Viaggio sul treno della Musica (cap.6)
Vennero alla musica una graziosa donna ed il suo banjo, amandosi in discendente tocco di dita che da rigidità sulle corde ricamò particolarità di suono ed unendosi a melodia di voce che di calor e profondità fecero abbraccio al sentire nel suo senso più lato.
Hedy West, bangioista, chitarrista e cantautrice folk, la cui anima s’agganciò al mondo nel 1938, in lieve posa fra le montagne della Georgia settentrionale, a Cartersville, figlia d’un poeta, organizzatore di lavori in miniera, nipote d’uno zio violinista ed allietata dal suono del banjo fin dalla più tenera età, essendone la nonna paterna, Lillie Mukley West, suonatrice dello strumento che, nella bimba di allora, fu breccia al cuore e stimolo saettante sull’intero percorso esistenziale. Cantando fin dall’adolescenza nei festival popolari, poetica paterna e “strimpellar di nonna” si fusero in lei e nei suoi testi, originando interesse primo nei confronti del mondo operaio, nonché delle donne emarginate e madri in condizion di solitudine.
Revivalista popolare della medesima generazione di Judy Collins e Joan Baez, Hedy suonò il banjo in due differenti stili, ossia lo clawhammer, tipico degli anni quaranta ed in evoluzione sul precedente stile di Joel Sweeney, con direzione discendente di picking in cui, mentre il pollice pizzica la quinta corda, le rimanenti dita, unite e piegate quasi ad uncino, scorrono in discesa sulle altre, quasi sfiorate dal polso ed un secondo stile, a lei caratteristico, in cui l’utilizzo delle tre dita si discostò dalle tipiche influenze del bluegrass.
Memore di melodie cantate in sua presenza dallo zio, ricordi d’infante la condussero alla composizione di quella che fu la sua canzone più celebre, 500 Miles, brano in ripresa tematica sulle vecchie canzoni folk statunitensi, in cui distanza da casa, nostalgia, frustrazione, povertà e disincanto, si fan protagonisti in velocità sul binario della vita, vissuta fra disillusione, speranza, desiderio e rassegnazione d’un viaggiatore i cui pensieri giungono fra note e fischi nella brama di fermar il proprio viaggio ed adagiarsi nella dolcezza del sentirsi finalmente a casa.
If my honey said so
I’d railroad no more
I’d sidetrack my engine and go home!
And go home
And go home
And go home
And go home
I’d sidetrack my engine and go home!
Reinterpretata da moltissimi artisti, nonché dalla stessa Joan Baez, sarà la versione francese di Richard Anthony, nel 1962, a trasformare 500 Miles in malinconica canzone d’Amore sulle note di Et J’entends Siffler Le Train, raggiungendo notevole successo (ventidue settimane in pole position nelle classifiche) e numerose cover della stessa, fra le quali l’incantevole interpretazione di Franco Battiato, nell’album Fleurs del 1999, dove sibilo di treno fischia sulla tristezza d’un addio che si fatica a concedersi, nella speranza di rivedersi.
Et j’entends siffler le train
Que c’est triste un train qui siffle dans le soir
J’ai failli courir vers toi
J’ai failli crier vers toi
C’est à peine si j’ai pu me retenir!
Que c’est loin où tu t’en vas
c’est loin où tu t’en vas
Auras-tu jamais le temps de revenir?
J’ai pensé qu’il valait mieux
Nous quitter sans un adieu
La locomotiva di Battiato aveva precedentemente sfrecciato, in fusione di canto ad Alice, ne I Treni Di Tozeur brano del 1984, inserito l’anno successivo nell’album Lontanissimi, la cui oasi tunisina della città di cui si canta ammalia il pubblico nel duetto canoro intensamente sfiatato dai palchi, conducendo la fantasia al lago salato di Tozeur che, alla calura del sole estivo, genera miraggi e, nell’ascolto della canora coppia, sfumando di misticismo ed esoticità le parole della bella di Per Elisa, in musical amalgama al cantautore che di poesia è componitore intenso, perforante sui sensi.
Nei villaggi di frontiera guardano passare i treni
Le strade deserte di Tozeur
Da una casa lontana tua madre mi vede
Si ricorda di me, delle mie abitudini
E per un istante ritorna la voglia di vivere
A un’altra velocità
Passano ancora lenti i treni per Tozeur
Nelle chiese abbandonate si preparano rifugi
E nuove astronavi per viaggi interstellari
In una vecchia miniera distese di sale
E un ricordo di me, come un incantesimo
E per un istante ritorna la voglia di vivere
A un’altra velocità
Passano ancora lenti i treni per Tozeur
Nei villaggi di frontiera guardano passare
I treni per Tozeur
Concettualità temporale ed atmosfere di luogo si stravolgono in musica nell’immagine della cittadina, anticamente centro di commercio carovaniero trans-sahariano, le cui abitazioni costruite in mattoni ne abbigliano l’ardente suolo, percorso da locomotive che alle carovane si sostituiscono nel ruolo di trasporto e nei cui vagoni gettare sguardi sognanti, in miraggio sull’esistenza e sul senso del percorrerla. Paion umanizzarsi ed osservare anch’esse il passaggio dei treni, le strade di Tozeur, distese fra chiese che di nessun credo si fanno più mura e miniere delle cui pareti la fatica umana s’è fatta immortal vena. Riflessività e pacatezza di canto dell’elegiaco Battiato s’intrecciano alla mirabile ed eclettica estensione vocale della potente Alice, in semplicità di trama sonora sulla musicalità che di testo fa palco, ove par che le due voci giochino a rincorrersi, or cedendosi un verso or riprendendone insieme le note, in una simbiosi ritmica sfiatata nel reciproco rispetto delle di ognuno peculiarità.
«E per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità», dunque, concedendosi il privilegio di lasciarsi pervadere dall’emozione dell’ascolto e dalla riflessione che dallo stesso deriva, in una sorta di ritorno a contatto con la propria interiorità in cui la musica funga da stimolante intermediario.
Battiato il musicista, l’evocatore d’incanto, il trapezista di parole sapientemente accostate a fil di sussulto, l’artista coraggioso, colui che, a inizio carriera, seppe affrancarsi senza timori dall’invitante e rassicurante adattamento alle tendenze commerciali dell’epoca in virtù del prestare attenzione a se stesso, in conseguente e provvisoria declino che da discesa si fece trampolino di lancio per l’affermazione del sé sul genere, ch’egli ha saputo valorizzare in assoluta fedeltà al Franco cantore arcaico, all’uomo che di musica fa strumento di rinascita in ricerca di musical armonia, purezza e sobrietà che di voce vellutata fanno essenza nella quale avvolgersi ed attingersi.
Battiato l’uomo, l’animo sensibile, l’eccellenza dell’umiltà canterina che di vocabolo fa messaggio primo, ideale, legame, raffinato autore e compositore di testi la qual bellezza rende difficoltosa la volontà di scelta in preferenza, Franco il sentimentale la cui inclinazione all’amare raggiunge livelli sublimi nel brano La Cura, ove all’Amore egli sa donare significato primo e pieno nell’accudirsi, nello spronarsi alla rinascita, nel vicendevole elevarsi. Vive nella delicatezza del considerarsi “esseri speciali” l’un per l’altra, la più alta essenza amorosa, quel soffiarsi addosso affetto e desiderio di bene reciproci che supera le distanze e sovverte il tempo, lasciando che gli istanti diventino vite e che le vite si ridefiniscano nel senso degli istanti stessi. Quel “tessere capelli come trame di un canto” che piega l’animo in due il sol immaginarlo, chinando capo a quel bel modo d’amare che solo a taluni è concesso di provare, un privilegio, poter donare Amore ed essere amati in tal maniera, nutrimento e ricchezza di sentimento che impreziosiscono, ricamano, saziano, riconcimano, radicando radici nelle radici e rifiorendo in simbiosi, pensiero su pensiero, lacrima su lacrima, petalo su petalo, sorriso su sorriso.
Ti salverò da ogni malinconia
Perché sei un essere speciale
Ed io avrò cura di te
Io sì, che avrò cura di te
La Locomotiva
(Francesco Guccini)
Non so che viso avesse, neppure come si chiamava,
con che voce parlasse, con quale voce poi cantava,
quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli,
ma nella fantasia ho l’immagine sua:
gli eroi son tutti giovani e belli,
gli eroi son tutti giovani e belli,
gli eroi son tutti giovani e belli…
Conosco invece l’epoca dei fatti, qual era il suo mestiere:
i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere,
i tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti
sembrava il treno anch’esso un mito di progresso
lanciato sopra i continenti,
lanciato sopra i continenti,
lanciato sopra i continenti…
E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano
che l’uomo dominava con il pensiero e con la mano:
ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite,
sembrava avesse dentro un potere tremendo,
la stessa forza della dinamite,
la stessa forza della dinamite,
la stessa forza della dinamite..
Ma un’altra grande forza spiegava allora le sue ali,
parole che dicevano “gli uomini son tutti uguali”
e contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via
la bomba proletaria e illuminava l’aria
la fiaccola dell’anarchia,
la fiaccola dell’anarchia,
la fiaccola dell’anarchia…
Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione,
un treno di lusso, lontana destinazione:
vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori,
pensava al magro giorno della sua gente attorno,
pensava un treno pieno di signori,
pensava un treno pieno di signori,
pensava un treno pieno di signori…
Non so che cosa accadde, perché prese la decisione,
forse una rabbia antica, generazioni senza nome
che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore:
dimenticò pietà, scordò la sua bontà,
la bomba sua la macchina a vapore,
la bomba sua la macchina a vapore,
la bomba sua la macchina a vapore…
E sul binario stava la locomotiva,
la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva,
sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno
mordesse la rotaia con muscoli d’acciaio,
con forza cieca di baleno,
con forza cieca di baleno,
con forza cieca di baleno…
E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo
pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto.
Salì sul mostro che dormiva, cercò di mandar via la sua paura
e prima di pensare a quel che stava a fare,
il mostro divorava la pianura,
il mostro divorava la pianura,
il mostro divorava la pianura…
Correva l’altro treno ignaro e quasi senza fretta,
nessuno immaginava di andare verso la vendetta,
ma alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno:
“notizia di emergenza, agite con urgenza,
un pazzo si è lanciato contro al treno,
un pazzo si è lanciato contro al treno,
un pazzo si è lanciato contro al treno…”
Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva
e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva
e sembra dire ai contadini curvi il fischio che si spande in aria:
“Fratello, non temere, che corro al mio dovere!
Trionfi la giustizia proletaria!
Trionfi la giustizia proletaria!
Trionfi la giustizia proletaria!”
E intanto corre corre corre sempre più forte
e corre corre corre corre verso la morte
e niente ormai può trattenere l’immensa forza distruttrice,
aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto
della grande consolatrice,
della grande consolatrice,
della grande consolatrice…
La storia ci racconta come finì la corsa
la macchina deviata lungo una linea morta…
con l’ultimo suo grido d’animale la macchina eruttò lapilli e lava,
esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo:
lo raccolsero che ancora respirava,
lo raccolsero che ancora respirava,
lo raccolsero che ancora respirava…
Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore
mentre fa correr via la macchina a vapore
e che ci giunga un giorno ancora la notizia
di una locomotiva, come una cosa viva,
lanciata a bomba contro l’ingiustizia,
lanciata a bomba contro l’ingiustizia,
lanciata a bomba contro l’ingiustizia!
20 Luglio 1893, stazione di Poggio Renatico. Pietro Rigosi, ventottenne, anarchico, aiuto macchinista-fuochista, coniugato, due figlie di dieci mesi e tre anni, nel pomeriggio di quel giorno s’impossessò d’una locomotiva e si proiettò verso Bologna alla velocità, elevata per quei tempi, di 50 km orari. La folle corsa fu deviata dai tecnici verso un binario morto, con inevitabile schianto contro sei carri merci in sosta e conseguente sbalzo dell’uomo, che all’incidente sopravvisse, seppur rimanendo sfigurato in volto, amputato di una gamba ed esonerato dal servizio, per motivi di salute, in seguito alle dimissioni ospedaliere.
Certezza sulle motivazioni che lo indussero al tal gesto mai si raggiunse, nonostante nell’opinione pubblica si radicò la convinzione, considerandone le anarchiche ideologie, che la determinata corsa su vagone fosse un convinto atto di protesta a denuncia dell’ingiustizia sociale e lavorativa, in riferimento all’ambito ferroviario ove, oltre alle dure condizioni di mestiere, palese discrepanza di trattamento era evidente nel lussuoso conforto delle carrozze di prima classe, indegnamente affiancate alla fatiscienza e disagevolezza delle classi inferiori, a testimonianza della becera considerazione dell’uomo in riferimento al potere e denaro posseduti. Le maggiori testate dell’epoca, chiusero la questione riconducendo l’evento, in tutta convenienza, a mero atto di follia, senza motivazione alcuna sulla quale approfondire.
Settantanove anni dopo, in seconda traccia nell’album Radici, il contemporaneo e popolare cantautore Francesco Guccini, animo da sempre affine alla sofferenza umana in tutte le sue forme, ne ha poetizzato il racconto musicandolo tra voce e chitarra ad alto pathos, mestamente piegato sul microfono, in canto eruttato ad occhi chiusi fra gola e rabbia, cuore e psiche, miscelando volume e note in arte umana e cantoria, altalenando intensità di timbro a movimenti del capo ed in espressione visibilmente sofferta, coinvolta, palpabile, ardente, fiera.
Commuove fin dal primo verso la profondità che Francesco riesce a raggiungere, quasi che da quelle prime frasi arrivasse una sensazione di dispiacere nel non aver potuto conoscere il Rigosi, il Pietro, l’uomo in tormento che cupa disperazione condusse al rischio di lasciar le figlie in condizion d’orfanità, il peggior turbamento d’un padre nel quale Guccini legge la bellezza dell’eroe nella gioventù delle proprie idee, visualizzandone gestualità e tratti somatici in un’immagine alla quale visceralmente legarsi, anteponendo conoscenza e comprensione per il ruolo d’impiego in cui all’epoca vennero relegati operai resi combattenti nella “guerra santa dei pezzenti”, da fatiche usurati ed illusi di riscatto nella cieca ambiguità del progresso reso mito sui binari.
Sensibilità gucciniana penetra nel tormento interiore dell’uomo che di mano e pensiero fa ruggente guida del suo mezzo, potente d’un ideologia che sa levarsi in volo dinamitaria ed abbeverata alla fonte dell’uguaglianza, contro la prevaricatrice sopraffazione dei potenti sulla sfera proletaria, piegata nella schiena e nell’obbligo di riverenza ed impotente al cospetto del potere che la ricchezza conferisce a chi ne possiede, materialità contrapposta al “magro giorno della sua gente attorno” che nel fuochista fa saltare cuore e neuroni alla stessa velocità della locomotiva ch’egli carburò d’antica rabbia ed accecante senso di vendetta, in angustiata rincorsa alla bramata giustizia che mai arriva e chimera resta, fino al peggior schianto.
È in quel «lo raccolsero che ancora respirava» che Guccini sa fondere amarezza, dispiacere, rammarico e rassegnazione in una purezza di sentire che di caritatevole immedesimazione fa melodia, senz’odio alcuno che ne sporchi la cantoria benevolenza, da una parte, senza manifesta giustificazione che ne avvalli il folle gesto, dall’altra, ma in equilibrato grido vocale che ricollochi il Rigosi sullo sfondo di un’epoca in cui i ferrovieri in Italia erano circa 100.000, sottoposti a severa disciplina professionale e costretti a turni massacranti che, nella modifica alle “convenzioni ferroviarie” del 1885 e successiva cessione a compagnie private, subirono ulteriore peggioramento delle loro condizioni. Impietosa costrizione dell’uomo al proprio mestiere che in taluni può sfondare l’anima e condurre a spropositate azioni, unita all’insufficienza di copertura del welfare state aziendale che sarà miccia in fervente bruciare sull’animo degli operai, alla di cui protezione mutualistica il macchinista e sindacalista Cesare Pozzo dedicherà l’intera vita.
Che importa morire? Meglio morire che essere legato!
Pietro Rigosi
Brivido raggelante giunge dall’ascolto di Auschwitz, in coppia con l’indimenticabile Augusto Daolio, caritatevole animo di musicista la cui voce, miscelata alla gucciniana, atterrisce ogni capacità di comprensione nell’evocare l’immagine di quel bambino sparso nel vento in un giorno di neve, cenere all’aria che si fa nodo in gola ed incredulità alla mente, sfiorata per un attimo dall’umana barbarie che non si riesce minimamente a concepire. Rimangono interrogativi che mai troveranno risposta e che la musica nobilmente commemora e rammenta, seppur rimanga difficoltoso accettare che la morte sia giunta sull’innocenza, che poi sia passata per un camino, atterrata in una foiba, stretta in corda sul collo, giunta a cavallo di proiettile o a bordo lama non fa differenza, poiché gravità dell’uccisione, selvatichezza, inciviltà, ferocia e rozza efferatezza restano fatti, senza colore o bandiera alcuna che renda disonore alle vittime nel farne oggetto politico.
Agapito Malteni Il Ferroviere
(Rino Gaetano)
Agapito Malteni era un ferroviere
Viveva a Manfredonia giù nel Tavoliere
Buona educazione di spirito cristiano
Ed un locomotore sotto mano
Di buona famiglia giovane e sposato
Negli occhi si leggeva, molto complessato
Faceva quel mestiere forse per l’amore
Di viaggiare sul locomotore
Seppure complessato il cuore gli piangeva
Quando la sua gente andarsene vedeva
Perché la gente scappa ancora non capiva
Dall’alto della sua locomotiva
La gente che abbandona spesso il suo paesello
Lasciando la sua falce in cambio di un martello
Ricorda nei suoi occhi nel suo cuore errante
Il misero guadagno di un bracciante
Una tarda sera partì da Torre a Mare
Doveva andare a Roma e dopo ritornare
Pensò di non partire o pure senza fretta
Di lasciare il treno a Barletta
Svelò il suo grande piano all’altro macchinista
Buono come lui ma meno utopista
Parlò delle città di genti emigrate
A Gorgonzola oppure a Vimercate
E l’altro macchinista capì il suo compagno
Felice e soddisfatto del proprio guadagno
E con le parole cercava di calmarlo
Fu una mano ad addormentarlo
È in tre minuti scarsi di canzone che Agapito Malteni prende vita, in settima traccia, nell’album Ingresso Libero che, nel 1974, avvalorò in Gaetano inobliabile capacità di cantautorato.
Pezzo di palese e voluto richiamo alla Locomotiva di Guccini ed a Il Bombarolo di Fabrizio De André, che non sia da intendersi plagio, bensì amorevole e sentito omaggio nei cui versi malessere, disadattamento e conseguente desiderio umano di cambiare il corso della storia e del proprio destino attraverso gesti disperati, si fondono simbolicamente nei protagonisti dei tre brani fra musica, esasperazione, collera, sventatezza e voglia di rivoluzione che in Malteni, realmente esistito, muovon passo in suol di Manfredonia.
Buon’anima di sana educazione e cristiano spirito a gonfiarne il petto, gioventù degli anni a favore ed unione matrimoniale a pulsarne il battito, amor di viaggio univa Agapito al proprio locomotore come fossero un tutt’uno, sentor di mestiere che va oltre il dovere impiegatizio, com’era per la maggior parte dei ferrovieri di quei tempi, sbuffanti all’unisono su binari infuocati dalla velocità e dagli eventi. Lacrima di cuore e cupezza di sguardo complessano l’uomo e la sua interiorità, tristemente afflitto dalle frequenti partenze della gente dalla propria terra, in travagliata migrazione dall’incertezza del presente verso un futuro da ricamar migliore nei sogni, in fuga da miseri guadagni turpemente indegni ed irriconoscenti a braccia che d’operosità facevan orgoglio che lede ogni fatica.
Nel viaggio previsto fra Torre a Mare e Roma, l’eccesso di patimento del bonario Malteni ne crepa per un attimo le facoltà mentali, conducendolo alla decisione di sostare il treno a Barletta, nell’illusorio tentativo d’impedire la partenza della sua gente verso il Nord della penisola. Probabile desiderio di condivisione, sostegno e sfogo, fan di segreto confessione al collega macchinista il quale, «buono come lui ma meno utopista», ne tenta invano la ripresa del senno verbalmente, decidendo poi di fermarlo a forza, interrompendo l’attuazione del «suo grande piano».
In quell’ «altro macchinista capì il suo compagno, felice e soddisfatto del proprio guadagno», Rino sapientemente comprime in una sola frase la comprensione amichevole che, seppur sulla stessa linea di pensiero, si sfuma dall’essere complice, prediligendo il mantener quella condizione lavorativa che assicura pane allo stomaco e tranquillità alla psiche.
L’Agapito gaetaniano martella il cuore e falcia ogni speranza, unendo lo stesso macchinista, seppur in maniera meno efferata, al Rigosi in corsa di Guccini ed al Bombarolo di De André, trio egualmente cavalcante spiriti indomabili e ribelli, fedeli alla propria causa fino al limite della pazzia, ma nonostante tutto tremendamente cruccianti nella considerazione dell’esser forse effetti collaterali d’una società meschina che propina angustie ed addolora la sua parte più debole, seppur essa sia radice e sostentamento del suo esistere e produrre.
Provare a descrivere Rino Gaetano è onore puro, seppur nella necessità di riconoscere quanto allo stesso tempo sia responsabilità immensa, nella misura in cui ogni espressione sarebbe vana ed incompleta nei confronti dell’artista e dell’uomo ch’egli ha saputo essere nel suo breve cammino a bordo sfera. Appassionato, ironico, pungente, libero e sincero, l’uomo, il musicista e l’artista hanno in lui saputo convivere con coraggio e schiettezza, senza mai dubitare da quale parte stare, che non fosse partitica, ma onestamente ideale e proveniente da un animo poco incline alle definizioni univoche, pertanto meravigliosamente incasellabile, nonostante all’epoca (e forse anche ad oggi) il non propinar politica tramite musica fosse artisticamente controproducente.
Sorriso sornione, sguardo velato fra lietezza e mestizia, di quelli che non per metafora son specchio dell’animo, le palpebre ne svelarono l’intensità il 29 Ottobre del 1950, quando la Crotone che gli diede i natali gli si tuffò in pancia e lì rimase tutto il corso della sua esistenza, coccolata fra pensieri e ricordi d’un ragazzo che ben presto avrebbe sviluppato filantropico interesse nei confronti dei deboli e degli sfruttati, anelli ultimi d’una catena che in lui divenne prezioso monile su quale ricamar note d’autore e cortese canto di protesta, che nel brano Mio Fratello È Figlio Unico miscela elevato sentire fra gentile sarcasmo e concretezza emotiva.
Un cantar sbarazzino, leale, in graffiante voce intrisa di sentimento che di contenuto fa opinione e principio, consapevolmente e sfrontatamente affrancata dalla pericolosa stretta dell’ideologismo, un verace porsi al mondo attraverso i propri testi con fine intelligenza e fiabesca umiltà, amando all’inverosimile l’essere umano nelle sfumature delle difficoltà che ne minano la quiete interiore, canzonandolo con fare benevolmente umoresco che di rispetto si nutre, filando serietà da ironia come solamente un animo di munifico spessore riesce a fare.
Parlano ed appaiono agli occhi, i personaggi messi in musica da Rino, quasi che la vita fosse un palcoscenico sul quale recitare la propria esistenza, memorizzando battute e calandosi nei vari ruoli che la quotidianità propone, e talvolta impone, in differenti ambiti, spettacolo in cui il Gaetano nazionale ha donato se stesso calando ogni maschera e disarmando col sol sorriso, quello in cui, fra ukulele e cilindro, tramite la sua Gianna schernì il marciume politico o ancora, fra i tanti, quello che che appare sul viso d’ogni persona che in almeno in una strofa de Il Cielo È Sempre Più Blu, non possa far a meno di riconoscersi.
Riservato, bizzarro, caleidoscopio, filosofo della strada dalla quale seppe raccogliere vissuti e dolori, aspirandoli, digerendoli e risputandoli in musica con la naturalezza tipica dell’artista che ha saputo non cedere all’omologazione che ne avrebbe facilitato il cammino, peculiar passo d’uomo la cui grandezza, tardivamente compresa, ha lasciato un immenso vuoto, unicamente colmabile nell’ascolto delle sue canzoni, frammenti di realtà che il suo saper essere nel modo in cui è stato han reso elevata poesia in spaccato di vita vera.
C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo.
Non ci riusciranno, sento che, in futuro le mie canzoni
saranno cantate dalle prossime generazioni. Che, grazie
alla comunicazione di massa capiranno che cosa voglio dire
questa sera. Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale.
Rino Gaetano
Generale
(Francesco De Gregori)
Generale dietro la collina
Ci sta la notte crucca e assassina
E in mezzo al prato c’è una contadina
Curva sul tramonto sembra una bambina
Di cinquant’anni e di cinque figli
Venuti al mondo come conigli
Partiti al mondo come soldati
E non ancora tornati
Generale dietro la stazione
Lo vedi il treno che portava al sole
Non fa più fermate neanche per pisciare
Si va dritti a casa senza più pensare
Che la guerra è bella anche se fa male
Che torneremo ancora a cantare
E a farci fare l’amore, l’amore dalle infermiere
Generale la guerra è finita
Il nemico è scappato, è vinto, è battuto
Dietro la collina non c’è più nessuno
Solo aghi di pino e silenzio e funghi
Buoni da mangiare buoni da seccare
Da farci il sugo quando viene Natale
Quando I bambini piangono
E a dormire non ci vogliono andare
Generale queste cinque stelle
Queste cinque lacrime sulla mia pelle
Che senso hanno dentro al rumore di questo treno
Che è mezzo vuoto e mezzo pieno
E va veloce verso il ritorno
Tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore
Nel battaglione alpini Tirano di Maless, presso la caserma di Wackernell, in Val Venosta, un giovane De Gregori in servizio di leva, dopo la visita d’un generale osservando il quale egli percepì il senso di solitudine che pervade l’ambito militare, maturò nel profondo il testo d’una canzone che sarebbe divenuta il simbolo per eccellenza del pensiero antibellico.
Immaginandosi di rivolgersi allo stesso, egli ricorda una collina che si poteva vedere dalle finestre della stessa caserma, nei pressi di una stazione, ovvero il trentino colle di Tarces, sul cui suolo efferatezza dei terroristi indipendentisti altoatesini si fece protagonista di morte e desolazione e dietro la quale Francesco ha saputo esplodere fine poetica ed infinita dolcezza nella descrizione d’una contadina di mezza età, curva sul tramonto. Par quasi di vederla nelle posture e nei colori, quasi fosse un dipinto di mille nuances riflesse sulle fatiche d’una donna che ogni giorno attende il ritorno dal fronte dei cinque figli, “venuti al mondo come conigli” e disgraziatamente allontanatisi per coatto amor di patria, vanificando speranze di colei che, partorendoli, ne avrebbe voluto affiancare il percorso esistenziale, bruscamente deviato e impietosamente disegnato sul viso d’una madre che di nostalgia fa morte in petto.
Ma le guerre finiscono, i treni ritornano e con loro la voglia di cantare, in assoluta brama del rientro a casa che De Gregori cristallizza magistralmente nell’immagine d’una locomotiva che «non fa più fermate neanche per pisciare», evocando il senso primo della fretta di raggiungere i propri familiari attraverso un’espressione linguistica alla quale egli riesce a togliere qualsiasi parvenza di scurrilità, abile compositore di versi che irrompono sotto pelle e si memorizzano con naturalezza e facilità disarmanti, così come quel farsi «fare l’amore, l’amore dalle infermiere» gentilmente preso a prestito dalle pagine di Addio Alle Armi di Ernest Hemingway. Romanzo pubblicato nel 1929 e basato sulle esperienze realmente vissute dallo scrittore, nonché testimonianza prima del suo antagonismo nei confronti della guerra, l’alter ego protagonista è Frederic Henry, giovane volontario in ambito ospedaliero che, ricoverato, visse un’appassionata storia d’Amore con l’infermiera che l’ebbe in cura, Catherine Barkley, donna che nella vita reale di Hemingway portò in capo il nome di Agnes von Kurowsky, musa ispiratrice del personaggio romanzesco.
Terminano le guerre ed i nemici scappano, vinti e battuti. Ma nel treno di De Gregori non si fan differenze fra soldati, restano gli uomini, al di fuori delle parti, protagonisti della stessa tragedia che dietro la collina, tra funghi ed aghi di pino, unici superstiti a stolti gioghi di potere che annientano dall’interno, ha radicato silenzio, improvvisamente rotto dal pianto dei bambini che a Natale puntano i piedi per non andare a dormire. Cambio di scenario repentino che sembrerebbe voler celermente levare il pensiero dei soldati dal campo di battaglia per ricondurlo alla realtà del quotidiano, finalmente libero dal dover cercar motivazioni autoconsolanti sul fatto che la guerra possa aver senso e bellezza intrinseci.
Riconoscimenti e medaglie, cinque stelle che perdon di valore di fronte alla purezza di cinque lacrime che rigano le guance dei militari, così amare dal non aver quasi senso, se non quello della commozione che il rientro a casa, nell’Amore, deflagra nel cuore, in un «treno mezzo vuoto e mezzo pieno», vagone in cui pesano le assenze delle anime alle quali il viaggio di rientro non è stato concesso, sciolte in ricordo nel rumore d’una carrozza che in soli due minuti restituirà la vita ai più fortunati.
Giocoliere di parole dalla voce flebile, pacata ed avvolgente, la magia di Francesco, nel suo comporre, raggiunge livelli di capacità artistica e professional zelo encomiabili, sapientemente e passionalmente miscelate a collaborazioni con musicisti del suo calibro con i quali interagire fra note e palpito. Fra gli altri, l’istantanea intesa con l’immenso Lucio Dalla, con il quale Francesco, in Banana Republic, ha reinterpretato un brano di Steve Goodman, riportando in vita il dolce e compianto folk singer fra corde di chitarra, voci riguardosamente sovrapposte ed affiatamento da cardiopalma.
Nel primo incontro con Lucio, De Gregori percepì di conoscerlo da sempre e con lui s’acchiappò nell’istante, in sconfinata e reciproca ammirazione: «Ci fu uno strano incontro, da studio a studio, uno davanti all’altro. Non so perché ma da come entrava e usciva mi resi conto che era un vecchio amico, anche se non l’avevo mai visto prima. Ci acchiappammo subito. Era straordinario, divertente, intelligente. Diverso dagli altri ma capace di mettersi in comunicazione con chiunque. Sapeva stare al gioco. Aveva un’istrionica potenza da cui eravamo tutti irresistibilmente attratti».
Francesco De Gregori. Lui, che scrive a penna ogni testo e poi lo rifissa su carta con una vecchia macchina da scrivere, prima del passaggio al computer, lui che le canzoni si fan poemi in balia di metafore dalla seducente suggestione. Lui, che l’ascoltatore lo sa prendere per mano, conducendolo all’interno d’ogni melodia e saturandolo delle sensazioni che si fan fermate di viaggio sui vocaboli, lui che l’incanto si fa trasversale, giunto a bordo inchiostro e svettato a fil di chitarra affinché la musica divenga esperienza indimenticabile.
Lui, che la musica si fa letteratura del mondo, lui che la vita si fa sogno, il sogno divien cammino ed il cammino traguardo.
Quando fra tanti poeti ne trovi uno vero,
è come partire lontano,
come viaggiare davvero
(Poeti per l’Estate)
Trasportano passioni come fossero merci, le locomotive dell’esistenza, caricando fatiche, frustrazioni, disincanto e speranze. Si fan custodi d’addii che gli amanti lasciano sospesi sui binari nella speranza di ricongiungersi e nella brama che ogni partenza si tramuti in celere ritorno. S’abbandonano alla guida d’animi in tormento, i treni, fondendosi nell’umana follia o sospirando fra le mani di chi l’ha affievolita sul nascere. Conducono al fronte, i convogli più impietosi, gabbie di ferro al cui interno riecheggeranno i soli sorrisi dei privilegiati che avran dono del ritorno.
Si fa condanna e prigione, Il Treno di Pierangelo Bertoli, convoglio a bordo del quale freddo e paura d’un giovane, in partenza con l’ordine di leva, s’accompagnano a spalle rassegnate, piegate in timorosa finzione d’adattamento che mascheri l’inquietudine…
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