisce a fondo e conduce nelle profondità dei sensibili animi che dal fascino della veracità san farsi sedurre.
Trasparente, incontaminato, benignamente sardonico, nativo nel comporre e nel cantarsi, peculiarità d’operato ne han contraddistinto carriera e vita, in pura dedizione al proprio spirito, in preludio ed epilogo musicalmente effusi sull’interezza del proprio arco vitale. Di stile coeso ed erudito, pazientemente ricamato fra pianoforte e voce, a passo di jazz, passione, sensibilità, malinconia, fervida immaginazione e riservatezza ne han dipinto la purezza del porsi in popolar lealtà artistica ed umana, mai schiavo della retorica.
Osservatore disincantato della vita e dei suoi cinismi, d’amabile e munifico sarcasmo spalmato fra parole ed opinioni, distacco e coinvolgimento han trovato in lui il giusto compromesso, filandosi a generazionali ballate sul mondo e sul bislacco viverci del popolo ch’esso ospita, rispettosamente discorrendone in perenne evoluzione stilistica e pensante, seppur fortemente ancorato a saldi principi, quasi fosse montagna erosa nelle vette, ma fieramente rocciosa al suo interno.
Sbuffante in seconda traccia sull’album 900 del 1992, Il Treno Va di Conte strabocca d’amorevole tenerezza ed incanto, condensati fra il viversi ed il pensarsi, fra un intreccio di mani che si fa nostalgia ed un sorriso che dona vitalità agli istanti. Un allontanamento su rotaia tra desiderio di ritorno ed abbraccio che si fan ruggine nel palpito, speranze incagliate fra un interrogativo ed una promessa, sciolte fra l’intensità d’uno sguardo e l’anelante struggersi al pensiero di potersi riperdere nella sua intensità.
Assenza di risorse conseguenti all’amorosa partenza che nel cantorio sfiatar di Celentano si tramutano in svolazzanti note fra un’«oleandro ed un baobab» nell’Azzurro brano composto dallo stesso Conte e da Michele Virano, paroliere Vito Pallavicino, inciso da Adriano nel Maggio del ‘68 e posatosi internazionalmente su milioni di bocche in allegro canticchiare.
Canzone caposaldo d’ogni memoria, in melodia e testo, l’accaldata immagine del giardino in cui energici raggi solari si contendono il celeste con il fischio d’«un aeroplano che se ne va», rientra fra le collettive raffigurazioni alle quali ogni mente dona personal colore e contorno, universalmente confluenti nell’ardente senso di strappo che si percepisce fra carne e cuore nell’assenza della persona che si vorrebbe accanto, la cui appassionata ricerca s’affida ad un timido «quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te» che il sol leggerlo riporta a suono e canto in meraviglioso balzo temporale.
Prosperità di contenuto e potenzialità che in Paolo Conte furono creativa freccia saettante sulla motivazione a credere che la tal canzone avrebbe prestotempo vestito l’abito della fama: «Mi resi conto subito che era una bella canzone, poi quando seppi che l’avrebbe cantata Adriano Celentano capii che era destinata al successo».
Il Treno A Vela
(Lucio Dalla)
Era appena uscito fuori che sua madre gli diceva
Quando arrivi almeno telefona
poi in mezzo alla strada si è voltato per vedere Ferrara e la sua casa mentre nevica
tra un’ora sono lì, prendo un treno e sono lì
Arriviamo giusto lì che c’è ancora un po’ di luce
Eccola lì la Jugoslavia quanti alberi come è verde
Ha un qualcosa che mi piace
Va corre in fila verso il duemila
Ma il treno non si ferma, anzi a vedere come corre
Va sempre più lontano,
Passa le foreste dell’Europa i ponti, le case
Fino alle linee della mano
Chissà chi era mio padre, chissà chi era mia madre
Dimmelo
Sigarette americane, avessi almeno un po’ di pane, soldi
Puttane sono libero
Va corre in fila il treno verso il duemila
La stazione di Milano città della moda e dei miracoli
Il treno rallenta va più piano
Non si vede nessuno andiamo via
Più in là c’è un ponte sul fiume con migliaia di soldati
Ed alcuni carrarmati
Passano il confine tra l’Austria e l’Ungheria
Il treno corre per l’Europa tra due ali di fascisti
Vecchi, nuovi misti
Poi sotto un cielo nucleare, mai visto, irreale
Passa un gruppo di montagne siamo in Russia
E io che volevo telefonare, non ho niente da mangiare
Come nevica
Teresa son qui dentro un sogno
Dentro un sogno tutto bianco sopra un treno e sono stanco
Non lo so mi stan guardando, sono in tanti qui
Han la faccia e le mani degli zingari sono tanti come il vento sono liberi
Sono i pensieri della notte, tra le nuvole della notte
…Ma corre in fila il treno verso il duemila…
…Il treno verso il duemila…
Decima ed ultima traccia dell’album Henna, 1993, il treno di Lucio parte da un’innevata Ferrara, fugacemente salutata da un giovane in partenza sul quale l’apprensione materna si concretizza nella richiesta di una telefonata all’arrivo.
Sguardo al panorama, in giro completo di quadrante territorio jugoslavo prende forma ai suoi occhi, bellezza di fauna e terreno di guerra che a fatica si concepiscono sotto lo stesso cielo, attraversati da un metaforico vagone che di storia e vita si fa trasporto sui continenti, sui loro abitanti e sulla loro pelle, la di cui superficie il marchio bellico ha marcato con cicatrici, accorciandone troppo spesso le linee vitali. Social locomotiva nell’est Europa post comunista, orfana del muro di Berlino e paradossalmente smarrita nel gestirne la caduta, sola, instancabilmente guerrigliera nel sostener l’irrefrenabile passaggio di soldati, vecchie e nuove ideologie, carri armati, quell’insensato marciar che mai avrà fine, in perenne transito verso il duemila. Un nuovo secolo, una vecchia storia, una lunga tratta che sovietiche vette abbracciano fra nevoso manto e nuclear atmosfera, in cui trasversal timor che nulla cambi pervade gli animi, disincantando speranze fra notturni pensieri e realistiche visioni.
Lucio.
Dalla.
Il sol nominarlo dà brivido al pensiero e vuoto al battito nel rammentarne la precoce discesa dalla sfera terrestre. Un assenza corporea, esclusivamente fisica, che lascia in eredità nobiltà di pensiero, accuratezza dell’esistere, delicatezza di passo e sanguigno rispetto della vita e delle idee, in filantropico porsi sul mondo in qualità di fratello, padre, amico, cantore e poeta, testimone assoluto dell’arte come forma universale di comunicazione e risveglio dai torpori d’animo in cui l’uomo tende ad adagiarsi, oscurandosi a se stesso.
Innovativo, eclettico, gentilmente provocatorio e profeticamente elegiaco, la sua Bologna arricchì il proprio suolo di magnifica essenza nell’accoglierne i natali il 4 Marzo del 1943, terra dalla quale potenza di strumenti musicali iniziò a scorrer nelle sue vene fin dalla giovane età, tessendo fitta trama fra pathos e pensiero e stimolandone attitudine sartoria a ricamar parole, rammendando musica sui cuori.
In motivato esordio jazzistico, intersecato ad embrionale gorgheggio vocale in stile riferibile all’idolo di sempre, James Brown, la testardaggine che lo sostenne nel capitombolo del primo 45 giri dissetò il proprio persistere nella leggendaria 4/3/1943, della quale, nei sanremesi palchi del 1971, terza classificata, ipocrisia di stampo cattolico censurò alcuni tratti, miseramente privandosi del ristoro che il libero cantare concede all’animo.
Caliente, puro, genuino ed immenso contenitore di suoni e brani raccontati in passo di danza sulla propria pelle, liberal e generosa predisposizione alla condizion di debolezza e miseria dell’essere umano son stati in Lucio leva motivazionale, emotiva e testuale di prim’ordine che in Piazza Grande, volendo citare un unico brano in sofferente, ingrata e difficoltosa scelta, erutta pacata seppur profonda insofferenza nei confronti d’un senzatetto al quale la vita, ed i Santi tutti, han voltato le spalle. Un garbato monologo musicale di colui al quale si possono perfino immaginare i tratti somatici, sicuramente gli occhi, che non ha perso intensità di sguardo nel captare la bellezza dell’Amore ed il senso dell’amicizia nonostante l’atrocità della condizione esistenziale dignitosamente subita e dolcemente manifestata in desiderio di tenere carezze, richiesta d’affetto e di sogni che, in quell’«anch’io», graffia dentro e fa terribilmente male, lasciando ferite aperte sulle riflessioni più intime ed incredulità di fondo attraverso la quale chiedersi come disperazioni ed ingiustizie simili abbian modo d’esistere e concretizzarsi.
Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è
Sulle panchine in Piazza Grande
Ma quando ho fame di mercanti come me qui non ce n’è
Dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me
Gli innamorati in Piazza Grande
Dei loro guai dei loro amori tutto so, sbagliati e no
A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io
A modo mio avrei bisogno di sognare anch’io
Rimane il flebile sollievo all’ascolto del grido più maestoso, fiero, seppur modesto e composto nell’evocarsi: «Ma la mia vita non la cambierò mai mai, A modo mio quel che sono l’ho voluto io», esemplare insegnamento di come l’umiltà, l’incapacità di provare odio e la resiliente apertura alla vita, siano l’unica e preziosa ricchezza senza la quale qualsiasi materialità, se non vissuta come semplice mezzo, svalorizza il proprio potenziale fra cecità e silenzio emotivo.
La scrissi alle isole Tremiti nel ’71, poi la portai a Sanremo, è stata una canzone che ha avuto sempre più successo col tempo, l’argomento era aggregante, al di là della forma musicale, si prestava ad una fruizione popolare. È solo una canzone. Io non sono di quelli che hanno bisogno di sentirsi definire poeti, le canzoni non hanno a che vedere con la poesia, hanno una loro autonomia, sono frutto di un percorso loro, di una ricerca che ha una sua dignità e un suo posto nell’immaginario collettivo, nella memoria di tutti, credo sia stato riconosciuto anche questo.
Il treno, simbolo e voce del viaggio umano
Nella lontana posa del primo pezzo di ferro, che rotaia sarebbe divenuto, s’unirono sogni e fatiche, sofferentemente traslate dalle menti alle mani di coloro i quali, spesso diseredati o provenienti da condizioni di schiavitù, pertanto con nessuna opportunità lavorativa in altro ambito, nutrirono e rigenerarono il proprio animo, sentendosi parte attiva nella realizzazione d’un progetto su cui ricamare la propria idea di libertà, ponendo fissa base a quello che, nella possibilità di movimento, avrebbe rappresentato, in allegoria e sostanza, un necessario riscatto da condizioni di miseria ed emarginazione.
L’importanza che le Ferrovie ebbero negli Stai Uniti trascese la mera concezione del trasporto, attecchendo nella cultura popolare in maniera capillare, intrecciando sforzi, ideali, chimere, malesseri e speranze, sputati fra sudore e spossatezza e miscelatisi in musica che, alla prostrazione dell’incessante opera di costruzione, portata avanti in condizioni disumane, aggiunse calor di nota fra ballate e solitari canti d’ugola, ristoratori delle schiene piegate al suolo.
Sentor di movimento che oltrepassò ogni barriera, concettuale e logistica, in abbeveraggio alla sete di giustizia ed uguaglianza che, per secoli, appassì l’uomo, dalla stessa sfregiato in vituperevole maniera, sfruttandone in egual modo la forza fisica nella messa in opera di un percorso transcontinentale che, nel 1869, giunse ad unire Atlantico a Pacifico, ponendo pietra miliare d’un nascente progresso, giovante per alcuni, massacrante per altri.
Locomotive all’interno delle quali si sovrapposero storie di vita, elevate a melodie nel corso dei decenni ed intersecanti ideologie, ribellioni, movimenti giovanili urlanti la propria brama d’affermazione al di fuori di borghesi logiche, plasmanti l’individualità a servizio dell’idea comune alla quale l’uomo avrebbe dovuto tendere. Vibranti fischi or di piazza, or di palco, or di cattedra, transitanti sull’esistenzialità dell’individuo inteso come peculiare essere vivente in sacrosanto diritto d’affermare il proprio pensiero, senza bavaglio o catena, mentale o fisica, che ne sopraffacesse mente e respiro.
Carrozze malinconiche, a bordo delle quali han viaggiato emozioni nostalgiche, esternate in pianto per la lontananza da casa o rinate in timidi sorrisi per coraggio di fuga dalla stessa.
Vagoni in egual modo struggenti, nel custodir al proprio interno i sentimenti più amorevoli, tristemente sospirati in un addio o svolazzanti come farfalle nello stomaco nell’imminente riabbracciarsi.
L’uomo, il suo vivere, il suo coraggio. Lotte di secoli fra giochi di potere e conseguenti ingiustizie che la musica ha saputo percepire, raccogliere, elaborare, far proprie ed eruttare al mondo, celere come un treno che di stazione in stazione porti uno strimpellante messaggio, melodica unione fra passato e presente, in sonoro appoggio e fidente sguardo al futuro. Ma anche commoventi racconti d’Amore, preziosa molla interiore, trampolino unico dal quale lanciarsi in un salto che garantisca il non perire.
E allora forse davvero ogni rivoluzione ha importanza nel suo partire dal cuore di ogni uomo, una rivoluzione bonaria, non guerrigliera se non nella sfumatura che conduca l’animo in un lento incedere verso la libertà, un cammino ove il traguardo, seppur lontano ed all’apparenza irraggiungibile, sia stimolo al rimaner fedeli a se stessi, al restare appassionatamente affrancati alle proprie radici nel momento in cui si decida di spiccare il volo, nonostante le sofferenze e le difficoltà ad esso intrinseche.
Un incessante parlarsi, viversi e considerarsi nelle proprie essenze ed inclinazioni, nella resilienza tipica di coloro che non accettino di plasmarsi alle altrui imposizioni, lottando ininterrottamente nella consapevolezza che alla tranquillità dell’ipocrisia sia preferibile la tempesta della felicità, sgusciata della sua sfumatura chimerica e rivestita di possibilità. Un sofferente evolversi nell’ascolto delle proprie inquietudini, un errante slancio emotivo sul filo di percezioni e timori, rafforzati dalla convinzione che lasciar che il proprio cuore mantenga nomade passo, sia l’unico modo possibile affinché lo stesso non sprechi i propri palpiti nell’inerzia dell’immutabilità, marciando sui propri binari a suon di musica, sbuffando vita e soffermandosi soltanto una volta raggiunto lo stato di benessere.
Che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va,
catene non ha, il cuore è uno zingaro e va, e va,
finché troverà il prato più verde che c’è,
raccoglierà le stelle su di sé,
e si fermerà, chissà… e si fermerà
(Il Cuore È Uno Zingaro, Nada)
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