Viaggio sul treno della Musica (cap.1)
E i treni scivolano tra la notte e la rugiada,
lanciando al cielo il fumo dei passaggi
e facendo del fischio il più rauco saluto dell’aurora.
Marino Muñoz Lagos
Dal primo transitar di veicolo su rotaia, nel Galles, ad opera dell’ingegnere Richard Trevithick, nel 1804, stesso anno in cui un primitivo e medesimo moto avvenne a Philadelphia, sotto direttiva del costruttore Oliver Evans, gli Stati Uniti si dotarono di strade ferrate a partire dal 1826, con giro di prova nel 1830 che segnò, nel quarantennio a seguire, un percorso transcontinentale che, nel 1869, univa Atlantico a Pacifico.
Migliaia di kilometri di rotaie sulle quali s’intersecarono eleganti conversazioni benestanti ad immani fatiche operaie, segnate quest’ultime dalla durezza del lavoro ‘a bullone’, da condizioni disumane nello svolgimento dello stesso e da tragedie in loco che definire terribilmente ingiuste è eufemismo. La forza lavoro si costituì di variegato genere d’operai, spesso diseredati od ex schiavi che non avrebbero trovato impiego altrove, perlopiù che partecipare alla realizzazione del progetto che per antonomasia richiamava all’idea di libertà all’interno della possibilità di movimento, fu sostanzialmente e simbolicamente una sorta di riscatto dalla miseria e dall’esclusione. Motivo primo per cui, fra un pezzo di ferro ed un corpo piegato fra terra e sole, gli animi s’unirono in ideali e musica, miscelando voce di popolo fra country e blues.
Gli stessi operai divennero spesso inconsapevoli protagonisti delle ballate più struggenti, in sofferto balzo fra musica e vita, illusioni e patimento, sogno e realtà, sulla First Transcontinental Railroad.
Storicamente ancor distanti dallo sbuffo del primo vagone, fu sui binari delle proprie corde vocali che le gole afroamericane s’unirono sommessamente in grido contro la schiavitù, sfiatando tramite voce le sofferenze dell’uomo che dal suo simile venne messo in ginocchio, in un confronto che seppe d’arida rozzezza, nella pretesa intrinseca di supporre che potessero esistere condizioni di diversità fra gli umani, o, peggio, credendo che fra gli stessi le differenze non fossero da ritenersi opportunità d’interazione e reciprocità di rispetto, ma terreno di lavoro sul quale piegar le schiene di coloro che menti ottuse e prevaricatrici, di minuscola concezione umanistica, si permisero di ritenere inferiori.
Oltre danno giunse la beffarda beffa nel momento in cui, seppur in similitudine di credo, lo stesso venisse utilizzato come soffocante strumento di prevaricazione psicofisica. Il subdolo quanto meschino utilizzo della religione, da parte degli schiavisti, come mezzo da propinare agli stessi schiavi al fin di sopportare con pazienza e devozione la loro misera condizione, non impedì fortunatamente agli stessi di rinascere dalla propria spiritualità interiore, resistendo all’oppressione nella propria tradizione cantoria, sfiatando dolore e disperazione in ritmica ed armonica scala ‘blue note’ ed inneggiando alla vita fra ancestrali ritmi tribali e convinta fede nel cristianesimo, che nei cuori africani si fece musica sopra ogni cosa, lenendo le usuranti fatiche. Commovente intreccio dal quale, fra indicibili patimenti, convinta cristianità e melodie di viscera, inconsapevolmente antenato di quel che sarà in futuro il jazz, a fil di labbra ed in stato di melanconica malinconia originerà il genere spiritual, meravigliosamente, dignitosamente e caparbiamente frizzante, allegro, esuberante, di spontaneità maestosa rispetto all’espressione musicale liturgica del cristianesimo ‘bianco’. Movimenti corporei, battiti di mani, vocalità in estrema apertura e partecipazione corale, nel sentito contatto con la liturgia, che di catene faranno burro in passo di gospel, unendo voci in tributo al libero orgoglio e sovrapponendo la speranza di libertà trascendentale all’ignobile asservimento terrestre.
Il treno diretto verso la gloria
Successiva traslazione dell’esclusivo riferimento biblico di testi spirituals sull’individualità umana, le note delle cui ‘work songs’ sarebbero presto balzate dai fiori di cotone ai muri delle chiese, fu figlia di Thomas Andrew Dorsey, pianista e compositore statunitense considerato il padre del gospel nero. Sfumatura artistica prevalse, da parte sua, sulla concezione esclusivamente liturgica, seppur di radice musicale, riferibile ai predicatori degli anni venti. L’approccio ritmico meno conservatore, d’indubbia influenza blues, con il quale egli ebbe a miscelare musica e religione, gonfiò d’innovazione le ugole di numerosi artisti, fra i quali Sister Rosetta Tharpe, cantante, chitarrista e compositrice statunitense, ella stessa pioniera del gospel, le cui abili dita, scivolate sulle corde dall’età di quattro anni, unite alla voce che fin da fanciulla l’accompagnò nel canto, seppero unire spiritual e blues, con indiscussa destrezza di suono ed inconsueta capacità artistica.Sister Rosetta Tharpe era tutto tranne che ordinaria e insignificante. Era una grande, bella donna, e divina, per non dire sublime e splendida. Era una potente forza della natura.
Bob Dylan
Donna di talento esplosivo, cresciuta fra musica e preghiera, considerata inquinante dal clero per le ‘contaminazioni sonore’ sulla musica sacra, plettro, ella stessa con tutta se stessa, della propria chitarra acustica elettrificata e donna per le donne nella determinazione caratteriale oltre che artistica, la Tharpe si donò al pubblico in genuinità canora d’intensità stupefacente, vocalizzando il proprio sentire, accordandosi alle vulcaniche corde e miscelando innovazion di suono a conoscenza di pentagramma.
This Train, tipica melodia religiosa popolare di radici nere, registrata negli anni venti e suonata da più musicisti, in Rosetta erutterà infuocandosi nell’interpretazione, il suo viso sarà la stazione sul quale i binari s’inarcheranno nelle espressioni facciali in completa simbiosi fra note ed animo, fra corrugamenti di fronte ed intensità di sguardi, fra sorrisi ed acuti che ne renderanno immortali testo e significato. Ecco dunque che quella locomotiva destinata alla gloria, che nessuno porterà se non il giusto ed il santo, nessun giocatore d’azzardo, nessun ipocrita, nessun bugiardo, svetta veloce a fil di canto, quell’inusuale, profondo, acuto grido d’uguaglianza che in lei ha avuto ragion d’essere in qualità di messaggio eterno ed etereo, pulsante nella concretezza del vissuto e pieno nell’ascolto del suo cantar d’un treno sul quale esser bianco o nero non fa differenza alcuna.
This train don’t care if you white or black on this train
This train don’t care if you white or black on this train
This train don’t care if you white or black,
everybody’s treated just like a man
This train is bound for glory, this train
This train is bound for glory, this train
This train is bound for glory, this train
This train is bound for glory,
don’t carry nothing but the righteous an’ a holy
This train is bound for glory, this train
This train,
This train,
This train…
Modificandone il testo, sarà l’amabile, geniale, delicato, commosso e rivoluzionario soffio dell’amorevole armonicista blues Little Walter Jacobs a suggellarne immortalità, anno 1955, su arrangiamento di Willie Dixon, nel singolo My babe, poi ripreso successivamente da numerosi cantanti.
È nell’attesa di un treno, in Waiting For A Train, nel 1928, che il cantante statunitense Jimmie Rodgers eviscera il diffuso senso d’abbandono, rifiuto e disperazione tipici e trancianti numerose esistenze in quegli anni, affidandone ai versi il cuor affranto da povertà e tristezza, ma ancor intriso di sentire da non obliar di porre sguardo e pensiero a stelle e luna, seppur in sommessa ed impotente sensazione di cosmica e trafiggente solitudine.
The wide open spaces all around me the moon and stars up above
Nobody seems to want me or to lend me a helping hand
I’m on my way from Frisco going back to Dixie Land
Though my pocketbook is empty and my heart is full of pain
I’m a thousand miles away from home just a waiting for a train
Voce e chitarra ricamarono malinconica poesia in Robert Leroy Johnson, leggendaria icona del Delta blues che graziò i primi anni del ventesimo secolo con capacità cantorie, tecniche ed interpretative, mirabilmente avanguardiste ed inimitabili, bucando cuori e pensieri con passion di musica che lo colse da bambino, sfiatando dapprima infantil arte sull’armonica a bocca, per poi traslar sentimento a pizzico di corda in fingerpicking. Rimembrato da Eric Clapton come ‘il pianto più straziante che si possa ricordare nella voce umana’, il camaleontico musicista accorpante vari stili di blues, pioniere del tal fondere, si rese unico nel genere vocalizzando in acutezza (timbro vocale atipico nel blues) e danzando le proprie note fra introspezione, meraviglia, emotività e tormento. L’iperbole vitale s’arrestò al suo ventisettesimo anno, nel 1938, consacrandone alla memoria le abilità artistiche difficilmente eguagliabili ed annoverandone presenza nel Club 27, prezioso scrigno di delicate anime cantrici in precoce e sofferta dipartita, del quale lui stesso fu il primo appartenente.
In Love In Vain, da lui composta nel 1937 (da alcuni accreditata a Woody Payne), melodiosa malinconia caratterizza la canzone il cui testo riferisce lo sconforto conseguente ad una perdita amorosa. In stazione, fra un treno che giunge ed uno che riparte, valigia alla mano, sta la fine di un amore a fil di binario.
I followed her to the station, with a suitcase in my hand
And I followed her to the station, with a suitcase in my hand
Well, it’s hard to tell, it’s hard to tell, when all your love’s in vain
All my love’s in vain…
Lo stesso Clapton, uno fra i tanti interpreti dell’omonimo brano, ne ha omaggiato la memoria estrapolandone una frase ed inserendola in una delle sue canzoni più appassionate, Layla, perla dell’album Me And Mr. Johnson del 2004.
…please don’t say we’ll never find a way,
and tell me all my love’s in vain…
She’s the beauty of the southlands listen to that whistle scream
It’s that Pan American on her way to New Or-leans.
She leaves Cincinnati headin’ down that Dixie line
When she passes that Nashville tower
you can hear that whistle whine
Stick your head out the window and feel that southern breeze
Uno spiccato sentire racchiuso fra pelle ed ossa che né l’atrocità del dolore fisico, né le cicatrici emozionali, cause prime di atteggiamenti spesso burrascosi, hanno saputo imprigionare o spegnere, rendendone musicalmente immortale l’accorata genuinità e l’innata delicatezza, spesso incompresi e stropicciati nel profondo dal mondo e da lui stesso, in perenne e sofferente annaspare sui baratri della vita, fra comprensibile avvilimento e rincuorante euforia miscelati in allegorico timbro cantorio.
Il ruggito della locomotiva
Dall’armonica alla chitarra, dalla campagna alla città. McKinley Morganfield, detto Muddy Waters, il padre del blues elettrico, innamorato della terra in amor d’acqua con la sua fanghiglia, plettro nelle dita e variabilità di suoni in corda vocale a perfetta intonazione, da far rabbrividire ogni senso, trovò nello sguazzo tra fango sulle rive del Mississippi il prediletto divertimento d’infante. In cerca di fortuna a Chicago, fu nella più grande città dell’Illinois che il suo innovativo blues urbano, dal sound estremamente amplificato, in ritmico congiungere fra Delta Blues e Rock’n’Roll, cadrà a pioggia dai palchi ed influenzerà generi e musicisti ad ampio raggio, rendendolo precursore di stili che le maggiori band degli anni sessanta avrebbero assorbito e filtrato. Dal primo tocco di chitarra, una Stella acustica acquistata per due dollari e mezzo all’età di a diciassette anni, ha illuminato da leggende del calibro di Son House e Robert Johnson, lo zelante ingegnere del suono, dal falsetto al gutturale, decorò mezzo secolo di musica a massicci colpi di chitarra elettrica con tal competenza, da giungere ad intersecare ed ispirare, a seguito del tour britannico nel 1958, il British Blues, bacino musicale ad impatto formativo sulle future rock bands inglesi. È in Southbound Train, 1955, che l’attesa in stazione è occasione di pensiero sulla vita e sull’amore, in riflessione al viaggio che fa di sentimenti binario, ove l’attendere concretizza immagini fra ricordi, gesti d’amore ed inquietudini.Standin’ at the station,
Lord,
I was just waitin’ for a train
Fu nel marzo del 1958 che, in due minuti e quaranta secondi di rock and roll, prese vita la figura di Johnny B. Goode, ragazzo di campagna in triste condizion di povertà, il cui alfabetismo non fu però d’intralcio all’arte di chitarrista lui propria, che riuscirà a portar alla fama lavorando duramente sulle ferrovie. Ne cantò la sfumatura del tipico sogno americano, in chiave parzialmente autobiografica, Charles Edward Anderson ‘Chuck’ Berry, animo tormentato di soave cantautore, poetico compositore nonché maestrale chitarrista statunitense, donandone sequel in Bye Bye Johnny, i cui sogni d’Amore del ragazzo s’affidano a suon d’accordi ai binari, nella speranza di dimoravi accanto per poter udirne il ferreo attrito di locomotive in transito, al cui ruggente fischio dedicar allegro saluto di coppia sulla soglia della cucina.Elizabeth Cotten, in una parola: grazia.
Nike Seeger
Johnny wrote and told ‘er he had fell in love
As soon as he was married he would bring her back
And build a mansion for ‘em by the railroad track
So every time they heard the locomotive roar
They’d be a’ standin’, a’ wavin’ in the kitchen door
Nel 1960, Johnny B. Goode verrà ripresa in riff di chitarra d’apertura, similarità di melodia e d’accordi, nel brano Let It Rock, susseguirsi di strofe che materializzano ai sensi la percezione del calor d’acciaio, l’affaticamento e le difficoltà dei lavoratori impiegati e piegati sulle ferrovie. È in quel petto il cui cuore pulsò a primo battito fra Mississippi e Missouri, che Chuck seppe unire in musica pillole di vita, lavoro, denaro, divertimento ed amore, sfiatandola in elegia ed eccessi, fra cadute e risalite, delusioni e successi, ma mai limitandosi nel porre accento sull’umana condizion dell’uomo le cui fatiche, musicalmente raccontate, da buon padre del rock, in nervosa vocalizzazione, ne han plasmato voce e gestualità, in profondità di sentimento, facilità di sorriso e ritmato Dick Wall a fil di pentagramma.
Errante anima cantrice fin dall’infanzia, il piccolo mondo dell’introverso John Ray ‘Johnny’ Cash vien segnato a bordo sfera, dalle fatiche dei suoi piccoli passi, già al sesto anno di vita, quando le sue minuscole orme premevano il terreno nell’aiuto ai genitori piegati sui campi. Raddoppiata la sestina d’età, infame tragedia oscurò il suo cuore, perendo l’amato fratello maggiore in un incidente con la motosega, morte del quale il padre, in preda a cieca disperazione, lo incolpò sputandone sottopelle il peggior rifiuto, ossia l’aver preferito che a dipartir precocemente fosse stato lo stesso Johnny, meschina affermazione che s’abbatté sull’innocente ragazzino falciandone il vissuto. Così come la Grande Depressione aveva abbattuto il prezzo del cotone, egli si trovò annientato nell’emotività primaria, riuscendo ad ovattarne lo scorticante graffio paterno nel dedicarsi a musica e scrittura, in una sorta di bambagia protettrice che ne avrebbe attutito, mai cancellato, il terrifico sfregio. Chitarra e note, prevalentemente country, ma non solo, unite in futuro ad anfetamine e barbiturici, ne accompagneranno la variegata carriera artistica, musicalmente leggendaria, in montagna russa fra demoni divoranti e saltuaria euforia di persona dalla bontà suprema rivolta al prossimo, in ulteriore sfumatura filantropica nel sostener con tutto se stesso i diritti dei nativi americani.Se tu volessi dare un altro nome al rock and roll, lo potresti chiamare Chuck Berry.
John Lennon
Al perenne viaggio interiore nelle dannazioni del proprio ego, marchiato a fuoco nel canto a bordo piantagione come il demone cantore Robert Johnson, Cash dimostrò cristiana amorevolezza ed empatica compassione, mai pietosa, nei confronti dei diseredati, degli esclusi, degli ultimi, degli obliati, degli incompresi, vestendo abito nero, in simbolico lutto per la condizione di taluni umani in quotidian martirio.
Indosso il nero per i poveri e gli oppressi,
che vivono nel lato disperato ed affamato della città.
Lo indosso per il detenuto cha ha a lungo pagato per il suo crimine,
ma è lì, perché è una vittima dei tempi
(Man in Black, 1971, Johnny Cash)
Caritatevole accento sul microcosmo americano che diviene nota poetica, in probabile riferimento al mito di Hank Williams, nell’album Ride This Train, 1960, immaginario viaggio a bordo locomotiva in cui porre al centro della storia le tragiche vicende umane dell’uomo comune, dell’instancabile lavoratore, or minatore, or boscaiolo, or genitore, in umile concomitanza di vissuti nell’America del dopoguerra. Un cantar dignità che seppe di preziosa purezza, amabile indole d’un ego strapazzato, ma non appassito, lo stesso che l’ardente Amore di Valerie June Carter, cantautrice ed attrice statunitense, accudì ed elevò a passione intensa. S’amarono in un soffio, scambiandosi corpo e sentimento per trentacinque anni, balzando giù dal mondo a quattro mesi di distanza. Seppero trarre l’un dall’altra il meglio di sé.
Buon compleanno principessa,
andiamo incontro alla vecchiaia e lo facciamo insieme.
Noi pensiamo allo stesso modo.
Leggiamo le nostre menti.
Sappiamo ciò che l’altro vuole senza chiedere
Dallo spiritual train della Tharpe al country train di Cash, passando per centinaia di canzoni a bordo ferrovia che infiammarono le prime sei decadi del Novecento in terra americana, ritmando a suon di differenti generi musicali così affascinanti, travolgenti, esplosivi, concreti ed appassionati nel loro condursi a nota or tragica, or vitale, or cupa, or amorosa, or sarcastica ed incalzando su menti e convinzioni dell’epoca a ridosso della ‘music revolution’, che di lì a poco meno d’un decennio avrebbe ribaltato ogni certezza in virtù della libertà.
Treni saturi di sogni, illusioni, chimere, vagoni trainanti forzati adii o frenesie d’imminenti baci, locomotive lunghe una nazione, una vita, un mondo.
Carrozze nostalgiche che menti in solitudine e lontananza desiarono come ritorno verso casa, quasi che la vita fosse il rintanarsi in un serale viaggio verso l’atteso rincasare, dopo una dura giornata di lavoro.
It’s been a hard day’s night, cantavano i Beatles…
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