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Marian Anderson, in/canto a difesa dei diritti civili

 

Quando canto, non devono vedere che la mia faccia è nera; non devono vedere che la mia faccia è bianca. Devono vedere la mia anima. E lei non ha colore.
Marian Anderson

Impegnata voce contralto, dal direttore d’orchestra Arturo Toscanini descritta rintracciabile «una volta ogni cento anni», Marian Anderson, autrice d’un repertorio comprendente recital e concerti tenuti nel corso d’un quarantennio girovagando fra Europa e Stati Uniti d’America, sedusse platee dipingendo arie, spiritual, opere liriche, brani folk americano, lieder della tradizione tedesca, mediante appassionato, sontuoso ed avvolgente canto, altresì riservandone i poetici sospiri, alla conquista e difesa, dei diritti civili.
 

Marian Anderson: alba di una leggenda

Marian Elinda-Blanc Anderson, nacque a Philadelphia il 27 febbraio 1897, dall’unione di John Berkley (1875-1910), commerciante di ghiaccio, carbone, nonché proprietario d’una vendita di liquori, e Annie Delilah Rucker (1869-1964), devota metodista e maestra elementare, impiego mantenuto finché dalla natia Lynchburg, Virginia, scambiando promesse all’altare e stabilendosi in Pennsylvania, fu costretta a reinventarsi bambinaia, sul territorio vigendo legge interdicente alla professione, insegnanti di colore che non avessero completato il percorso di studi ed ella, aveva mancato di completare formazione iniziata all’allora Virginia Theological Seminary and College.

Indole musicale affiorò precocemente ed appena compiuti 6 anni, Marian — auspice l’osservata fede dei genitori, nel frattempo beata dall’arrivo di Alyse (1899-1965) ed Ethel May (1902-1990) — fu accolta nel Junior Choir della Union Baptist Church situata in South Philadelphia, comunità frequentata dal padre, egli soventemente servendo durante le funzioni domenicali, e dove già cantava la di lui sorella Mary, la quale, più d’ogni altro consapevole delle capacità della nipote, oltre ad esortarla a duettare, senza titubare cominciò ad accompagnarla in altre limitrofe chiese, affinché coltivasse virtù ascoltandone i cori e naturalmente, partecipando — anche durante eventi di beneficenza — ed esperienza, presto iniziò a divenire gratificante persino a livello pecuniario, saltuariamente difatti ricevendo somme di denaro, seppur modeste, utili all’economia familiare, come spesso accadeva recandosi, sempre guidata dalla zia, alla Young Women’s Christian Association (YWCA), sodalizio cristiano ecumenico a supporto delle giovanili attività — la cui organizzazione e sostentamento su contributo e impegno dei volontari aderenti — fondata a Londra, il 6 giugno 1844, dal pedagogo britannico George Williams (1821-1905) allorquando l’uomo, fortemente sconcertato dalle terrificanti condizioni lavorative nelle quali versavano i giovani lavoratori in territorio londinese, decise di raggruppare una schiera di colleghi allo scopo di costituire un’organizzazione per sovvenire alle disumane situazioni constatate nel tentativo di salvaguardare la gioventù da forme di devianza.
 

Il talento e la lotta a difesa dei diritti civili del contralto, Marian Elinda-Blanc Anderson, voce appassionata ed avvolgente, tra le più significative del XX secolo • TerzoPianeta.info • https://terzopianeta.info
Marian Anderson, 1898

 
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Anna Anderson con le figlie, da sinistra, Ethel, Marian e Alyse

 
Costantemente e premurosamente seguita dalla sorella del padre, alla prima decade di vita Marian già collezionava esibizioni nelle chiese locali sotto discreto contributo economico, in quel periodo passando sotto l’attenta direzione del soprano, editrice di riviste, scrittrice, insegnante, direttrice di coro, l’attivista politica Emma Azalia Hackley (1867-1922), afroamericana alacremente impegnatasi nell’avvicinare ed insegnare musica a gioventù di colore, fermamente convinta delle positiva e salutare influenza della stessa sull’infanzia, sotto la sua sapiente e solerte guida il fiorente talento iniziando ad avanzare in concreti passi da solista e purtroppo, nel giro d’un triennio, sperimentando le sofferenze di un doppio lutto, giacché nel 1910 perdendo il padre a seguito di problemi cardiaci e l’anno successivo fatale sorte separandola dal nonno paterno Benjamin Anderson, con il quale la bambina aveva stretto una forte intesa dopo che, alla morte di John, l’intera famiglia si era trasferita presso l’abitazione dell’avo, dove risiedeva anche la moglie, nonna Isabella.

Le tristi e precoci privazioni affettive non scalfirono determinazione della Anderson, la ormai adolescente seguitando con incrollabile costanza ad esprimersi nelle proprie attitudini e dal coro dei fanciulli entrando a far parte di quello degli adulti, in aggiunta nel 1912 terminando favorevole percorso di studi alla Stanton Grammar School di Philadelphia e — cocciutamente decisa ad inseguire i propri sogni — aggirando la precaria situazione economica familiare, non sufficiente a garantirle studi superiori e approfondita istruzione musicale, nel guadagnarsi comunque l’insegnamento dell’arte a lei prediletta collezionando esibizioni, divenendo membro di vari gruppi e in tale modo bevendo apprendimento da chiunque si rendesse disponibile a somministrarle nozioni nell’ambito, al suo destino giovando la generosa bontà del sacerdote della chiesa frequentata il quale, in collaborazione con altre guide della comunità afroamericana della zona, ne sostenne non solo le spese per lezioni personali di canto con il famoso soprano afroamericano Mary Saunders Patterson — iniziate quello stesso anno — ma l’intero tragitto di studi superiori, frattanto le sue capacità venendo ampiamente riconosciute, a tale proposito The Philadelphia Choral Society nel 1913 impegnandosi nel raccogliere una discreta somma di denaro con cui permettere a Marian di studiare con il contralto Agnes Reifsnyder e un sessennio più avanti conquistando l’intero Convegno Nazionale Battista.
 

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Marian Anderson, 1918

 
Nel mentre affinando innate predisposizioni, la Anderson tentò iscrizione alla Philadelphia Musical Academy — attualmente Univeristy of the Arts — la più antica scuola di musica della Pennsylvania e tra le più datate del Paese, inesorabilmente incassando rifiuto dettato dalle insane ideologie per cui accademia era riservata esclusivamente ad aspiranti di pelle bianca, tuttavia ancora una volta sorte le venne in soccorso esortando il dirigente dell’istituto superiore a favorirne il contatto col tenore statunitense ed insegnante di canto, Giuseppe Boghetti (1896-1941), nato a Philadelphia come Joe Bogash da genitori russo-ebrei e forgiatosi al Conservatorio di Milano, a cambio di nominativo affidando auspicio di miglior carriera che, nonostante i numerosi concerti tenuti in l’Europa, non ne alleviò tribolazioni, di conseguenza egli rientrando nella cittadina natale nel 1918 e qui, all’epoca ventitreenne, l’anno seguente divenne insegnante di Marian, con ella mantenendo saldo e sincero rapporto di fidente ed ultra ventennale amicizia, interrottasi con la precoce dipartita dell’uomo e nel tempo la Anderson, grazie a lui, alla Reifsnyder, alla Patterson, alla Hackley e a tutti coloro, a partir dalla zia Mary, che la incoraggiarono fornendole adeguati mezzi per innalzare il proprio futuro in fede a se stessa, proiettandosi fiera verso nuovi orizzonti, il primo fra i quali raggiunto nel 1925, risultando vincitrice in una gara canora sovvenzionata dalla New York Philharmonic — con le origini al 1842, la più antica orchestra sinfonica statunitense ed ancora indiscussa eccellenza planetaria — all’interno della quale come primo premio Marian ebbe la preziosa occasione d’esibirsi, ottenendo ampio favore di pubblico e critica, quindi la cantante decidendo di protrarre studi in aria newyorkese fra il notevole bagaglio musicale del vocal coach, pianista, compositore, insegnante e arrangiatore Frank La Forge (1879-1953) e la prolifica intraprendenza del manager d’artisti — in più direttore della New York Philharmonic dal 1922 al 1956, Arthur Leon Judson (1881-1975) — quest’ultimo divenendone manager e la donna tentando la via del successo, purtroppo preclusioni razziali sgambettandone il passo, ma fortunatamente nulla potendo sull’immensa nomea ch’ella sarebbe presto stata in grado di raggiungere nonostante la falciata di ottusi preconcetti mentali.

Nessuno è responsabile del colore della propria pelle. Esso non delinea in alcun modo il carattere o le qualità interiori di una persona.
Marian Anderson

 

Canto d’equità e dignità sociale

Forte d’esibizione alla Carnegie Hall — una delle più importanti sale concertistiche newyorkesi di musica classica e leggera, fondata nel 1890 dal filantropo e imprenditore scozzese naturalizzato statunitense Andrew Carnegie (1835-1919) e sui palchi della quale s’espressero i più rinomate personalità internazionali — la Anderson varcò confini europei e decisione,  oltreché condivisa da gran parte degli artisti di musica classica, rappresentò giovevole allontanamento dalle questioni razziali e a tal proposito, invitandola a migrare il trombonista statunitense Lawrence Brown (1907-1988), già accompagnatore del compositore lirico, cantante e tenore americano Roland Wiltse Hayes (1887-1977), i due — con quasi dieci anni sulle spalle di londinese, seppure intermittente, risiedere — mantenendo saldi contatti sufficienti ad incoraggiarla a studiare in Inghilterra, rassicuranti missive di presentazione, fra le quali quella del gentile Brown, anticipandone il giungere in terra britannica ad amici e il che permettendole d’entrare in contatto con molteplici persone giovanti al perfezionamento delle sue doti canore, in terra britannica potendo contare sulla gentile disponibilità del di lei vecchio amico — compositore, baritono, cantante, pianista, attore e direttore di coro — John Charles (Clarence) Payne (1872-1952), il quale, nel corso di in triennale tour in Gran Bretagna — peraltro occasione di saltuariamente esibirsi cantando su note di piano suonate dallo stesso Brown — esprimendosi sia come solista che in qualità di membro del quartetto maschile dei Royal Southern Singers, aveva piacevolmente sorpreso e destato interesse nella nobildonna e filantropa inglese, Lady Mary Cook (1873-1934), figlia del II visconte Bridport, Arthur Wellington Alexander Nelson Hood (1839-1924) e Maria Georgiana Julia Fox-Strangways (ca. 1846-1922), nonché moglie — dal 21 aprile 1898 — del mecenate, collezionista e storico d’arte, Sir Herbert Frederick Cook, III Baronetto (1868-1939), abituale promotore di ricevimenti intrattenuti nella tenuta di proprietà allo scopo d’inserire musicisti afroamericani nell’ambiente artistico e professionale “bianco”, nonché nel 1900 resosi autore, tra le altre, di una ricostruzione del repertorio di Giorgio ‘Giorgione’ Barbarelli da Castelfranco (ca. 1477-1510) ed un triennio più tardi  — su originaria idea del filosofo, critico d’arte, scrittore e poliedrico inglese John Ruskin (1819-1900), espressa durante una conferenza nel 1857 nella speranza di salvaguardare le opere artistiche nazionali — co-fondatore dell’ente di beneficenza indipendente, The Art Fund e nel 1923, sovvenzionando un concerto per Payne alla Wigmore Hall, un quinquennio dopo allietando i bambini indigenti di Londra con una festa natalizia al centro Friends House.

Grazie al loro immane supporto Payne accrebbe carriera, riuscendo a trasferirsi in una casa a Londra, in Regent’s Park Road, la nuova dimora divenendo riferimento primo di emigrati afroamericani giunti in Europa nella speranza d’affermarsi musicalmente e così fu per la nascente Anderson, in seguito affidata alla sapienza del contralto afroamericano Amanda Christina Elizabeth Aldridge (1866-1956) da Payne ed Hayes, ambedue precedenti suoi allievi, frattanto — nei primi due mesi di soggiorno britannico — Marian avendo aggiunto al proprio bagaglio artistico acquisizione di lieder tedeschi sotto la guida del barone e celebre tenore Raimund von Zur Mühlen (1854-1931), fra un’attività di studio e l’altra l’ispirata allieva aprendosi a significative amicizie, una su tutte quella intrecciata con la cantante blues afroamericana Alberta Hunter (1895-1984), all’epoca collaboratrice del leggendario trombettista Luis Armstrong (1901-1971) che la presentò ad un nutrito gruppo di colleghi.

Dopo aver dedicato alcuni mesi a nuovi apprendimenti con altri insegnanti fra i quali il mezzosoprano o contralto Sara Cahier (1870-1951) — frattanto perfezionando idioma presso un istituto locale e dedicando tempo libero all’ascolto degli adorati recital — la Anderson intraprese una tournée nello stesso continente, a lei iniziando finalmente ad aprirsi le porte della conquistata popolarità, ad appena due anni dal suo arrivo ella straordinariamente presentandosi nella londinese Wigmore Hall, sala da concerto con eccelsa acustica per la “musica da camera”, poi lasciando impronta in più paesi dell’Europa forte del riscontro positivo suscitato e decisamente meno bersagliata dal dardo della discriminazione che in suolo americano le aveva grettamente graffiato il petto, giungendo in Scandinavia e intessendo, sempre nel 1930, piacevole, duratura e proficua interrelazione lavorativa con il compositore e pianista finlandese Kosti Vehanen (1887-1957), le cui memorie sull’esperienza decennale trascorsa come accompagnatore di Marian, racchiuse fra le ispirate pagine, in prima pubblicazione al 1941, di Marian Anderson — A portrait, intimo, inedito e nutrito ritratto dell’artista narrato attraverso esperienze riportate e molteplici aneddoti a descriverne i vissuti di quel periodo durante il quale, grazie a lui, ulteriore cordialità legò la Anderson al violinista e compositore — emblema musicale dell’identità nazionale francese — Johan Julius Christian Sibelius (1865-1957), fra i due nascendo un’empatica intesa professionale sulla cui onda egli arrangiò e compose svariate canzoni per Marian, la donna nel 1934 interrompendo patto contrattuale con Judson per affidarsi alla gestione dell’impresario teatrale russo naturalizzato statunitense Solomon Izrailevič GurkovSol Hurok’ (1888-1974), che ne sarebbe divenuto definitivo manager, su consiglio del quale la Anderson riprese esibizioni entro americani confini — comunque alternando tour con l’Europa — ed alla sua prima comparsa, nel 1935, sui palchi del tetro newyorkese Town Hall, esplodendo di stupefacente meraviglia la critica, intanto le registrazioni delle sue arie d’opera eccellendo nelle vendite e nonostante l’ormai concretizzata e vasta fama — confermata dai circa settanta recital annuali tenuti negli Stati Uniti — talvolta preconcetti razziali ancora precludendo a Marian alcune possibilità, come accadde ad esempio nel 1937 quando le venne negata una stanza in hotel, prima dell’esibizione alla Princeton University e in quella occasione, solo prima fra tante, tollerante predisposizione mentale e smisurata gentilezza d’animo dell’insigne fisico Albert Einstein (1879-1955) ospitandola e con un colpo di spugna cancellando gli offensivi, abietti e devastanti oltraggi delle leggi Jim Crow, ordinamenti giudiziari locali e di singoli Stati del paese, promulgate fra il 1877 e il 1964, per effetto dei quali la segregazione razziale si applicò in tutti i servizi pubblici, vergognosamente separando individui in base all’etnia.
 

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Marian Anderson e Kosti Vehanen, 1934

 
Nel 1939 la DAR Constitution Hall — sala da concerto sita nelle vicinanze della Casa Bianca ed eretta nel 1929 dall’organizzazione, in acronimo siglata, Daughters of the American Revolution, volta alla promozione d’una patriottica educazione a salvaguardia delle memoria storica — impedì alla Anderson, com’era proibito a tutti gli artisti di colore — di muovere passo nel suddetto teatro, sollevando non poche polemiche interne l’associazione, tanto da spingere migliaia di membri a dimettersi, fra essi, Eleanor Roosevelt, spirito sensibile alla tematiche sociali e che a deprecabile episodio, in collaborazione con Sol Hurok e Walter Francis White (1893-1955) — attivista per i diritti civili afroamericani e dal 1929 al 1955, all’apice della National Association for the Advancement of Colored People — convinse l’allora Segretario degli Interni degli Stati Uniti, Harold LeClair Ickes (1874-1952) a predisporre l’area del Lincoln Memorial, per un’esibizione di Marian Anderson e il 9 aprile, sulle note di My Country, ‘Tis of Thee, accorata e poetica, coinvolse, tra ascoltatori radiofonici e gli oltre 75000 astanti, milioni di persone calamitate dalla risonanza di un evento indelebilmente impresso nella storia ed immaginariamente unendole oltre il velo del pregiudizio.
 
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Marian Anderson, Lincoln Memorial, 1939

 
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Lincoln Memorial, 1939

 
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Mitchell Jamieson (1915-1976), An Incident in Contemporary American Life, Rappresentazione del concerto al Lincoln Memorial di Marian Anderson, 1943

 

Marian Anderson, Lincoln Memorial, 9 Aprile 1939

 

I can’t tell you what you have done for me today. I thank you from the bottom of my heart again and again.

Archiviato inobliabile capitolo del cammino verso l’emancipazione, all’ingresso in guerra degli Stati Uniti, Anderson interruppe ed annullò tournée nei successivi tre anni in volontà d’offrire conforto ai soldati — ripetendo gesto in occasione del conflitto in Corea — visitando basi militari, ospedali, quindi portando gioia e calore nelle mense, nelle corsie, soffiando canto di lenimento in ultimi terreni istanti e nel 1943, inaspettatamente, fu invitata dalle Figlie della Rivoluzione a salire sul palco del Constitution Hall in un concerto a favore della Croce Rossa Americana ed ella — previo accordo perché «non fosse esercitata alcuna forma di segregazione nella disposizione della platea», né per l’occasione, né in futuro — accettò e con dignitosa umiltà d’animo, eludendo le insidie della rivalsa: «When I finally walked onto the stage of Constitution Hall, I felt no different than I had in other halls. There was no sense of triumph. I felt that it was a beautiful concert hall and I was very happy to sing there».

Il 17 luglio del medesimo anno, Anderson convolò a nozze con l’architetto Orpheus HodgeKingFisher (1900-1986) — egli così esaudendo sogno di gioventù dacché dal 1924 attendeva positivo monosillabo a proposta di matrimonio rivoltale — divenendo amorevole matrigna di James Gould Fisher (1925-2009), figlio che Orpheus aveva avuto dalla prima consorte Ida Gould Fisher e l’affiatata famiglia trovando dimora a Danbury, nel Connecticut, in una fattoria — in seguito denominata “Marianna Farm” — dove sarebbe rimasta per oltre mezzo secolo, alla struttura nel corso del tempo venendo aggiunte più parti, fra le quali una sala prove, e i coniugi serenamente godendo di quella parte di terra che il colore della loro pelle aveva reso difficoltoso acquistare, più volte i venditori decidendo di non concludere compravendita con afroamericani.

Ad inconcepibili e dolorose ferite, Marian Anderson oppose altra affermazione assurgendo a prima afroamericana a riuscire, nel 1955, ad esibirsi al Metropolitan Opera di New York, dalla cui ricevette, sebbene non replicando partecipazione, nomina a membro permanente, ed a riguardo ricordando la commozione permeatala nell’immediato quando l’applauso del pubblico calorosamente l’avvolse anticipandone esibizione: «The curtain rose on the second scene and I was there on stage, mixing the witch’s brew. I trembled, and when the audience applauded and applauded before I could sing a note, I felt myself tightening into a knot»; un biennio dopo emozione ripetendosi nel canto cerimoniale con cui accompagnò nomina e investimento alla presidenza degli Stati Uniti di Dwight David Eisenhower (1890-1969), successivamente quest’ultimo riconoscendole ufficiale investitura come ambasciatrice delle Nazioni Unite per i diritti umani, dato il benevolo peregrinare della donna attraverso paesi orientali — macinando migliaia di miglia in una dozzina di settimane — e impegnandosi in una ventina abbondante di concerti, nel 1961 cantando alla celebrazione del successore di Eisenhower, quel John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) omaggiato l’anno successivo da un’esibizione fra le mura della Casa Bianca, in quegli anni la Anderson dedicandosi anima e corpo in benefici concerti in supporto ai ferventi movimenti per i diritti civili che infiammarono il decennio, culmine di solidarietà levandosi in note nell’aria nel 1963 al suo miscelare voce e battito cantando alla celeberrima “Marcia su Washington per il lavoro e la libertà”, storica e indelebile manifestazione politica a favore dei diritti civili ed economici degli afroamericani e durante la quale — nella giornata del 28 agosto 1963 — un ispirato Martin Luther King (1929-1968) avrebbe donato al mondo fiamme di speranza, toccante sermone in cuor di Anderson radicandosi accompagnandola nel resto dell’esistenza, quell’anno peraltro, venendo inserita fra le trentuno persone meritorie della Presidential Medal of Freedom, onorificenza civile fra le massime decorazioni degli Stati Uniti, conferita dal Presidente come «un contributo meritorio speciale per la sicurezza o per gli interessi nazionali degli Stati Uniti, per la pace nel mondo, per la cultura o per altra significativa iniziativa pubblica o privata».
 

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Marian Anderson, ca. 1951

 
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Marian Anderson e Rudolf Bing, direttore del Metropolitan Opera, 1955

 
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Marian Anderson e John Fitzgerald Kennedy, Casa Bianca, 1962

 
Nell’ottobre del 1964, Marian Anderson affrontò una tournée della di sei mesi — principiata alla Constitution Hall e terminata alla Carnegie Hall — dopodiché uscendo dalla scena pubblica all’età di sessantotto anni, comunque mostrandosi in saltuarie apparizioni e proseguendo a porre a bacheca premi e riconoscimenti in onore alla dedizione civile, profusamente e magnanimamente impiegata; nel 1980 l’immagine del suo volto impreziosendo la medaglia d’oro commemorativa coniata dal Dipartimento del tesoro statunitense.

Dolore la colse invece un sessennio anni più avanti, il consorte difatti, dopo quarantatré anni di unione matrimoniale, si arrese a malattia che da tempo lo attanagliava; Anderson rimase a Marianna Farm fin 1992 — l’anno precedente ricevendo il Grammy alla carriera — trasferendosi quindi a Portland, nell’abitazione del nipote e direttore d’orchestra James Anderson DePreist (1936-2013) — figlio della sorella Ethel — dove per scompenso cardiaco, si spense l’8 aprile 1993 e le sue spoglie trovando riposo all’Eden Cemetery, nel minuscolo borgo di Collingdale, in Philadelphia, di sé lasciando al mondo personale narrazione fra le suggestive e realistiche pagine di My Lord, What a Morning, autobiografia, pubblicata nel 1956 e tratteggiata con disarmante gentilezza, nel descrivere dagli albori, sentiero esistenziale percorso mediante assidua e inattaccabile forza interiore, la sua incantevole voce riecheggiando oltre il tangibile, sfiorando sublimi sommità come nell’interpretazione dell’Ave Maria di Schubert, registrata nel 1936 per l’allora RCA Victor e nel 1999 pregiata del Grammy Hall of Fame Award; ennesimo riconoscimento artistico e verosimilmente, innanzitutto, umano, mai avendo desistito, allentato stretta dal propria identità, negato solidarietà al prossimo e dunque costantemente custodendo ed ascoltando, il respiro unico e fondamentale dell’essere.

Se hai un obiettivo e vi riponi fede,
non c’è limite a quanto puoi realizzare.
Marian Anderson

 

Marian Anderson, Hear de lam’s a-cryin, 1947

 

Marian Anderson, 1951

 

Marian Anderson, Ave Maria

 

Marian Anderson, Pace Pace, mio Dio, 1943

 
 
 
 

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