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Thelonious Monk, il «Sommo Sacerdote» del Jazz

Thelonious Monk

 
Come sarebbe stato possibile anche soltanto immaginare, per Thelonious Monk, che inaspettata tempesta emotiva avrebbe smosso cuor di Pannonica de Koenigswarter a ritmo di Jazz, sulle quali note, in lei tonanti, vi(b)rarono palpiti verso l’animo con cui sentimento — deflagratole vulcanico nel petto — si sarebbe ordito indissolubilmente?

Nulla predisse.
In alcun modo n’ebbe previa percezione.
Eppur tutto meravigliosamente accadde.
Venne udito.
Pervase.
Innamorò.
E si rivisse, funambolo sul proprio destino.
 

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Thelonious Monk

 
«Una nota può essere piccola come uno spillo o grande come tutto il mondo, dipende dalla tua immaginazione», affermava Thelonious Monk, compositore e pianista di rivoluzionaria inventiva, giocoliere, squisitamente libero, d’accordi in ardito equilibrio tra ideazione e sentore, la cui orma improntata nel panorama musicale, senza probabilità alcuna di calco.

Preceduto di quasi due anni dalla sorella Marion Barbara (1916-1996/8), il futuro genio creativo venne alla luce il 10 ottobre 1917 a Rocky Mount, North Carolina, frutto dell’unione, suggellata a matrimonio il 20 agosto 1914, tra Thelonious Monk (1889-1963) — dal quale distinzione sancì dono di secondo nome Sphere, in omaggio al nonno materno, seppure sconosciuto ai registri anagrafici ufficiali — e Barbara Batts (1892/3-1953), la coppia rivivendo esperienza genitoriale alla nascita di Thomas William (1920-1990) e nel 1922 l’intera famiglia trasferendosi a Manhattan, precisamente al 243 West 63rd Street, una delle sette vie parallele — comprese fra la cinquantanovesima e la sessantacinquesima strada — appartenenti San Juan Hill, sobborgo, a sud-ovest di Harlem, la cui denominazione riferibile all’essere abitato da numerosi veterani afroamericani che nel 1898 avevano partecipato alla tal battezzata battaglia, combattuta nel contesto del conflitto ispano-americano.
 

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San Juan Hill, New York, 1924

 
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San Juan Hill, New York, 1924

 
A pochi anni di distanza, il capofamiglia abbandonò focolare domestico, affibbiando alla consorte l’onere e l’onore d’occuparsi della prole, “incarico” dalla donna espletato calandosi in toto nel ruolo d’onesta anima incline all’accogliere senza filtri le personalità in divenire dei figli, percependone propensioni, parallelamente lavorando e nei ritagli di tempo al netto dell’impiego professionale, facendosi rassicurante mano da tendere loro nell’avveduta mira, ben lontana dall’egoistico plasmarli a piacimento, d’amorevolmente accompagnarne passi verso tragitti esistenziali, da percorrere in aggancio a personali attitudini e benché notizie concernenti l’infanzia di Thelonious Monk non siano copiose, spesso incongruenti e scarsità rimanendo tale in concausa all’innata introversione dall’uomo analogamente mantenuta in età adulta, certo è che sprone della madre gli fu essenziale all’esprimere inclinazioni e caparbiamente inseguirle, una su tutte la musica, difatti il bimbo transitoriamente cimentandosi nella tromba — richiesta poiché fortemente ispirato dal leggendario cantante e trombettista Louis Daniel Armstrong (1901-1971) — e suonando l’organo in Chiesa dopo aver imparato da lei, cristiana evangelista, degli inni religiosi; percependo quanto il fanciullo ritrovasse appieno se stesso fra tasti di pianoforte e ne fosse calamitato anche meramente ammirando la sorella Marion esercitarsi e mostrandosi oltretutto in grado di riprodurre quanto udito, senza necessità di consultare spartiti, Barbara Batts decise, faticosamente guadagnando cifra necessaria, d’affidarne connaturata indole ad un docente, individuato nel pianista — oltre che primo violino della New York Philharmonic, Simon Wolf — col quale il ragazzo studiò all’incirca dagli undici ai tredici anni e con sbalorditiva velocità apprendendo opere di Ludwig van Beethoven (1770-1827), Sergej Vasil’evič Rachmaninov (1873-1943), Fryderyk Franciszek Chopin (1810-1849), Johann Sebastian Bach (1685-1750), Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), Franz Liszt (1811-1886), ma quando ardore Jazz si fece prepotentemente incontenibile, a Wolf — conscio fin dal primo incontro del talento istintivo dell’allievo — dovette in tutta franchezza riconoscere di non poter andare oltre i confini del pianismo classico, pertanto collaborazione giungendo a pacioso e condiviso capolinea, all’allievo restando a viva memoria il nutrito bagaglio del prezioso sapere acquisito, includente stima apertamente palesatagli dal precettore e da lui accolta in totale consapevolezza.

Non credo che ci sia nulla che io possa insegnargli.
Presto andrà oltre il mio stesso sapere.
Simon Wolf

 

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Thelonious Monk

 
Jazz riecheggiava ovunque, sotto i cieli di Juan Hill, fra amici essendo usuale riunirsi a casa dell’un o dell’altro e saggiarsi in piccoli gruppi di sognanti musici ed era fin troppo semplice il lasciarsene permeare e sedurre, sebben ad ulteriormente influire su Thelonious Monk, sia stata la vicina di casa Alberta Simmons — classe 1982, intrepida suonatrice di Ragtime e Stride, esibitasi esclusivamente in malfamate osterie di paese o limitrofe, nel premuroso intento di sbarcar lunario per mantenere figliolanza — la qual, in qualità d’insegnante, gli propose brani di James Price Johnson (1894-1955), Thomas ‘Fast’ Waller (1904-1943) e James Hubert ‘Eubie’ Blake (1883-1983), egli in seguito approfondendo via radio la scoperta d’altri jazzisti, fra cui Earl Hines (1903-1983), ed a sedici anni formando una piccola band, eseguendo concerti sia a scuola che in alcuni ristoranti; a livello istruttivo, pur mantenendo encomiabili profitti in matematica, fisica ed atletica, alla prestigiosa Stuyvesant High School, non concluse secondo grado d’istruzione, dacché amareggiato dal non avere accesso, per verosimili componenti discriminatorie, ai corsi musicali ed indi — nell’incaponito obiettivo di tentar carriera pianistica — ne interruppe frequenza a diciassette anni e per un biennio, tra 1935 e il 1937, partì in tournée con un predicatore evangelista itinerante.

In tappa a Kansas City, ai tempi pullulante di ambienti Jazz e relative jam sessions, Thelonious Monk ebbe l’occasione, compiacendoli nel profondo, d’essere ascoltato da William Allen ‘Count’ Basie (1904-1984) — fondatore della Count Basie Orchestra — e dalla pianista, arrangiatrice, compositrice Mary ‘Lou Williams’ Elfrieda Scruggs (1910-1981), ambedue riconoscendogli distintivo estro e caldeggiandone aspirazioni, incitamenti di cui fare tesoro, dati i ripetuti rigetti che la di lui specificità stilistica avrebbe non di rado suscitato, in quanto al di fuori di tradizionali canoni ed innovatrice al punto dal non essere senza indugio accessibile.
 

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Count Basie Orchestra

 
Crescendo ad una manciata di miglia da Harlem — presso il cui Apollo Theater vincerà quasi sempre il concorso amatoriale istituito settimanalmente — Monk aveva avuto modo di confluire interessi e speranze in quello che dagli anni Venti era divenuto luogo di riferimento afroamericano per antonomasia e centro nevralgico del concernente movimento artistico-culturale, dal pulsante quartiere poi diramatosi nei centri urbani nazionali; fra i cambiamenti in corso, la musica, da sempre trasversale staffetta di messaggi sociali, non fu ovviamente esente da metamorfosi: nel periodo della Jazz Age, all’incirca compreso tra il 1920 e il 1930, il genere raggiunse apice di fama mondiale e negli Stati Uniti — ove mantenne peculiare risonanza, divenendo sobillante eco sul pensiero borghese, in contrasto alla segregazione razziale — fuoriuscì dai contesti di nicchia, virando a culto popolare, per primario merito di Louis Armstrong, protagonista assoluto dell’epoca, il cui pensiero avrebbe germinato consonante e risoluto prosieguo in personalità del calibro di Francis Albert ‘Frank’ Sinatra (1915-1998), Eleonora Fargan ‘Billie Holiday’ (1915-1959), Ella Jane Fitzgerald (1917-1996), Nathaniel Adams Coles ‘Nat King Coles’ (1919-1965), Miles Dewey Davis III (1926-1991) ed altri.
 
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Louis Armstrong

 
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Frank Sinatra e Nat King Cole

 
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Billie Holiday

 
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Ella Fitzgerald

 
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Miles Davis

 
In Harlem, l’intraprendente giovane pose piede nella decade seguente, ovvero ad apogeo di gloria dello Swing — il cui significato letterale, «oscillazione» — evolutosi dal Jazz con differente sezione ritmica ed esecuzione delle note appunto maggiormente fluttuante, ragion per la qual si diffuse ad ampio raggio nelle sale da ballo fra le cui tonanti mura, negli anni successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale, la gente potè finalmente concedersi momenti di maggior serenità, cedendo ad agognato e sacrosanto divertimento, allegramente sfiatato saltellando sulle melodie proposte dall’allora in voga Big Bands, nella Grande mela ancora prevalentemente composte da musicisti non afroamericani, fra i quali spiccava Benjamin ‘Benny’ David Goodman (1909-1986), ritenuto il capostipite del sottogenere.

Erano contemporaneamente gli anni in cui, vigendo il Proibizionismo, brulicavano i cosiddetti Speakeasy, esercizi commerciali clandestini a vendita di bevande alcoliche, privi di qualsivoglia interdizione nei confronti di suonatori o clienti della comunità nera e nei quali lo Swing imperversava, fervidamente vivacizzato da irrefrenabile pubblico danzante, perlomeno fino a quando, con emendamento del 5 dicembre 1933, il divieto non venne meno e ciò di conseguenza ampliando i bacini d’ascolto a più locali; di lì a poco, storica svolta sarebbe inoltre avvenuta per mezzo di Benny Goodman: nel 1934, il clarinettista aveva infatti stipulato contratto con un programma radiofonico ed assunto Fletcher Hamilton Henderson Jr. (1897-1952) in virtù d’arrangiatore e dopo un quinquennio come pianista, per la prima volta, riunendo differenti etnie nella stessa orchestra.

Tuttavia, al termine d’un decennio già messo a dura prova dai devastanti strascichi della Grande depressione del 1929, il sovrapporsi della radio nella divulgazione del Jazz — antecedentemente diffuso in prerogativa tramite dischi — e la Seconda Guerra Mondiale alle porte, caleranno sulle gradatamente sipario sulle Big Bands, causa gli alti costi da sostenere ed il crescente tendere al risparmio delle persone, allarmate dal clima poco rassicurante e dunque essenzialmente più restie a spendere denaro nell’intrattenimento; in siffatta situazione — più avanti intricata dal celebre sciopero dei musicisti contro le case discografiche, promosso dal leader sindacale James Caesar Petrillo (1892-1984) e protrattosi dal 1º agosto 1942 all’11 novembre 1944 — il prediligere piccoli club, nei quali esternare pura dote fra naturalezza e strumento, sottraendosi ai vincolanti condizionamenti del circolo commerciale, fu quasi scontato.
 

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Down Beat, Sciopero Musicisti, 1942

 
Dallo Swing, cominciò a svilupparsi una tipologia di Jazz dissonante, meno melodica, con generosi spazi d’improvvisazione e tempi velocissimi, impossibili da ballare: il Bebop era agli albori ed a rappresentare per eccellenza passaggio fra i due sottogeneri, fu la versione del 1939 del sassofonista Coleman Randolph Hawkins (1904-1969) — che pur conservandone la struttura basilare, ne fece esecuzione avanguardista — di Body and soul, standard fra i più interpretati, originariamente scritto nel 1930 per l’attrice e cantante britannica Gertrud Alexandra Dagmar Klasen, nom de plume, Gertrude Lawrence (1898-1952), dai parolieri Robert Sour (1905-1985), Edward Heyman (1907-1981), Frank Eyton (1894-1962), su composizione di Johnny Green (1908-1989), in medesima annata portato alla ribalta da Louis Armstrong e nel 1938 da Benny Goodman omaggiato in acclamata performance dal rinomato palco della Carnegie Hall.
 

Coleman Hawkins, Body and Soul, 1939

 
Nel turbinio dei frangenti storici ed al fin di coniugare passione a ritorno economico, inizialmente Thelonious Monk si destreggiò al pari di parecchi pianisti degli “anni ruggenti” che prima di lui avevano aderito a quella ch’era definita House Rent Party, vale a dire l’organizzazione di eventi casalinghi da parte di afroamericani in estrema difficoltà — gli affitti da corrispondere erano alquanto elevati, malgrado il sovraffollamento degli appartamenti in questione — che proponevano intrattenimenti musicali, radunando il vicinato ed a fine spettacolo raccogliendo in un cappello offerte destinate a pagare locazione e prestazione dell’artista.

Nel 1940, Monk accolse richiesta del batterista Kenneth ‘Kenny’ Clarke Spearman (1914-1985), d’essere pianista al Minton’s Playhouse, discoteca fulcro del Bebop e nodale punto d’incontro di jazzisti desiosi d’estraniarsi dal mainstream Swing e frequentazione dei quali fu per Monk arricchente stimolo al proseguire verso bramati orizzonti, dai cui nemmeno chiamata alla leva del marzo 1943 riuscì a distogliere sguardo, visto il non superamento della visita medica per problematiche mentali, reputate inconciliabili all’arruolamento.

In primis incoraggiato da Hawkins nel tenere fede a se stesso nonostante l’impervia salita del dover brancolare fra aspre ed assidue critiche di coloro che non ne afferrarono nell’immediato la rara e straordinaria genialità, Thelonious Monk marciò impassibile verso la vetta, nel 1944 incidendo un capolavoro, siglato al titolo ’Round Midnight e caratterizzato da singolare stile, nell’avvenire influenzante più generazioni.

Adoravo il brano di Monk, ’Round Midnight e desideravo riuscire a interpretarlo.
Quindi ogni notte, dopo averlo suonato, andavo da Monk e gli chiedevo: «Come l’ho eseguito stasera?».
E lui, con tono grave: «Male». Andai rivolgendogli domanda per non so quante sere e, scorgendone espressione sempre più esasperata, quasi perfida, ogni volta ottenendo medesima risposta, finché una notte: «Sì, così dev’essere suonata». Udire simili parole mi rese il più felice dei bastardi, più felice di un maiale nel letame. Avevo trovato il tocco per suonare una delle composizioni maggiormente complicate.
Miles Davis

 

The Miles Davis Quintet – Round Midnight, Live in Svezia, 1967

 
Continua… 
 

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Thelonious Monk

 
 
 
 

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