Viaggio sul treno della Musica (cap.4)
E continuo a lottare per le cose che voglio
Anche se so che quando sei morto non puoi
Ma preferirei essere un uomo libero nella mia tomba
Che vivere come un burattino o uno schiavo
(The Harder They Come, Jimmy Cliff)
Correva l’anno 1961 quando un giovanissimo Robert Marley, varcata la porta dell’etichetta discografica Beverley’s, in quel di Kingston, incise il suo primo singolo, Judge Not, 45 giri su cui graffiò voce grazie a Leslie Kong, produttore discografico la cui breve vita, 38 anni in tutto, non impedì alle sue capacità di emergere in competenza e determinazione, divenendo uno dei principali traghettatori del genere reggae al di fuori dei confini giamaicani.
Gestore insieme ai fratelli di una gelateria ed un negozio di dischi nel quartiere di Orange Street, Leslie fu spronato all’attività di produttore da James Chambers ‘Jimmy Cliff’, cliente la cui esibizione davanti al proprio negozio, sulle note di Dearest Beverley, fu occasion di carrieristico sodalizio e primo passo, per lo stesso Jimmy, verso una notevole carriera musicale. Ulteriore e significativo traino al suo successo fu The Harder They Come di Perry Henzell del 1972, film in cui egli indossa, per la prima volta e magistralmente, i panni dell’attore protagonista d’una pellicola che lo stesso Henzell non limitò ad esclusivo veicolo di notorietà per Cliff, essendo il titolo del film omonimo al brano musicale dello stesso, ma seppe rendere il racconto della situazione giamaicana dei primi anni settanta un vero cult, muovendo cinepresa fra musica e crimine, bivio esistenziale di quegli anni, combinando musical e gangster movie in opera cinematografica di spessore e facendo di colonna sonora vettore di popolarità del reggae nel mondo.
Taglio di cordone ombelicale in una notte d’uragano, Jimmy Cliff diede primo respiro ai polmoni nell’Aprile del 1948 a St. James, particolarità di bimbo le cui dita, fin dalla scuola elementare, fissarono canzoni su carta che divennero canto quando, a Kingston, appena quattordicenne partorì un dei suoi più grandi successi, Harricane Hattie, voltando desiderio e passo verso futura carriera musicale e recitazione. Nove fratelli, cresciuto con il padre e la nonna, riavvicinò la madre negli anni, sfrecciando nel frattempo come un treno fra incisioni e successi.
La sua locomotiva transita nel 1980 in Morning Train, ov’egli coglie la dolcezza della libertà, sciogliendo stupore fra le meraviglie che sole e luna offrono agli occhi in metaforica naturalità del poter vivere privi di costrizioni, assaporando la bellezza e semplicità dei momenti di condivisione. Uno fidente mirare al sogno che sembra più vicino, quello da afferrare all’istante come fosse un treno mattutino da non poter perdere, nell’estemporaneità del carpe diem, in viaggio sulle proprie aspirazioni ed in ovattata immagine del rifugio domestico, simbolicamente percepito come unico posto in cui adagiarsi in mental benessere.
Good times are here for you and I.
How sweet it is to be free,
Living in nature naturally.
I’m moving on. on the morning train.
I’m moving on. on the morning train.
Out of the valley of confusion and fright,
Up to higher heights.
See the yellow moon and the bright purple sun,
Trouble’s on the run.
How sweet it is to be free,
Living in nature naturally.
I’m moving on. on the morning train.
I’m moving on. on the morning train.
Yes, the evening train will be too late!
I’m moving on. on the morning train.
I’m moving on. on the morning train.
Home, home sweet home, no place like home
Sandy, l’alba sorge alle nostre spalle
Le luci sul molo, la nostra vita festante per sempre
Così amami adesso stanotte
E ti giuro che ti amerò per sempre
(4Th Of July, Asbury Park {Sandy}, Bruce Springsteen)
Narratore, ancor prima che cantante, in Bruce Frederic Joseph Springsteen chitarra e voce si fanno mezzo di racconto della quotidianità nella sua sfumatura comune e marginale, calcando poetica nell’immediatezza del genere rock che lo contraddistingue, sfiatando messaggio altruistico nell’accento posto sulle difficoltà della classe lavoratrice, concretizzandone le spossatezze in testi d’evocativa intensità ed affiancando ammirazione al mondo del lavoro, nella dignità della sua espressione laboriosa e disagevole. In apice di fama raggiunta a cavallo fra gli anni settanta e gli anni ottanta ed in attuale attività musicale, spirito pacifista ne ha contraddistinto gli ideali, mantenendone intatto impegno sociale, in particolar modo rivolgendo interesse allo sviluppo del New Jersey, terra natia.
Ne ne respirò l’atlantica brezza nel 1949, crescendo in difficoltà economica ed altalenando il rapporto paterno fra affetti e bruschi litigi, a conturbante discapito dell’armonia familiare. Insofferenza alla disciplina non ne aiutò il percorso scolastico in ambito cattolico, favorendone l’isolamento ed il primaticcio rapporto con la musica, pathos eviscerato fin dal settimo anno d’età. Una piccola chitarra di plastica fu l’occasione per posar sulle corde un acerbo talento, intraprendendo il percorso che avrebbe congiunto natural inclinazione e futura carriera, rimbalzandolo fra successo e vendite milionarie, pur non sacrificandone la bontà caratteriale, il generoso spirito ed il benevolo porsi a servizio del prossimo.
Conduce negli abissi dell’anima, il treno messo in musica da Bruce nel 1984, riepilogato nella malinconia alla quale, in Downbound Train, un ragazzo rimembra l’abbandono dell’amata conseguente al proprio licenziamento in ambito di falegnameria. Scorporo di coppia nelle difficoltà che trafigge aspettative e colpisce a fondo, isolando in sé stessi e vanificando l’amarsi. Rode l’essere, la condizion di solitudine amorosa, fissando nel fischio d’un convoglio la sensazione del distacco che disturba il sonno e getta il giorno nell’inerzia, spalmata fra un nuovo impiego e l’illusione dell’amore che ritorna. Impazza il cuore, rinasce la speranza, si rende celere la corsa verso il sogno, tristemente frantumato nella consapevolezza del vuoto che rieccheggia fra mura e lenzuola. Giunge il pianto, lacrima d’uomo affranto fra desiderio e rassegnazione, capo fra le mani in perenne tormento interiore che si fa quasi un tutt’uno con il martello pneumatico impugnato per fissar traverse di binario, giungendo quasi a percepirsi, nella scivolata emozionale, come locomotiva trascinata nel baratro più cupo.
I had a job, I had a girl
I had something going mister in this world
I got laid off down at the lumber yard
our love went bad, times got hard
now I work down at the carwash
where all it ever does is rain
don’t you feel like you’re a rider
on a downbound train
She just said Joe I gotta go
we had it once we ain’t got it any more
she packed her bags left me behind
she bought a ticket on the Central Line
nights as I sleep, I hear that whistle whining
I feel her kiss in the misty rain
and I feel like I’m a rider on a downbound train
Last night I heard your voice
you were crying, crying, you were so alone
you said your love had never died
you were waiting for me at home
put on my jacket, I ran through the woods
I ran till I thought my chest would explode
there in the clearing, beyond the highway
in the moonlight, our wedding house shone
I rushed through the yard
I burst through the front door
my head pounding hard
up the stairs I climbed
the room was dark
our bed was empty
then I heard that long whistle whine
and I dropped to my knees
hung my head and cried
Now I swing a sledge hammer
on a railroad gang
knocking down them cross ties
working in the rain
now don’t it feel like
you’re a rider on a downbound train
Amo i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai.
Quelli persi, andati, spiritati, fottuti.
Quelli con l’anima in fiamme
Charles Bukowski
È in attività di cantautore, polistrumentista ed attore, che Tom Alan Waits scioglie capacità artistiche caleidoscopioche e di peculiarità vocale estremamente caratteristica. Timbro arrugginito e modalità di canto, sebbene distanti dai canoni tipici della bellezza vocale, si donano in spessore nell’interpretazione dei testi ch’egli modula in fiato sulla vita, in sentita narrazione che sappia cogliere la bellezza di coloro ai quali nulla la vita ha donato se non esclusione e solitudine. Se il tendere mano attraverso la musica di Bruce Springsteen rivolge interesse alle avversità dell’individuo comune, nel tentativo di trascinarne la disillusione verso il sogno americano in cui ancor si può tentar di credere, in Waits è la stessa concezione esistenziale americana ad essere immonda e causa prima dell’emarginazione sociale di anime che nemmeno comuni hanno avuto il privilegio di poter essere, in quanto fantasmi dei bassifondi e custodi d’una disperazione tale da far di persona soggetto invisibile, privandone il diritto alla dignità, nella consapevolezza dell’impossibilità di riscatto su qualsiasi fronte.
Californiano di nascita, anno 1949, medesimo del Boss, freccia di Cupido in Tom fu il jazz degli anni ‘30, amore di musica per il quale mosse dita sul pianoforte fin dall’adolescenza, intensificando l’attività musicale in alternanza a lavori saltuari, durante i quali, in seria difficoltà economica, fece di più notti passo errante fra clochard, prostitute, anime vagabonde senza colpa alcuna se non quella d’esser state dimenticate dall’ipocrisia d’una società che in Waits appare in tutto il suo marciume, stuprante nell’ideologia conservatrice del tendere ad un’eleganza di facciata e colpevole d’abbandono nei confronti di soggetti che la stessa ignora esser suoi figli. Uomini e donne vergognosamente lasciati in stato di bastardaggine, dopo averne sterilizzato la capacità di sogno, lobotomizzato la spinta vitale ed amputato ogni speranza, impietosa e vigliacca conseguenza del potere che si nutre dei suoi stessi simili, nell’errata convinzione di poter credere che uno stato si possa ritener civile anche quando in abissale, turpe e vituperevole discriminazione di diritto. Deplorevole colpo di spugna sulla bellezza intrinseca ad ogni diseredato, che solo ad animi puri è concesso di cogliere, sfregio al coraggio di coloro che nell’indigenza si sforzano di continuare a viverla, quella vita, nonostante si faccia mostro che inghiotte, lacera, sfibra, consuma, soffoca e ferisce, umiliando lentamente a bordo strada.
Tema carissimo a Waits, il vagabondaggio, protagonista indiscusso dei suoi brani e filo rosso in sentimento di protesta che ne aggancia animo a Tom Johnson, Woodie Guthrie e, in comunione d’ideali ed eccessi, a Charles Bukowski, con il quale condivise amicizia e voglia di sputare disdegno sul mondo. Insofferenza che in Downtown Train, 1985, si fa solitudine e desiderio d’amore, in canto fra incalzanti ritmi che ne sminuiscono la drammaticità di contenuto ed impreziositi dal ruggito d’una voce ruggente che si dona a toni bassi, riacquistando in romanticismo, lo stesso con il quale il desiderio del protagonista d’incontrar la donna desiderata a bordo treno, si fa speranza notturna ed inquieta solitudine.
Will I see you tonight
On a downtown train
Where every night is just the same
Will I see you tonight
On a downtown train
All of my dreams just fall like rain
All on a downtown train
Treni: scrigni di memorie, lacrime e libertà
It’s on the freedom train
Come on dance on the freedom train
It’s on the freedom train
Come on dance on the freedom train
(Freedom Train, Lenny Kravitz)
Viaggia per la libertà fischiando in lontananza, il treno dei Toots & The Maytals in Freedom Train, 1988, locomotiva temporale del momento ch’è giunto, per ogni persona, di levar catene alla propria schiavitù e di poter finalmente farne ricordo, allegoricamente bramando biglietto di viaggio al quale si è potuti accedere in lenta conquista, lavorando fianco a fianco l’un per la libertà dell’altro, in netto rifiuto alla condizion di sopraffazione nella quale è impensabile anche il sol pensar di ritornare a vivere. Ci si perde nell’ascolto del brano, cantato a piacevolissimo ritmo reggae ed allegramente cadenzato, quasi fosse che le parole fuoriescano da labbra in fase di sorriso, un tuffo di leggerezza fra vocaboli che di proposizioni fan rifiuto della coercizione, in virtù del libero arbitrio. Un viaggio che si fa metafora nella mente dell’uomo, ove pensiero e senso di fratellanza mai saranno soggette ad alcun giogo vessatorio.
The freedom train is coming, can’t you hear the whistle blowing
Its time get your ticket and get on board
Its time for all the people to take this freedom ride
Get it together and work for freedom side by side
I’m gonna ride on the freedom train
I ain’t gonna live this way again
I’m gonna get on the freedom train
From this day on I’ll be a free man (yes I will be a free man)
Frederick Nathaniel Toots Hibbert, cantautore, chitarrista e polistrumentista le cui capacità vocali, a carismatica sfumatura soul, hanno trovato frequente paragone con Otis Redding, passionalmente sfogate a bordo palco all’interno del proprio gruppo musicale insieme al quale, accompagnandosi fra canto e strumento, fedeltà di legame al genere R&B (il rhythm and blues riferibile alla musica popolare afroamericana) si manifestò in tipologia di suoni.
Ultimo di sette figli, suol di Giamaica ne accolse nascita, l’8 dicembre 1945, in quel di May Pen, ove passion di canto lo accalappiò in giovane età, rendendolo protagonista di esibizioni in stile gospel fra mura ecclesiastiche. Trasferitosi con la famiglia a Kingston in fase adolescenziale, la popolarità ne premiò ben presto l’abilità artistica come frontman dei Maytals, gruppo con il quale condivise strumenti e successo, rallentando ritmo e fiato sul genere ska, a favor d’un maggiormente morbido rocksteady in futura evoluzione stilistica reggaeniana, facendosi inoltre pioniere della trasposizione in musica del vocabolo reggae, per la prima volta apparso, nel 1968, nel brano Do The Reggay e nonostante vi siano numerose spiegazioni, l’origine e il significato del termine rimane un mistero.
In precedente trampolino di lancio verso il successo sull’ortodosse note del brano Hallelujah, 1964, dal quale l’infantil esperienza corale gospel di Toots esce in meravigliosa capacità canora, è su Bam Bam, brano vincitore del Festival della Canzone Giamaicana nel 1966, che il trio composto da Hibbert, Nathaniel Jerry Mathias ed Henry Raleigh Gordon, respira imminente aria di notorietà, soffocata nell’istante — secondo leggenda da lui stesso smentita — dall’arresto di Toots per possesso illegale di marijuana e successiva detenzione di diciotto mesi durante i quali lo stesso, affinando abilità compositive ed in paziente attesa di riunirsi ai fratelli di canto che fedelmente ne attesero la rimessa in libertà, seppe non soccombere all’umiliazione dell’esser mortificato in un numero, rendendo al contrario quelle quattro cifre di matricola le protagoniste di 54-46 That’s My Number, che ne riscatterà voce, spirito ed ego, nella scalata alle classifiche nel 1968. Nella medesima annata, ritmo, ironia e vitalità, sciolgono i sensi in Monkey Man, canzone ripresa da numerosi artisti fra i quali i The Specials nel 1979 e, nel 2006, Amy Whineouse, la cui potente voce in corpo di bambola ha reso onore all’essenza prima della musica, calamitando voglia di ballarne sulla melodia all’impazzata.
Aye aye aye, aye aye aye
Tell you baby, you huggin up the big monkey man
Aye aye aye, aye aye aye
Tell you baby, you huggin up the big monkey man
I’ve seen no sign of you, I only heard of you
huggin up the big monkey man
Pubblicazione della saliente ed imperdibile all’ascolto Pressure Drop, nel 1970, e successivo inserimento, tre anni dopo, nella colonna sonora di The Harder They Come, protagonista Jimmy Cliff, fu occasione d’estendere oltre giamaicana terra nomea artistica del gruppo, al quale lo stesso Bob Marley, in Punky Reggae Party, nel 1977, fece lodevole cenno.
Numerose le cover del brano, in primis, la deliziosa interpretazione dei The Clash, che ne esplose la fama nel 1979, successivamente filtrata dalla versione dei The Specials, nel 1996. Doppia interpretazione toccherà le ugole di Joe Strummer, cantante degli stessi Clash il quale ne rivociferò interpretazione nel 2003, in aggancio al gruppo di supporto dei The Mescalores.
Seconda occasione di soundtrack fu la drammaticità sociale giovanile raccontata in This Is England, 2006, pellicola narrante le vicissitudini di alcuni skinheads inglesi sullo sfondo-storico politico britannico degli anni ottanta.
Testi che di vocaboli fan vibrazione, quelli dei The Maytals, in triplice sorriso che si fa canto d’anima nel loro frontman, scossa vocale vivida ed avvolgente, il cui spessore sentimentale ne originò getto d’inchiostro ch’egli, appena diciottenne, compose in canto da dedicare alla moglie Doreen nella canzone It’s You, pubblicata nel 1965, fra le cui note fondere desiderio e solitudine, in spasimante e ritmata dichiarazione.
Oh baby, don’t you know that I love you?
(Yeah, yeah)
Come on now, come on, now hear what I say
(It’s you, it’s you)
I got to say
Aya, aya
(Yeah) Aya, aya
Aya, aya
(Yeah) Aya, aya
Hey little girl, do you love me?
I’m a lonely man
(…)
Just looking for the love of my heart
La connessione emotiva tra fan e band mi fa riflettere: com’è possibile che spesso sia difficile comunicare con parenti e amici stretti, e dall’altra parte invece si crei un legame così significativo tra persone che nemmeno si conoscono?
Questo è il motivo per cui sono grato che esista la musica. Perché può essere più terapeutica di uno strizza cervelli.
Dave Pirner
David Anthony Pirner, Daniel Dan David Murphy, Karl Mueller, rispettivamente batteria, chitarra e basso che, nel 1981, tre adolescenti del Minnesota intersecarono a musica fra le mura d’un garage di Minneapolis fondando i Loud Fast Rules, gruppo rock alternativo il cui nome, dopo arrivo di Pat Morley, nel 1983, in sostituzione alla batteria di Pirner traslato a ruolo di frontman, divenne Soul Asylum. Dopo la pubblicazione di Say What You Will, Clarence…Karl Sold The Truck, album di debutto pubblicato nel 1984, Morley verrà sostituito alla batteria da Grant Young. Unico componente della band ad essa fedele e tutt’ora in attività l’enigmatico Pirner, a tutt’oggi accompagnato in musica da Ryan Smith, chitarra ritmica, Michael Bland, batteria e Winston Roye al basso.
L’esistenza di Pirner ebbe a concretizzar nascita nel Wisconsin, anno 1964, posando bacchette sui rullanti fin dall’adolescenza ed approdando a ruolo di cantante a cavallo d’una personalità con quella giusta dose di bizzarria tipica di coloro che, seppur bramosi di celebrità, non periscono nel risucchio del vortice commerciale delle classifiche, trottando nel panorama musicale in stile cocciutamente personale, mettendosi impavidamente a nudo in amare vicissitudini affidate a melodie di potenza energica, allo stesso tempo memorabilmente melodica. Taglio d’anima romantico piegato sulla vita in dignitoso canto adrenalinico, la penna di David si fa strada nel bassoventre, portando il brivido a fil di pelle nella dote vocale indiscussa, una personale miscela di vissuto sputata a fil di pentagramma, in sofferto desiderio d’esternare un tormento interiore irrisolto che in musica divien mezzo di fuga a perenne rischio di deragliamento.
Improvvisa diagnosi di tintinnio all’orecchio divenne timor di sordità, in Pirner, che all’iniziale terrore nell’immaginar la propria vita privata di musica, virò la paura su corde di chitarra acustica, conducendo la band alla registrazione di brani unplugged, ove la peculiarità dei suoni denudati da strumenti elettronici ed amplificatori colpì, nella nudità sonora, l’interesse della Columbia. Giunse il treno, dunque. Quel convoglio che lo stesso David non si limitò ad attendere inerme, quell’occasione ch’egli fiutò facendo del binario stesso la stazione da raggiungere in contropiede e balzando su locomotiva in transito a bordo dell’intensa Runaway Train, canzone che, nel 1992, bucò sguardi e coscienze per immagini e contenuto. Nel video ufficiale, in alternanza alle immagini delle chitarre in suono, scorrono i visi di ragazzi realmente scomparsi, in apparizione intermittente sullo sfondo della ricostruzione visiva che di tali eventi ha provato ad essere immaginazione. Videoclip ad impatto emotitivo sbalorditivo, celere fu il raggiungimento della vetta in classifica, aggiudicandosi, nel 1994, il Grammy come miglior canzone rock, cerimonia alla quale, selvaggiamente fedele a sé stesso, David non si presenterà, sfuggendo alla cristallizzazione della fama legata ad un singolo testo.
Concretezza e coerenza d’animo di difficile gestione, se considerata in rapporto al desiderio di carriera che l’essere incasellabili rende ripida salita, irresolutezza interiore che, tra malinconia e rassegnazione, in Runaway Train erutta in tutta la sua sincerità, principal filo conduttore al cuore del pubblico. Ecco dunque che il sentirsi una chiave di svolta mal girata uccide il sonno nella stanchezza, nel difficile tentativo di non cedere alle lacrime sentendosi irrimediabilmente a fondo d’un baratro difficilmente ripercorribile, in piena consapevolezza d’un treno in fuga che non ritornerà, ma nel delicato desiderio di riprendere a sorridere, seppur il senso della vita si faccia sempre più sbiadito. Scompare all’improvviso nelle immagini di quei visi bambini che scorrono, la comprensione della stessa, nello sconforto in cui si scivola senza possibilità di ritorno al solo pensiero che l’innocenza di talune anime possa venir barbaramente violata dalla bestialità umana.
Brano di spessore stupefacente, vitale ancor prima che artistico, unito ad un animo che di dolore si fa intermittenza, nel testo, nella musica, nei vissuti, fissando in esso un sentire che supera di gran lunga qualsiasi riconoscimento e donando esempio nel senso primo che il coraggio di esporsi dona all’esistenza, ledendone inevitabilmente i contorni.
I was a key that could use a little turning
So tired that I couldn’t even sleep
So many secrets I couldn’t keep
Promised myself I wouldn’t weep
One more promise I couldn’t keep
It seems no one can help me now
I’m in too deep
There’s no way out
This time I have really led myself astray
Runaway train never going back
Wrong way on a one way track
Seems like I should be getting somewhere
Somehow I’m neither here nor there
Can you help me remember how to smile
Make it somehow all seem worthwhile
How on earth did I get so jaded
Life’s mystery seems so faded
Su quel treno di mezzanotte in Georgia
Preferirei vivere nel suo mondo
Che vivere senza di lui nel mio
(Midnight Train To Georgia)
Amy Elizabeth Ray ed Emily Ann Saliers, 1964 e 1963 i rispettivi anni di nascita, si conobbero infanti nella georgiana Contea di DeKalb e si legarono in musica durante la frequentazione della Shamrock High School, nominandosi in B-Band e, successivamente, in Saliers and Ray, ponendo nome definitivo in capo al gruppo nel 1985, quando il colore indaco colpì l’immaginazione di entrambe nello sfogliar pagine di dizionario. Dopo il disco di platino del primo album, Stranger Fire, 1987, ed il dorato del secondo, Nomad Indians Saints, 1990, enorme notorietà investì il quarto LP, Rites Of Passage, del 1992, fra i cui brani spirito romantico si posò sulla reinterpretazione di Romeo & Juliet, dei Dire Straits e tocco poetico su Virginia Woolf, il cui testo fu scritto dalla stessa Emily.
Della Georgia, in loro perenne perla nostalgica, rispolvereranno poetica e note nella cover di Midnight Train To Georgia, brano che giunse via binario dal lontano 1970, anno in cui le labbra della cantante Cissy Houston concessero alloggio al testo in genere gospel e portato poi al successo dalla cantante R&B e soul statunitense Gladis Knight, pubblicato nel 1973 con il cui gruppo d’appartenenza, i The Pips, e vincitore del Grammy l’anno successivo. Canzone scritta ed interpretata da Jim Weatherly, il cui titolo originale era Midnight Plane To Huston, curiosità vuole che l’idea scrittoria fosse scaturita da una conversazione telefonica intercorsa con Farrah Fawcett, alla cui domanda su cosa stesse facendo in quel momento, egli rispose d’esser sul punto di prendere il volo di mezzanotte per Houston, e l’idea nacque a fil di cornetta in iniziale sfumatura country.
Separate nella scrittura dei testi, ma in arrangiamento condiviso, il rapporto fra Amy ed Emily si concretizza nel rispetto delle differenze d’insieme, un riguardoso e complementare interagirsi in amicizia, arte ed ideali, sparsi ad ampio raggio nel sostener cause ambientaliste, diritti civili, difesa alle donne e protezione dei Nativi americani.
Orrore, sgomento, costernazione, oltraggio, annientamento, persecuzione, efferatezza e ferocia si fanno passeggeri a bordo carrozza in This Train Revised, brano nel quale le Indigo Girls rigurgitarono tutto il loro disdegno nei confronti delle persecuzioni naziste. Traccia del quarto album, Swamp Ophelia del 1994, ulteriore riconoscimento di platino per una raccolta dall’atmosfera più cupa rispetto ai precedenti, in particolar modo nella train-song che della shoah fa contenuto di testo e rabbia di canto, sfondando ogni comprensione umanamente possibile qualora la mente affianchi il pensiero all’immagine di qualsiasi sterminio avvenuto, di spietata atrocità al di fuori di concezioni politiche ed ideologiche, le peggiori offese nell’assurda convinzione che fra genocidi si possa attuar paragone.
Spezza la gola come il peggior bisturi, This Train Revised, nel saper d’anime ridotte a pelle ed ossa, accatastate fra piscio e sangue in un vagone che condusse alla morte omosessuali, zingari, e coloro ai cui occhi la stella di David non avrebbe più concesso luce. Corpi martoriati come scimmie in pietosa condizion di cavie, senza musica nel cuore, passo di danza di ballerino mutilato, gole private delle voci, fatiche sotto le quali le spalle soccombono senza più pensieri, sradicati dalla mente a favor dell’afflizione più angosciante.
It’s a fish white belly
A lump in the throat
Razor on the wire
Skin and bone
Piss and blood
In a railroad car
One hundred people
Gypsies queers and David’s star
This train is bound for glory
This train is bound for glory
This train is bound for glory
This train
Measure the bones
Count the face
Pull out the teeth
Do you belong to the human race
Doctor doctor
Are you unkind
Do you shock the monkeys
Cover our eyes with clear blue skies
This train is bound for glory
This train is bound for glory
This train is bound for glory now
This train
Here is a dancer
Who has no legs
Here is a healer (here is a teacher who has no face)
Who has no hands (here is a runner who has no feet)
Here is a thinker (here is a builder who has no back)
Who has no head (here is a writer who has no voice)
These are the questions (these are the answers)
Stacked like wood
This train is bound for glory
This train is bound for glory
This train is bound for glory now (this train)
This train is bound for glory (this train gonna carry my mother)
This train is bound for glory (this train gonna carry my father)
This train is bound for glory now (this train gonna carry my sister)
This train (this train gonna carry my brother)
This train gonna carry my sister (here is a healer) (stacked like wood)
This train gonna carry my brother (this is a builder)
This train gonna carry my sister (gypsies queers and David’s star)
This train is, this train is bound for glory
These are the questions
Stacked like wood
These are the answers
Here is potential gone for good
Treno di fratelli, madri, figli, sorelle, padri ed amici vergognosamente ammassati nel nulla per il nulla, locomotiva nel cui ritornello, this train is bound for glory, la mente corre al lontano treno nell’eco gospeliano di Rosetta Tharpe, gridato in desiderio di fratellanza e tristemente immutato in significato e speranza, amaramente fattosi cenere in volo nel vento.
Restano domande, interrogativi, sacrosanti quesiti ai quali l’impossibilità di risposta si fa martello pneumatico in pancia. Non vi è motivo, non vi è senso, non vi è ragione alcuna all’incomprensibile scempio, all’inconcepibile carneficina, all’aberrante deturpazione, cripticità di fato che per sventurate anime s’è fatto cappio sulla vita.
Misterioso traguardo, il destino di ogni uomo, incertezza di percorso che Charlie Musselwhite, in Train to Nowhere, canta in malinconia di nota a fil di binario…
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