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Viaggio sul treno della Musica (cap.2)

 
Mentre Elizabeth Cotten graziava corde di chitarra del suo dignitoso “savoir faire” e poco tempo prima che i prolifici neuroni di Chuck Berry partorissero l’immagine di Johnny B. Goode, movimento di nota in terra liverpooliana virò accento sui Quarrymen, piccola band con a leader un certo John Winston Lennon il quale, nel Luglio del 1957, sfiatò la propria arte nella chiesa di St. Peter, storica occasione di conoscenza e successiva unione artistica con il giovane James Paul McCartney, che a sua volta lo unì in musica ed amicizia a George Harrison.

Bassista Stuart Sutcliffe e bacchette alla mano di Pete Best, il quintetto ottenne un primo contratto con esibizione ufficiale ad Amburgo, evento coincidente con la nascita del nome che trascriverà pura storia: The Beatles, la cui composizione definitiva avverrà dopo l’abbandono di Stuf, soprannominato il quinto Beatle, nel Giugno del 1961 e con la sostituzione in batteria di Best, da parte di RichardRingo StarrStarkey, nell’Agosto del 1962.

Protagonisti convinti ed incalliti interpreti degli ideali che nei loro testi avrebbero trovato voce, i quattro caschetti corvini, che in giacca e camicia influenzarono look e pensieri della gioventù in ribelle ricerca di riferimenti extra-familiari, macinarono musica nei differenti generi, con iniziale passo di skliffle, componendo in successivo stile rock, che gli stessi seppero addolcire in miscela pop, unendo quest’ultimo alla musica classica in melodica sfumatura barocca e sperimentando tecniche compositive sotto l’attento sguardo del compositore e produttore discografico britannico George Martin, che ne curò con zelo e passione gli arrangiamenti orchestrali, producendone anche il settimo album, Revolver (1966), capolavoro nel quale, per la prima volta, i Beatles saggiarono se stessi in elementi di rock psichedelico, a cui daranno maggior fiato, il successivo anno, nell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

Audaci tentativi, intrepide sperimentazioni ed animosi azzardi sul campo delle note, ne ornarono il ricco repertorio musicale; le modulazioni della velocità di registrazione, il calcar sugli acuti, la saturazione dei suoni di chitarra in feedback e fuzz tone, unite a lente accordature del tom di batteria, gettarono inoltre timidi semi di richiamo all’heavy metal, influenzando numerose personalità di stridulo canto fra le quali Ozzy Osburne, Lemmy Kilmister, i Deep Purple, gli Scorpions, Gene Simmons, i Metallica ed ulteriori.

Esser stati Beatles nel decennio fra il 1960 ed il 1970, nel modo in cui gli stessi hanno saputo viversi, cantarsi e donarsi, significa aver impresso orma in epoca storica di trasformazioni funzionali all’affermazione dell’individuo, intrecciando strumenti e voci all’indole sovversiva dei movimenti studenteschi di quel periodo, inevitabilmente necessari nello sforzo d’affrancarsi dalla condizion d’anonimato in cui le giovani menti erano compresse dal dilagante perbenismo; sacrosanto grido che dagli animi giunse alle piazze per poi farsi vulcano in piena eruzione nella Summer of Love e palpitante vibrazione sui palchi dei Festival di Monterey e Woodstock in seguito, nel determinato e sofferto svincolarsi dall’offuscamento del pensiero unico ed in “pasionaria” tendenza verso la più completa emancipazione che, in ambito musicale, mantecò brama di vivere a nascenti ritmi psichedelici come fossero cibo per l’anima d’amalgamarsi in corpo.

Partorirono un sogno, i Beatles, interpretando vissuti diffusi sullo sfondo di un sogno ancor più grande, quello a cui Martin Luther King diede vita nel 1963 (cinque anni prima del suo assassinio, tristemente preceduto ed unito in destino di fine percorso da Malcom X) al termine della marcia su Washington per il lavoro e la libertà, in ferrea e sentita difesa dei diritti civili.

«I have a dream», flautava il suo fiato, febbrilmente anelando all’unione, alla libertà, all’uguaglianza, al desiato perir delle prevaricazioni che accecano l’esistere di vittime e carnefici; afflato di filantropica inclinazione alla quale impose tono pacifista, decisamente meno violento rispetto alle azioni del movimento Black Power, seppur ad orgoglioso e condiviso assunto che la civiltà d’uno stato, d’un popolo, d’una singola persona, possa esistere unicamente nel donarsi reciproco riguardo, nel concepirsi in mansueta concomitanza di peculiarità e nel non sopraffarsi l’un l’altro.

Luther King, Malcolm X, Nelson Mandela, John Kennedy, uomini il cui grido raggiunse i decibel massimi, soffocato dai poteri, ma delicatamente raccolto e riproposto in musica da più artisti, cantato a fil di labbra da ragazzi d’ogni estrazione sociale, in convinta unione ideologica ed in ritmato battito di cuore, idillico palpito al quale i Beatles, fra tanti altri, seppero far da locomotiva trainante su binari il cui capolinea fosse il genere umano nel suo diritto d’esistere.

 

Da Liverpool al fuoco di Trenchtown

C’è qualcosa nel fischio di un treno che è molto romantico e nostalgico e pieno di speranza.
Paul Frederic Simon

Se nel testo di A Hard Day’s Night (terzo brano in title-track, 1964, nonché lato A del singolo in cui rovescio di vinile graffiava I Should Have Know Better), non si menzionano treni, pur vero è che nell’immaginario collettivo resta la frizzante melodia sulla quale quattro inglesi scanzonati, 95 anni in quattro, nella prima scena del film omonimo, corrono verso un treno, tratta Liverpool-Londra, inseguiti da centinaia di seguaci in preda a delirante e strillante ammirazione.

Viaggio nel tempo, sul treno della musica: Un lungo viaggio a bordo dei convogli che hanno trasportato note e sentimenti di artisti di ogni epoca. 6 appuntamenti settimanali a cura della poetessa e scrittrice Claudia Brugna. (https://terzopianeta.info)

Girato in otto settimane, nell’intervallo fra tour americano ed europeo, obiettivo primo della pellicola fu l’esser traino al terzo album, in un movimentato susseguirsi di scene cinematografiche magistralmente rubate alla vita reale e montate in videocamera dalla singolare abilità del regista statunitense Richard Lester, precoce genio di fotocamera che, a tre lustri di vita appena, prodigio nelle meningi e sangue ebraico nelle vene, già sposava interesse per il cinema britannico all’Università della Pennsylvania. Del cantorio quartetto vissuto a bordo Mersey, captò e fermò su bobina la freschezza nel racconto d’una tipica giornata di lavoro, calcando in onirico surrealismo sulla macchina da presa, immortalandone con personalissima passion di stile gestualità e movimenti, levandoli alla ghigliottina del tempo nella scelta della registrazione in bianco e nero, incantevolmente imperitura, spronando simultaneamente alla riflessione sulla vita che fugge tra le incombenze giornaliere e consacrandone il mito sociologico-musicale a fil dell’imminente esplosione delle beatlemania, in pieno tuffo antropologico-culturale tra musica, cinema e realtà.

Testo scritto in un giorno da John Lennon, il quale ebbe probabilmente a riversar fra strofe la nostalgia di casa dovuta a tour estenuanti, titolo vi fu ironicamente proposto ed apposto da Ringo Starr, in sarcastica battuta sul finire d’una dura giornata lavorativa, unita al desiderio d’un rincasare appagante che non coincida con il mero rientrar fra mura, bensì un ritorno nell’abbraccio di un complementare sentire che sia ristoro per mente e fisico, surclassante la stanchezza.

Nell’ultima scena del film, dopo quadruplo e simultaneo inchino, a fine esibizione, dal palco sotto il quale centinaia di ragazze miscelavano lacrime e rimmel in pathos estremo, gli inesauribili Beatles svestono la chitarra e, dietro le quinte, disannodata  la cravatta con risanante far liberatorio, acchiappano la giusta dose di respiro per ripartire nell’immediato, seppur con leggero piglio critico dovuto alle tempistiche snervanti. Eccoli dunque correre in segreta uscita posteriore, uniti nella frenesia e nell’affrettata partenza a bordo elicottero, fra eliche rotanti, progetti futuri e pioggia di foto autografate che si perdono svolazzanti nell’aria.

Ulterior magia del regista tange i titoli di coda, ove il susseguirsi delle espressioni facciali dei quattro artisti, in abile inquadratura calzata su particolari dei tratti somatici, ne sottolinea la bellezza del loro lato comune, quello ridente, quello energico, giovane, frizzante e sbarazzino, elogiandone a mezzo cinepresa smorfie, sorrisi, occhi, capelli e disabbigliandoli della fagocitante fama per riconcedere loro la possibilità di ritornare ad essere per un istante semplicemente John, Paul, George e Ringo, poco prima che l’eclatante boato suscitato dalle loro canzoni ne estendesse lo sguardo ben oltre il mare d’Irlanda, in carismatico ed inconsapevole tocco di re Mida.

Meglio morire combattendo per là libertà che morire da schiavi.
Bob Marley

Con balzo annuale di mezza dozzina su Let it Rock ed in malinconico aggancio a Lennon, nostalgia di casa e fascino della musica di binario s’unirono in canto, nel 1966, sulle labbra di Simon & Garfunkel, nel singolo Homeward Bound, getto d’inchiostro autobiografico ad opera di Paul Simon, fra muri di stazione ferroviaria.

D’ebraica origine, compagni d’infanzia cresciuti a Forest Hills ed uniti in successiva carriera nel folk, Paul Frederic Simon ed Arthur Ira Garfunkel dettero precoce dimostrazione della loro dote interpretativa ad amor di palco durante il primo quinquennio scolastico, calandosi nei ruoli di Bianconiglio ed Aristogatto ed ornando in tal modo l’Alice di Lewis Carrol d’ulteriore Meraviglia da domiciliare al proprio paese.

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Pausa di frequentazione interrotta nel periodo universitario da differente scelta accademica, letteratura inglese al Queens College per Paul, architettura alla Columbia per “Artie”, l’anno 1963 riavvicinò in voce il romantico e perfezionista studioso del suono al biondo ricciolo dall’angelico timbro. Uniti in delicatezza di corde vocali ed amical affiatamento, proseguirono in acerbe esperienze cantorie fino alla pubblicazione di Wednesday Morning 3 A. M., primo album datato Ottobre 1964, fra i cui brani la versione acustica di The Sound Of Silence, che li porterà alla ribalta della classifiche due anni più tardi, e la commovente canzone He Was My Brother, dedicata al compagno d’università Andrew Goodman, giovane attivista, a favore dei diritti civili, del movimento Freedom Summer, campagna di volontariato statunitense lanciata nel Giugno del 1964 in zona Mississippi e volta ad assistere gli afroamericani nelle procedure per la richiesta del diritto di voto, nell’intento di superare ostacoli burocratici, vergognosamente e volutamente complicati, nella difficoltà intrinseca ai questionari, che ne rendevano estremamente improbabile, se non impossibile, la risoluzione ed il conseguente accesso alle urne. Rapito ed assassinato dal Ku Klux Klan a Philadelphia, insieme a Michael Schwerner e James Chaney, il 21 dello stesso mese, poco prima che gli fosse concesso primo soffio di candelina oltre la seconda decade di vita, Andrew rivivrà nelle parole di Simon, in dolorosa ode al grido di libertà ch’egli seppe liberar dalla gola, perseguitato per insofferenza ai soprusi e perito nel desiderio di levar dalla sottomissione gli oppressi ed i sopraffatti dal sistema.

 

He was singin’ on his knees
An angry mob trailed along
They shot my brother dead
Because he hated what was wrong
He was my brother
Tears can’t bring him back to me
He was my brother
And he died so his brothers could be free
He died so his brothers could be free

 

A registrazione ultimata dei brani ed in timor di flop dell’LP, come effettivamente fu, fra le probabili cause anche la contemporanea pubblicazione in scia d’ombra alla stupefacente affermazione dei Beatles, sei mesi prima dell’ufficial uscita, fu in Simon la decisione di trasferirsi in Inghilterra, esperienza di viaggio che lo raffinò nella tecnica di chitarra, suonando egli nei locali d’oltreoceano, componendo brani nelle stazioni ferroviarie ed innamorandosi perdutamente, nella contea di Essex, dell’allor diciassettenne Kathy Chitty, ragazza che rasperà romanticamente il suo cuore ed alla quale sarà dedicata la canzone Kathy’s Song, amor il loro egualmente fremente fino al distacco conseguito alla decisione di Paul di esibirsi a Londra.

Saran l’insopportabile senso di solitudine, lo sfibrante ritmo lavorativo e la mancanza della stessa a condurlo, in fase d’afflizione ed in attesa d’un convoglio, a scrivere la sua Homeward Bound nella stazione ferroviaria nei pressi di Widnes. È in quella notte del 14 dicembre 1965 che il brano prende vita nell’attesa di un treno che si fa speranza di rientro fra le mura della propria casa e fra la reminiscenza d’un Amore distante, seppur non del tutto perduto. Valigia al piede e chitarra alla mano ben allegorizzano la nubilosa immagine dell’artista di strada, dei giorni che infiniti si ripetono inerti, del movimento dei musicanti agli occhi dei quali ogni città par assomigliarsi nell’esser straniera, nel rammarico di canzonar vocaboli che si fan gioco e finzione in ritorno diretto al mittente e nella boccheggiante sensazione d’abbandono di chi vorrebbe invece sciogliersi ad amorose cure ristoratrici.

 

Every day’s an endless stream
Of cigarettes and magazines
And each town looks the same to me, the movies and the factories
And every stranger’s face I see reminds me that I long to be
Homeward bound
I wish I was
Homeward bound
Home where my thought’s escaping
Home where my music’s playing
Home where my love lies waiting
Silently for me
Tonight I’ll sing my songs again
I’ll play the game and pretend
But all my words come back to me in shades of mediocrity
Like emptiness in harmony I need someone to comfort me

 

Nel live del 1966, l’interpretazione del testo colpisce nella semplicità cristallina delle posture di Paul ed Arthur, nell’umiltà del porsi al pubblico e nell’intendersi in un colpo di sguardo al vocalizzar sull’Home, acutizzato e ripetuto, quasi che l’essenza prima della musica fosse essa stessa un sentirsi a casa nell’intesa del cantarla in doppia voce con fare garbato, senza mai sovrapporsi. Occhi grandi e profondi, quelli di Simon, spesso persi nel vuoto in tutta la loro bontà, di taglio più sottile ad incorniciarne l’intensità dell’iride quelli di Garfunkel. Due visi agli antipodi nell’unicità di canto, deliziosa scambievolezza di timbri che emoziona e riconduce all’intimità nell’ascolto profondo dell’armonia di suono ch’essa produce.

Il ritorno fra le braccia di Kathy ed il conseguente tour degli Stati Uniti a lei “ammanato”, fu protagonista del brano America, poco prima che la sopraggiunta fama facesse da forbice ad un rapporto in cui il timido ego di Kathy mal avrebbe sopportato lo smacco dei riflettori sulla propria riservatezza. Fu nell’autunno del 1965 che il duetto del folk dalle cortesi maniere ebbe trampolino nel genio del produttore discografico Tom Wilson il quale, sul dylaniano trend folk-rock del periodo, riportò alla ribalta l’indimenticabile The Sound Of Silence, remixandola in elettrica ed esplodendo la title-track a brano simbolo dell’epoca, spianando strada ai due musicisti verso il successo mondiale, d’impatto artistico indiscusso, sebben la prima versione esclusivamente acustica, rimanga il brivido che sfiora la pelle in elegiaca illibatezza, poetica di dita che si fan chitarra e di chitarra che si fa fiato.
Lirico amoreggiar in limpidezza di melodia.

L’indipendenza non può essere una semplice parola priva di significato,
essa deve rimanere un principio che non ammette compromesso o sospetto,
un principio che richiede rispetto per sé e allo stesso tempo pari rispetto per i diritti degli altri.
Hailé Selassié

Viaggio nel tempo, sul treno della musica: Un lungo viaggio a bordo dei convogli che hanno trasportato note e sentimenti di artisti di ogni epoca. 6 appuntamenti settimanali a cura della poetessa e scrittrice Claudia Brugna. (https://terzopianeta.info)

Fu il sesto giorno di Febbraio del 1945 che il villaggio di Nine Mile, nella costa Nord della Giamaica, ebbe privilegio d’annoverar presenza fra il proprio popolo del munifico animo di Robert Nesta Marley, frutto d’unione fra la giamaicana Cedella Booker ed il capitano della marina inglese Norval Sinclair Marley. Medesimo cognome ed iniziale accudimento economico, seguito dall’abbandono della moglie ancora in stato di gravidanza, non furono sufficienti a germinar nell’infante la magia del rapporto fra padre e figlio che il sol legame di sangue non può garantire, lacuna affettiva che si fece ago e filo sul cuore del futuro ragazzo, imbastendo un senso d’orfanilità pressante che ne avrebbe caratterizzato pensiero ed emotività, pur non avvelenandone la nobile indole caratteriale che lo portò spesso ad affermare, senz’odio, che lo stesso padre fosse «come quelle storie che si leggono, storie di schiavi: l’uomo bianco che prende la donna nera e la mette incinta», considerando al contempo l’esser anima sciolta in miscuglio di etnie come valore aggiunto, nell’ assoluta convinzione che la pace fra popolazioni sia l’unico modo per concretizzar in fatto la parola civiltà.

“Adolescenziando” nel ghetto di Trenchtown, sobborgo di Kingston che ebbe a porsi nome in capo dalla presenza dell’immigrante irlandese James Trench, che fino al diciannovesimo secolo fece di tali terre pascoli per il proprio bestiame, Bob intersecherà il proprio vissuto alle insalubri condizioni igieniche tipiche delle baraccopoli dimenticate dal mondo, soffrendo egli stesso per il disuman vivere trascinandosi a stenti dei numerosi contadini che, dalle zone rurali, giunsero in quello che fino agli anni trenta fu area residenziale, poi tramutatasi in crescente abusivismo sulle rovine dell’uragano Charlie, che nel 1951 aveva raso al suole le tendopoli circostanti. Vita di marginalità, disperazione e degrado che in Trenchtown, così come nei blums della capitale giamaicana ed in tutti i bassifondi del globo, furono fertile humus per sentimenti di rivolta che s’annidarono fra i pensieri degli indigenti, barbaramente sfregiati da vergognose condizioni di disagio psicofisico, massacrati nell’amor proprio, nell’emozionalità e nei sogni, vilmente distrutti sul nascere dalla realistica consapevolezza d’essere inevitabilmente destinati ad una vita costellata d’espedienti, nella quale affogare lentamente senza possibilità alcuna di riemergere.

Trenchtown non è in Giamaica, Trenchtown è ovunque, perché è il luogo da cui vengono tutti i diseredati, tutti i disperati, Trenchtown è il ghetto, è qualsiasi ghetto di qualsiasi città… E se sei nato a Trenchtown, non avrai la benché minima possibilità di farcela.
Bob Marley

Contemporanea insofferenza congenita alle angherie, alle vessazioni, alla faziosa, riprovevole e disequanime distribuzione di risorse e ricchezze, all’avida sete di potere che, unita a stolta cupidigia, fu la base d’ogni schiavitù, germinò in Marley visceral sentimento d’intolleranza ch’egli vibrò alla propria musica in sanguigno impeto etico e morale, abbeverandosi d’elevato misticismo trasmesso in toto alla prima chitarra, ch’egli costruì da sé dopo aver intriso l’udito delle provocazioni rock, soul e country dell’epoca ch’ebbero a fulminarne ardentemente l’indole caritatevole. Gli resterà in eterno fra vene e neuroni, la sua Trenchtown, amandone la gente con puro fervore e bramandone la libertà a dolce suon di musica, nel tentativo di condurre coloro che ritenne fratelli ad una pacifica e motivata rinascita.

 

There I vision through the seas of oppression, oh
Don’t make my life a prison

We come from Trench Town, Trench Town
Most of them come from Trench Town
We free the people with music
Sweet music
Can we free the people with music?
Sweet music
Can we free our people with music?
With music,
With music, oh music

Oh, my head
In desolate places we’ll find our bread
And everyone see what’s taking place, oh-oo-wo!
Another page in history

They say it’s hard to speak
They feel so strong to say we are weak
But through the eyes the love of our people, oh-oo-wo!
They’ve got to repay

 

Una “Città di trincea”, per l’appunto, nella quale strinse mano in amicizia, ideali e futura carriera artistica con Neville O’Riley Livingston, detto Bunny Wailer e Peter Tosh, al secolo Winston Hubert McIntosh. Si faranno conoscere come The Wailers, colpendo e disorientando con liriche incendiarie e cariche di fede Rastafari, movimento filosofico-spirituale sorto nel trentennio che sì proclamò erede del Cristianesimo. Esso ebbe nome in rappresentanza di Ras Tafari Maconnén, duecentoventicinquesimo discendente della dinastia Salomonide, tramite linea di David, appartenente alla Tribù di Giuda e negus neghesti salito al trono d’Etiopia, nel 1930, con il nome di Hailé Selassié; dottrina dell’ultimo imperatore etiope di cui Marley fece ben presto tesoro, introiettandone la concezione di pensiero e legandosi indissolubilmente alla popolazione etiope in mistico trasporto umanitaristico, ch’egli seppe miscelare a sangue e musica, lasciando che il proprio corpo, forgiato nelle difficoltà esistenziali, divenisse umile mezzo di passaggio nell’adagiarne speranze a dolcezza di nota, come linfa d’albero il cui resiliente tronco s’offra a protezione nell’invisibile magia del nutrir fronde rivolgendole al celeste.

Il canto di Bob è esperienza sensoriale che varca i confini dell’ascolto con la leggerezza tipica d’un fil di cotone, libere e soavi note sorvolano metropoli, sobborghi, campagne, piantagioni, esso divien frutto da cogliere ed assaporare, fiore del cui profumo saturarsi le narici ed ancor foglia dalla quale sorseggiar rugiada, in stoico ramo figlio di radici che nell’immortal potenza della sua musica mai potrà spezzarsi.

Atroce ingiustizia fu lui inflitta dal melanoma che ne fermò battiti e respiro al trentaseiesimo anno di vita, nulla potendo sulla sua voce che resterà dolce lirica del mondo finché il Pianeta avrà rotazione.

La mia musica vivrà in eterno.
Forse è stupido dirlo, ma quando sono sicuro delle cose, io le dico.
La mia musica vivrà per sempre.
Bob Marley

La locomotiva dei Wailers fischia umanità in Stop That Train, quarta traccia nell’album Catch A Fire del 1970, primo LP che estese il reggae ad un pubblico non più esclusivamente giamaicano e consacrando in seguito Bob e la sua band a livello internazionale. È un treno rassegnato, terribilmente triste, quello che esce dal timbro vocale e dall’anima di Peter Tosh, in versione più rallentato e graduale, rispetto al singolo di tre anni prima, allor caratterizzato da maggior veemenza. Un agglomerato di carrozze sulle quali scorrono vite differenti, talune delle quali talmente sfregiate dalla miseria che si vorrebbe essere in grado di virarne direzione, maledettamente predestinata, nel percorso esistenziale ove la condizione di talune anime soccombe a tal punto da non potersi nemmeno nutrire, nefando insulto, rovescio di medaglia inosservato dai privilegiati d’agiati averi.

 

It won’t be too long whether I’m right or wrong;
I said, it won’t be too long whether I’m right or wrong

All my good life I’ve been a lonely man,
Teachin’ my people who don’t understand;
And even though I tried my best,
I still can’t find no happiness

So I got to say
Stop that train, I’m leavin’, oh, baby now
Stop that train, I’m leavin’, don’t care what you say

Some goin’ east; and a some goin’ west
Some stand aside to try their best
Some living big, but the most livin’ small
They just can’t even find no food at all
I mean, stop it
Stop that train I’m leaving
Stop that train I’m leaving
Stop that train I’m leaving

 

La profonda riluttanza di Bob della ricchezza materiale che avvelena l’animo ed acceca l’altruismo, trova convinta nota mistica in Zion Train, 1980, i cui versi son determinato invito alla forza di volontà, sulla quale far leva in pura tendenza ad una concezione spirituale della vita secondo cui il denaro debba essere un semplice mezzo di passaggio e non ancora che approdi l’uomo nell’errata consapevolezza che le ricchezze possano assumere maggiore importanza rispetto all’interiorità. Capotreno Zion è chiaro riferimento a Sion, la città di David ov’era rivolto desiderio di ritorno da parte degli ebrei durante la cattività babilonese, assunto a simbolo degli afroamericani dopo la guerra di secessione americana. Concetto teologico cardine del Rastafarianesimo, Zion, terra promessa identificata nell’Etiopia, è diametralmente opposta alla filosofia del consumismo di radice occidentale, metaforicamente definita, per l’appunto, Babilonia.

 

Oh man, it’s just self control (oo-hoo-oo)
Don’t gain the world and lose your soul (just don’t lose your soul)
Wisdom is better than silver and gold
To the bridge (ooh, ooh)
Oh, where there’s a will
There’s always a way
Where there’s a will
There’s always a way (way, way, way, way)
Soul train is coming our way, er
Zion train is coming our way

 

Prossima fermata, Banana Republic

Oh, una tempesta sta minacciando la mia stessa vita oggi.
Se non trovo un riparo, oh sì, sto per svanire
(Gimme Shelter, The Rolling Stones)

Come Bob Marley, ultimo battito cardiaco condusse al capolinea, ai suoi trentasei autunni, StevenSteveBenjamin Goodman, una delle figure più rappresentative del cantautorato americano degli anni settanta, partorito a Chicago nel Luglio del 1948 ed impietosamente falciato da neoplasia leucemica nel Settembre del 1984, spietato anagramma numerico che ne arrestò sul nascere la talentuosa discografia. Cresciuto nell’Illinois e precocemente affiancato dalla malattia che ne segnò il percorso esistenziale, fu in adolescenza che scrittura e voce in lui s’unirono a sentite canzoni, in prima apparizione nell’album Gathering at the Earl of Old Town, in produzione locale del 1971, medesimo anno in cui esibizione artistica lo saggiò fra le mura del Quiet Knight, bar di Chicago in cui la folgorazione che di lui ebbe il musicista e cantante country statunitense Kris Kristofferson, con conseguente conoscenza del compositore canadese Paul Albert Anka, fu trampolino di lancio per un contratto con l’etichetta discografica Buddha Records.

Viaggio nel tempo, sul treno della musica: Un lungo viaggio a bordo dei convogli che hanno trasportato note e sentimenti di artisti di ogni epoca. 6 appuntamenti settimanali a cura della poetessa e scrittrice Claudia Brugna. (https://terzopianeta.info)

Doppio colpo di fortuna sfiorò positivamente la sua carriera quando, ancora una volta fra palco e banco di mescita, tra una birra offerta ed una richiesta d’ascolto, Steve agganciò udito ed interesse del cantante canadese folk Arlo Guthrie (paterno sangue fra le vene del folk singer Woody Guthrie) obliterando voce sul treno protagonista di quello che sarà il suo più grande successo, City Or New Orleans, title-track del 1971, per il quale Arlo chiese permesso di registrazione, inserendolo nel proprio album, Hobo’s Lullaby, nel 1972 e restituendone a Goodman ampio guadagno e fama di testo, coverizzato nella sua bellezza da numerosi artisti fra cui John Denver, The Seldom Scene, Johnny Cash, Judy Collins, Willie Nelson, chitarrista e cantautore quest’ultimo il quale, nel 1984, ne consacrerà estrema notorietà nella personal versione, svettandola in cima alla Hot Country Song degli Stati Uniti.

Lo stesso Woody Guthrie, una generazione addietro, aveva miscelato note e ferrovia arrangiando la storica This Train (che nel 1955 s’infiammava nell’eterodosso canto della Tharpe) per William Lee ‘Big Bill’ Conley Broonzy, chitarrista statunitense e compositore degli anni venti, bluesman di spessore al cui iniziale genere country-blues ad intrattenimento di pubblico afro americano, avrebbe sposato sfumatura urban-style influenzando artisti del calibro di Muddy Waters e Willie Dixon.

La locomotiva di Goodman uscì in parole dalla sua penna durante un viaggio, sulla linea dell’Illinois Central, per una visita ai parenti della moglie. Nel testo, immaginaria tratta su binario da Chicago a New Orleans, sulla city of News Orleans della Illinois central Railroad, malinconia, dolcezza e bella scrittura si fusero in mieloso canto sulle labbra d’un uomo così bonario, talmente profondo e ricco di semplicità a tal punto, da devastare i sensi in quel live in camicia e salopette di jeans, con sorriso simbiotico a corde di chitarra e parole partorite a canzoni da un cuore i cui teneri bordi si possono scorgere nel suo sguardo, d’innocenza purissima, sincerità straboccante e melanconia velata fra ciglio ed iride. Scivola delicato fra l’odissea del traffico americano e la contea di Kankakee, il suo timbro vocale, plasmandosi a fischio di treno che par rotolar fra case, fattorie e campi, attraversando città sconosciute, cantieri popolati da vecchie schiene d’uomini di colore, piegate dalle fatiche ed arrugginite come carcasse d’auto nei loro cimiteri.

 

Riding on the city of New Orleans
Illinois Central Monday morning rail

There all out on this southbound odyssey
And the train pulls out of Kankakee
Rolls past the houses, farms and fields
Passin’ towns that have no names
And freight yards full of old black men
And the graveyards of rusted automobiles

Singin’ “good morning America, how are ya?”
Saying “don’t ya know me? I’m your native son”

 

Pezzo storico del quale Goodman ed il suo chitarrista Steve Burgh furono inchiostro, fu Banana Republics, immaginario paese tropicale nel quale canzonar le peripezie di taluni cittadini statunitensi espatriati in probabile ricerca di divertimento. Versione originale di scarso riscontro trovò celebrità l’anno successivo nella reinterpretazione pop del musicista, cantautore, attore, produttore cinematografico e scrittore statunitense Jimmy Buffet, oltre che agganciata in title-track e cinematografia, previa eliminazione della S e modifica testuale, da Francesco De Gregori e Lucio Dalla nel 1977.

«Banana Republic è la traduzione di un pezzo di Steve Goodman che mio fratello […] mi aveva fatto conoscere. Mi piacque molto e cominciai a tradurlo un po’ per gioco un po’ per allegria. Quando la tournée era ormai decisa, pensammo che ci sarebbe voluto un altro pezzo da condividere oltre ai Marinai. Lo feci sentire a Lucio, a lui piacque. Non solo lo mettemmo nella scaletta del concerto, ma quel titolo innescò uno strano processo di fascinazione cosicché Ennio Melis, direttore della RCA italiana, uomo di grande istinto, ci consigliò di chiamare il tour come il brano appena realizzato. “Mica la vorrete chiamare I Marinai, che sa di vecchio?”. Ci disse di chiamarla Banana Republic perché è curioso e non si capisce cos’è». (Francesco De Gregori, intervista al Corriere della Sera)

Nonostante la sua breve presenza a bordo sfera, Steve scrisse numerose canzoni. Lui, l’uomo, il cantautore, genuinità di spirito artistico la cui orma, forse indegnamente riconosciuta nell’estemporaneità, ebbe a solcar il mondo con maestria cantoria e passo delicato, disgraziatamente sgambettato nel destino che frenò il suo ritmico trotto, sostituendo a muri di locali le fredde pareti ospedaliere dell’Università di Washington, a Seattle, che ne condussero anima e corpo in differente dimensione dopo lunga e sofferta lotta, incassando inesorabilmente la sconfitta definitiva, lentamente usurante in carne e spirito come una durissima tempesta pari solo alla più efferata delle guerre, che bombarda la vita da dentro e dalla quale egli, purtroppo, non ebbe possibilità di trovar riparo, svanendo.

In partenza da stazioni cinematografiche far estatici strilli beatlesiani transitando a fil di cristallo sul delicato soffio vocale di Paul e Simon, facendo di fischio nodo in gola nella sofferenza umana di cui Marley fu portavoce, rallentando in velocità sulla vita di Goodman, sarà in sfumatura argentata che la locomotiva delle note modificherà il proprio nome in Silver Train dei Rolling Stones…

 

The Beatles
Intro dal film A Hard Day’s Night & I Should Have Known Better, Live at the BBC

 
 

Simon and Garfunkel
Homeward Bound

 
 

Simon and Garfunkel
The Sound of Silence

 
 

The Wailers
Stop That Train

 
 

Bob Marley & The Wailers
Trenchtown

 
 

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