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Quando l’amore uccide: La storia di Lee Morgan

 
 
Era una notte gelida del 1967, quando Lee Morgan entrò per la prima volta in casa di Helen Moore, per chi frequentava i circoli jazz quell’appartamento era ‘Helen’s Place’, un vero e proprio rifugio per musicisti in difficoltà, compresi quelli tossicodipendenti. Non girava droga, solo un po’ di comprensione e pasti caldi a fine serata.
 
Lee Morgan era già considerato fra i migliori trombettisti di tutti i tempi, solo quattro anni prima aveva pubblicato ‘The Sidewinder’, uno degli album jazz di maggior successo, ma quella sera, nonostante la temperatura si presentò con indosso solo la giacca, neppure la tromba aveva con sé, insieme al cappotto era rimasta al banco dei pegni per qualche dollaro, l’eroina lo stava consumando da tempo, ma Helen, arrivata a Manhattan dal North Carolina, non appena lo vide sentì battere il suo cuore e gli salvò la vita.
 

Dall’infanzia alle jam session

Lee Morgan nacque a Philadelphia il 10 luglio del 1938, era il più piccolo dei quattro figli di Nettie Beatrice e Otto Ricardo, una famiglia in cui la chiesa riveste un ruolo centrale, sia il padre che la sorella maggiore Ernestine, una seconda madre per Bobby, Jimmy e Lee, sono particolarmente attivi, l’uomo ricopriva persino la prestigiosa posizione di Presidente del Consiglio battista Pentecostale dei diaconi ed inoltre, seguiva e si faceva partecipe della vita politica e sociale, in un momento storico oltremodo importante per i neri americani.

La musica era passione comune tra i fratelli, Bobby divorava dischi bebop, mentre Ernestine cantava, sapeva suonare organo e pianoforte e sono loro due, allo scoccare del tredicesimo compleanno, a regalare a Lee una tromba tutta sua. Il ragazzo aveva già mostrato interesse per il vibraharp, strumento a percussione il cui sviluppo si deve all’ingegnere della J.C. Deagan, Henry Schluter, ma date le condizioni economiche, una spesa del genere non era da prendere neanche in considerazione.

Morgan comincia così a prendere le prime lezioni, trascorre il tempo chiuso in camera ad esercitarsi, ad ascoltare dischi jazz, compone i suoi primi assoli, i genitori lo incoraggiano, la musica era un buon modo per tener il figlio lontano dai guai, oltre ad essere da sempre una strada per uscire dal ghetto, senza contare che nella comunità, il musicista godeva del rispetto anche da parte di quei personaggi tutt’altro che raccomandabili.

A quindici anni, s’iscrive alla Jules Mastbaum Area Vocational High School e durante il primo anno, entra a far parte dell’orchestra, ma il repertorio bandistico è quanto di più lontano dai suoi gusti, amava il jazz e così, l’esperienza fu di breve durata, ma di lì a poco, avrebbe avuto modo di conoscere l’allora ventitreenne Clifford Brown, trombettista e pioniere dell’Hard Bop, che riuscì ad entrare nell’Olimpo del jazz, nonostante la vita gli concesse solo pochi anni per mostrare le proprie capacità. L’incontro avvenne infatti nel 1954 e solo due anni più tardi, la notte del 26 giugno del ’56, Brown, morì insieme al pianista Richie Powell e sua moglie Nancy in un incidente stradale sulla Pennsylvania Turnpike. A causa della pioggia, la donna, alla guida del veicolo ne perse improvvisamente il controllo e i tre precipitarono in una scarpata.

In quegli anni il jazz sfornava divinità come neanche la mitologia greca e romana avevano fatto e in giro trovavi John TraneColtrane, Miles Davis, ‘Philly JoeJones, Chet Baker, Charlie Parker, Dizzy Gilliespie con la sua Big Band, c’era il Paradiso in Terra e Clifford Brown era uno di loro, perciò il tempo trascorso con lui era un sogno per Morgan, fin ad allora lo aveva conosciuto attraverso i dischi, ne aveva trascritto gli assoli come faceva con tutti gli altri, mentre adesso poteva confrontarsi con lui, ascoltarlo dal vivo e assorbirne i concetti.

Inizia così ad esibirsi nei locali, sfida musicisti durante jam session e proprio in una di queste, all’interno del negozio di strumenti musicali Music City, si trova davanti il leggendario Sonny Stitt, sassofonista contralto e tenore di passaggio a Philadelphia. Aveva sentito ben parlare di Lee Morgan, così gli chiese se voleva suonare qualcosa.
“E’ per questo che sono qui”, rispose.
Fu invitato quindi a scegliere il pezzo, ma l’insolenza dell’età riprese parola e ribatté per lui: “Qualunque cosa tu voglia”.

Sonny Stitt prese a suonare ‘Cherokee’, un brano di Ray Noble pubblicato nel 1938 e conosciuto anche come ‘Indian Love Song’. Negli anni è stato registrato anche da Duke Ellington, Count Basie, SarahDivinaVaughan e molti altri, ma il sassofonista bostoniano lo eseguì più veloce e in chiave differente dall’originale, rendendolo decisamente più complesso.

Lee Morgan impallidì e se ne andò. Per due o tre mesi nessuno ebbe più sue notizie, quando però tornò a farsi veder per i locali, sapeva suonare ‘Cherokee’ esattamente come l’aveva sentita fare da Stitt.
 

Gli album per la Blue Note

Nell’ambiente il suo nome era ormai ben conosciuto, benché avesse appena 17 anni, tanto che gli arrivò un offerta d’ingaggio niente meno che da Art Blakey, già batterista nell’orchestra del cantante Billy Eckstine, nella quale militava il gotha del be pop. Lo voleva come membro dei Jazz Messengers, gruppo che aveva fondato nel ’55 insieme a Horace Silver. Morgan però non se la sentì di seguirli nelle turnée e si trovò costretto a rifiutare, ma appena un anno dopo, a chiamarlo è Dizzy Gilliespie e questa volta decide d’immergersi nell’avventura.

Nell’arco di pochi giorni proposte di collaborazione arrivano a pioggia e grazie al sassofonista della band di Gilliespie, Lee Morgan entra in contatto con Alfred Lion, produttore della storica Blue Note Records.

Registrato a novembre del ’56, con alla batteria Philly Joe Jones, Wilbour Ware al basso, Horace Silver al piano e Clarence Sharpe al sassofono contralto, i primi di marzo del 1957, Morgan debutta con l’album ‘Lee Morgan Indeed!’.

Nonostante il genio esca fuori con prepotenza i brani del disco lo mostrano acerbo, forse solo insicuro, fatto sta che in poco più di un anno, otto furono in totale gli album pubblicati: ‘Introducing Lee Morgan’, ‘Lee Morgan Sextet’, ‘Dizzy Atmosphere’, ‘Lee Morgan Vol. 3’, ‘City Light’, ‘The Cooker’ e ‘Candy’.

Alla fine del ’57 Gilliespie si vide costretto a sciogliere la band, evento che non ebbe ripercussioni sulla carriera di un Lee Morgan che ben presto sarebbe stato salutato come uno dei più grandi trombettisti, con 25 dischi consegnati alla storia e centinaia di collaborazioni.
 

La musica e l’eroina

Quello stesso anno infatti, collabora con John Coltrane, pochi mesi dopo la Blue Note lo blinda con un contratto ed al contempo entra a far parte di quei Jazz Messengers di Art Blakey, una promessa di popolarità e consacrazione da un lato, una maledizione dall’altro.

Oltre alla vicinanza di grandi musicisti, Morgan aveva adesso la possibilità di far suoi i preziosi insegnamenti che Blakey era in grado di offrire, come l’arte della performance dal vivo, in-trattenere il pubblico, in questo il leader del gruppo era maestro, ma lo era anche nel farsi di eroina, droga che all’epoca dilagava negli ambienti jazz e non mancava certo di girare anche tra i Messengers.

Storia vuole che Blakey tenesse per sé gli incassi e pagasse i giovani con l’eroina, per poi abbandonarli a se stessi nel momento in cui questa avesse preso il sopravvento.

La vita di Lee Morgan, sarà inesorabilmente segnata da quell’esperienza ed ugualmente la carriera, perché se è vero che ebbe modo di affinare ulteriormente la tecnica, far comparire il proprio nome in decine di album e registrarne altrettanti, la droga lo divora lentamente, tanto che nel 1963, si fece ricoverare all’ospedale di Lexington, nel Kentucky, struttura al tempo particolarmente in voga tra i personaggi famosi.

L’assenza dalle scene fu giustificata facendo circolare voci secondo le quali il trombettista si era arruolato nell’esercito e giunto l’inverno, Morgan era nuovamente pronto a suonare e registrare.

La clinica però non lo aveva affatto disintossicato, gli aveva semplicemente mostrato come poteva gestirsi, non era molto, ma quanto bastò per permettergli di registrare quel capolavoro di ‘The Sidewider’.
Il jazz stava vivendo un momento di declino, l’attenzione del pubblico cominciava ad essere attratta dalle nuove icone del rock, per cui la stessa Blue Note si convinse a stamparne solo 4000 copie, ma nonostante tutto, queste andarono esaurite in pochi giorni e nel gennaio del ’65, l’album aveva raggiunto la 25° posizione nella classifica di Billboard. La traccia che da nome al disco, finì per essere utilizzata in spettacoli televisivi, persino la Chrysler la volle come tema per le sue pubblicità.

Solo con quell’album il trombettista guadagnò 15mila dollari, ma alla fine del ’67, di quel denaro non era rimasto nulla, volatilizzato. Lee Morgan era l’ombra di stesso, dormiva ovunque gli capitasse, panchine, marciapiedi, sale da biliardo, per sopravvivere e procurarsi una dose commetteva piccoli furti, finché non trovò riparo a casa di Helen Moore.
 

Helen Moore entra nella vita di Lee Morgan

Poco si sa della sua vita prima di quel giorno, persino il cognome non è certo, alcune fonti si riferiscono a lei come Moore, per altre è More. Nata nel 1926 a Brunswick County, a quattordici anni era già madre di due bambini, ma li abbandonò per seguire la madre a Wilmington, città del North Carolina, dove s’innamorò di un tipo che faceva il contrabbandiere e più che di lui, s’innamorò dei soldi che questi riusciva a fare, particolare che le permise di sorvolare anche sulla differenza di età, era più giovane di 22 anni, e i due si sposarono.
Il matrimonio però durò appena un paio d’anni, secondo la versione ufficiale l’uomo morì annegato, ma i dubbi su quanto gli accadde, sono tutt’altro che svaniti.

Trasferitasi a New York, subì il fascino del jazz, s’interessò alle tematiche proposte dai musicisti e in poco tempo si guadagnò il loro rispetto.

Quando Morgan la conobbe, era già sposato con la ballerina e modella Kiko Yamamoto, ma cedette immediatamente alle attenzioni di Helen e dopo appena un anno da quell’incontro, la coppia cominciò a presentarsi come moglie e marito, erano i Morgan, benché non convolarono mai a nozze. Qualcuno dirà che la donna prese il controllo totale della vita del musicista, gli amici la consideravano piuttosto una benedizione.

Insieme si trasferirono nel Bronx e da quel momento i musicisti continuarono ad essere i benvenuti, mentre i tossicodipendenti non avranno più asilo, né un posto a tavola. Helen, cominciò a prendersi cura di lui, fece sì che Lee intraprendesse un programma di riabilitazione a base di metadone; era compagna, madre, manager, vigilava su di lui costantemente, non perse un solo concerto e per quanto non poté eliminare completamente l’eroina dalla vita di Morgan, riuscì quantomeno a fargli diminuire le dosi e già questo, si rivelò positivo.

Il musicista costituisce infatti una nuova band, con la quale si esibisce nei locali di New York, Baltimora, Chicago, Detroit, s’interessa dei diritti civili, abbraccia la filosofia di Malcom X e s’ impegna politicamente come mai aveva fatto prima.

Un cambiamento che si riflette anche nella musica, adesso più dolce, contemplativa, Lee Morgan non è fuori dal mondo della droga, continua ad assumere metadone e all’eroina, che si fa sempre più scarsa per le vie della Grande Mela, sostituisce la cocaina, comunque sia è meno inquieto, porta la sua conoscenza nelle scuole, insegna.

Al contempo, cominciava ad allontanarsi da Helen e più si allontanava e più l’abbraccio di lei si faceva una morsa. Morgan incontra altre donne, s’intrattiene con loro dopo le serate e tutto davanti agli occhi della compagna. Inevitabilmente si sente umiliata, nascono i primi litigi, cominciarono ad avere discussioni e sfuriate anche in presenza di amici e niente sembrava ormai poter riportare il rapporto sulla giusta strada.

Helen smise di andare ai concerti, era ormai a conoscenza delle relazioni con altre donne, la disperazione si tramutò in un tentato suicidio e da allora, prese l’abitudine di girare con una pistola infilata nella borsa.

La sera del 19 febbraio del 1967, Morgan era diretto allo Slug’s Saloon, un jazz club di Manhattan, quando a causa del ghiaccio perse il controllo dell’auto andando a schiantarsi sul marciapiede. Prese la sua tromba e giunse comunque al locale anche se visibilmente scosso, l’incidente gli aveva riportato alla memoria quanto accaduto anni prima all’amico e mentore Clifford Brown.

Passata la mezzanotte, durante una pausa tra un set e l’altro, Helen irruppe nel locale, Morgan le si avvicinò e presero a litigare animatamente, alla fine il musicista l’afferrò per un braccio e con forza la spinse fuori dal locale facendola cadere sulla neve. A quel punto Helen estrasse la sua calibro 32. Un colpo. Lee Morgan rimase in piedi qualche istante, poi con gli occhi spalancati cadde a terra. Le condizioni climatiche non permisero all’ambulanza di giungere in tempo e quella donna che solo pochi anni prima gli aveva salvato la vita, se l’era appena presa.

Lee Morgan morì dissanguato all’età di 33 anni.
 
 

 

 

 

 

 

 

 

A Night in Tunisia
with Art Blakey the Jazz Messengers

 

Lee Morgan on BBC
with Art Blakey and the Jazz Messengers

 
 
 
 

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