Mambo, tracce di storia e musica cubana
Originatosi sotto i cieli di Cuba sul finire degli anni Trenta, il Mambo, all’incalzante ritmo scandito da congas, bongò, claves e maracas, ha raggiunto il culmine della popolarità fra gli anni Cinquanta e Settanta, contribuendo alla nascita di numerosi generi musicali.
Colui che danza cammina sull’acqua e dentro una fiamma.
Garcia Lorca
E allora Mambo
Correva l’anno 1938 quando i fratelli López, Orestes ed Israel, scrissero e presentarono una canzone intitolata Mambo; la stessa derivava da una strofa ritmica del Danzón, ossia quella che all’epoca era l’ufficiale danza di Cuba, allora priva di una sua specifica forma musicale ed a sua volta proveniente dalla Contradanza, la ballata popolare in voga nel diciannovesimo secolo, anche detta Contradanza Criolla (creola).
La Contradanza, d’originaria matrice inglese, aveva varcato i confini cubani su importazione dei coloni francesi che si trovavano in fuga dalla Révolution haïtienne, la lunga battaglia, protrattasi in Saint-Domingue, l’odierna Haiti, fra il 1791 ed il 1804, esplosa contro il colonialismo e sul malcontento sociale nei confronti delle inumane condizioni di schiavitù, il cui esito fu a favore dei rivoluzionari, con successiva indipendenza della colonia, netto massacro delle truppe franche ed espulsione dei superstiti alle stesse appartenenti.
La rivolta fu strategicamente ben organizzata, particolarmente agguerrita, oltre che percepita nella sua essenza, in quanto capeggiata da ex schiavi la cui messa in libertà aveva acceso gli animi per esperienza diretta dell’esser stati incatenati nella loro dignità, conquistando un traguardo che divenne per antonomasia un evento simbolico in tutta la storia del razzismo, giungendo in eco sulle politiche schiaviste americane e decisamente contribuendo ad aggiungere importante tassello alla graduale presa di coscienza d’una consapevolezza che sfatasse la falsa e deleteria convinzione dell’inferiorità di alcune etnie rispetto ad altre.
Sulla scia della disfatta, gli erranti galli posarono dunque piede in Cuba portandovi i ritmi della Contradanza che, una volta sul territorio, s’impreziosì di musicali innesti africani sfociando in melodica mescolanza afro-europea e, dall’avvenuta creolizzazione, tradizione gradatamente si delineò, originando musiche a sempre più marcata tipicità, fra le quali quella che, nominata come Danzón solamente a partire dal 1850, il quotidiano avanese El Triunfo, il 25 luglio del 1882, descrisse come «una danza coordinata composta da una serie di figure eseguite da un gruppo di ballerini. Questi tengono un capo di un nastro colorato e trasportano archi coperti di fiori. Il gruppo attorciglia e intreccia i nastri per creare piacevoli immagini».
Lo stesso musicista cubano Miguel Faílde Perez (1852-1921), fondatore dell’orchestra omonima, notando che a Matanzas, cittadina nota per le sue tradizioni culturali afroamericane, si svolgeva un tipo di danza nella quale una ventina di coppie si muovevano a ritmo di Habanera (un genere di Contradanza) portando archi e fiori, ne rivisitò tempi e battute, originando una melodia ben precisa che si ritiene sia stata la prima vera forma strutturata di Danzón, motivo per cui Miguel viene da molti ritenuto il suo fondatore.
Nell’abbondante centennio fra l’inizio dell’Ottocento e le prime due decadi del Novecento, le danze popolari, fra cui lo stesso Danzón, venivano suonate da primissimi gruppi cubani, le orquesta típicas, formati da una decina di membri e la cui base musicale era prevalentemente costituita da strumenti a fiato fra i quali tromboni, corni, oficleidi, clarinetti e, in aggiunta, timpani e violini. Rivale alternativa orchestrale, denominata Charanga, all’interno della quale abilità artistiche si riunivano sotto i delicati e signorili suoni di pianoforte, introdotto nel 1898 dal pianista cubano Antonio Maria Romeu Marrero (1876-1955), di cui armonici compagni contrabbassi, timbali, flauti, celi e güiri, ebbe in seguito ad affiancarsi alle típicas, per poi surclassare le stesse negli anni trenta.
La capillare diffusione del Danzón in tutte le stratificazioni sociali, la lenta sinuosità ritmica e la sensuale vicinanza fisica durante il ballo, lo resero tuttavia oggetto di repressive critiche dettate dalla cieca ipocrisia borghese, fortemente amplificate dalla stampa nel timore d’un celere decadimento della moralità, in aggiunta al tentativo d’evitare che la danza divenisse il tanto temuto “collante” fra persone di differente provenienza etnica.
Tentativo inibitorio che nulla poté sull’irrefrenabile forza delle note, troneggianti fra ballate per decenni e imperanti nella città, fino all’arrivo del son, inizialmente comparso all’Avana attorno al 1910, poi divenuto fenomeno culturale cubano fra il 1920 e il 1930.
Il son cubano affonda le proprie radici in Santiago e sulla catena montuosa della Sierra Maestra, regione nelle cui campagne i contadini erano soliti dilettarsi fra balli e canti nel corso di feste campestri, danzate in sarcastica contrapposizione al più aristocratico Danzón, sui ritmi e i movimenti tipici della rumba africana, appresa dagli schiavi deportati sull’isola, in particolare richiamo a quello che fu lo stile musicale di questi ultimi, il changüi, sorto fra canne da zucchero e fatiche usuranti. La sua divulgazione avvenne grazie all’errante passo dei trova, musicisti vaganti per Cuba e narranti storie di schiavitù tramite musica, alle quali successivamente si aggiunsero varie tematiche, dalle romantiche alle patriottiste, dalle politiche alle umoristiche.
All’epoca l’Avana era il fulcro politico ed artistico principale di tutto il territorio cubano e l’assorbire differenti generi musicali costituiva indubbio arricchimento culturale, sebbene il raggiungimento della fama prevedesse alcune modifiche strutturali che rendessero le danze maggiormente occidentalizzate, di conseguenza più gradite alla borghesia, con ovvio sfregio all’autenticità delle stesse. In particolare modo dopo la conclusione del primo conflitto mondiale, l’arrivo in città di numerosi e benestanti imprenditori europei, con derivato introito economico, fu l’occasione per rinnovare e adeguare i vari repertori musicali dei locali serali notturni, avanzando proposte allettanti e affini ai loro gusti. Per il riadattamento del son cubano fu dunque prevista l’attenuazione della sensualità ad esso intrinseca e un apporto coreografico di stile europeo.
Decisa svolta al al genere fu inoltre data dal musicista e compositore cubano Ignacio Arsenio Travieso Scull, noto come Arsenio Rodríguez (1911-1970), che introdusse nel son cubano dei dialoghi fra il coro e il solista, chiamati Montuno, in riaggancio appunto al nominativo di genere son Montuno.
Produttivo compositore e polistrumentista di rilievo nonostante la cecità procuratagli all’età di sette anni dal calcio di un asino e uno dei musicisti più significativi del panorama musicale cubano, Arsenio, discendente da schiavi congolesi, tenne fede al sue origini enfatizzando elementi afro-cubani all’interno delle sue composizioni e rivoluzionando le stesse con l’utilizzo di strumenti allora vietati, in quanto d’origine africana, come ad esempio il tamburo conga. Forte della sua capacità di esecuzione e sperimentazione, il compositore viene inoltre considerato il precursore del Mambo, genere che nella musica afro-caraibica è una porzione di arrangiamento contenuta all’interno di un Danzón, al quale lo stesso Rodríguez, lavorando sul Son Montuno, seppe affiancare le ritmicità tipiche della musica vodoo, in un personalissimo inserto melodico indipendente, all’interno della composizione, definito Diablo.
Ma a contendersi paternità di Mambo con Rodríguez furono i succitati fratelli Lopez tramite la canzone da Charanga dagli stessi concepita come variante di Danzón, rendendone popolare una forma meno rigida, anche detta Danzón Mambo, sulla quale i ballerini avrebbero potuto esprimersi in maniera più libera.
Orestes López Valdés (1908-1991), soprannominato ‘Macho’, fu polistrumentista, compositore e capobanda cubano nato all’Avana da una famiglia di musicisti nel 1908 il quale, fin dalla preadolescenza, si dedicò allo studio di violino, violoncello, pianoforte e flauto in ebano a cinque tasti, divenendo, a soli quindici anni, doppio bassista dell’allora Orquesta Filarmónica de la Habana e, in raddoppiamento d’età, direttore di ben tre orchestre da ballo. Dopo aver dedicato vita all’attività musicale, migrò in territorio spagnolo nel 1961 e due anni dopo negli Stati Uniti, confini entro i quali continuò a collezionare successi, comunque concludendo la sua esistenza su suolo natio, nel 1991.
Israel ‘Cachao’ Lopéz, contrabbassista cubano, nacque nel 1918 e precocità di passione musicale lo colse come il fratello Oreste, portandolo a suonare il bongo fin dalla tenera età di otto anni, all’interno di un piccolo gruppo formato da bambini. A tredici anni, dopo studi classici e di conservatorio, frequentò la medesima orchestra di Oreste, con lo stesso dedicandosi al suono del contrabbasso e con lui condividendo centinaia di composizioni e, sulle orme del fratello, dedicandosi in toto alla musica, grazie alla quale la sua fama crebbe in maniera esponenziale, in particolare a New York, dove divenne uno dei bassisti maggiormente noti, suonando nei locali più esclusivi e giovandosi di numerose collaborazioni artistiche, poi terminando la sua vita a Coral Galles, in Florida, nel 2008.
Unendo il Danzón ai ritmi africani, nello stile che avrebbe aperto le porte al Mambo, tramite l’aggiunta di una terza parte, maggiormente movimentata, alle due nelle quali tradizionalmente era suddiviso il genere originario, i due fratelli crearono un nuevo ritmo che, pur rimanendo fedele alle sue radici, si fece innovazione sull’intero panorama musicale cubano.
Preziose eredità di ritmo, quelle di Rodríguez e dei fratelli Lopéz, che il pianista, musicista, compositore e direttore d’orchestra cubano Damaso Pérez Prado (1916-1989), originario di Matanzas, giunto all’Avana nel 1940 e divenuto membro dell’orchestra Casino della Playa in una jazz band deputata all’intrattenimento della benestante frangia turistica nordamericana, seppe prendere a prestito, fra Diablo e nuevo ritmo, per tentar scalata al successo in territorio messicano verso cui si diresse nel 1948, dove la sua lungimiranza ebbe la meglio portandolo, con un pizzico di buona sorte negli incontri, ad esplodere la sua personale concezione del Mambo, caricandone il ritmo privilegiando strumenti a fiato quali sassofoni e trombe, tralasciando flauti e violini. Fondò una propria orchestra e registrò per la casa discografica statunitense RCA Victor, ovvero la risultante dalla fusione della Radio Corporation of America e la Victor.
Salto di trampolino fu l’ascolto, nel 1950, della sua canzone, Qué rico el Mambo, da parte dell’arrangiatore, compositore, musicista e produttore discografico statunitense Joseph Francis Burke (1914-1980) il quale, ascoltato il brano mentre si trovava lì in vacanza, rientrato negli Stati Uniti ne volle incidere una personale versione intitolata Mambo Jambo, sull’onda del cui improvviso e corposo successo, l’anno a seguire, Pérez ebbe l’occasione di saggiarsi in una tournée americana con appagante esito di notevole celebrità, sfondando ogni classifica con il brano Mambo n. 5, consacrando il genere in America, componendo numerosi altri brani e varcando confini italiani con Patricia, il testo che il regista e sceneggiatore Federico Fellini (1920-1993) volle inserire nella colonna sonora de La dolce Vita.
A Pérez va riconosciuto il merito d’aver sedotto l’interesse a riguardo in gran parte della popolazione non latina, per questo ricevendo significativo epiteto di “re del Mambo”, immaginario sovrano d’un genere che tuttavia non gli fu di sostegno alla fine del suo percorso vitale in quanto, scemata negli anni la fama del caratteristico stile musicale, anch’esso scivolò nell’oblio totale, perendo, ingiustamente divorato da malattia e miseria, al suo settantatreesimo anno d’età.
Ciononostante, è innegabile che il suo contributo sia stato fondamentale all’espansione europea del Mambo, filtrato dapprima dall’avanguardista capitale francese, fin dal diciannovesimo secolo grande estimatrice della musica cubana, fino all’arrivo nella penisola italica, dove accoglienza allo stesso venne dato da innumerevoli orchestre, prime fra le quali quelle del cantante, batterista, percussionista e compositore italiano Bruno Quirinetta, nato Baldini (1911-1961), il gruppo musicale – Franco e i G.5 – e numerosi altri.
Sebbene i fratelli Lopéz, Arsenio Rodríguez ed fine Pérez Prado siano innegabilmente punti cardine nella storia del Mambo, doveroso accenno si deve al percettivo animo del chitarrista, cantautore e capobanda cubano Bartolomé Maximiliano ‘Benny’ Moré (1919-1963), uomo custode d’una voce dalla toccante tenerezza e verace intensità, magistrale interprete del suono e popolare cantante di guarachas, son Montuno, Mambo, Cha Cha Cha e boleros che, fra la moltitudine di collaborazioni intraprese, interagì con lo stesso Pérez, per lui componendo il brano Locas por el Mambo nel 1950.
Nato nel centro di Cuba come primogenito di 17 fratelli, sentor di schiavitù gli fu antenato, essendo che il bisnonno Ta Ramó Gudno Paredes, che si narrava fosse il figlio del re di una tribù congolese, venne catturato e venduto come schiavo al proprietario di una piantagione cubana, fortunatamente riuscendo a respirare ancora il profumo della libertà, morendo da uomo libero alla veneranda età di 94 anni e probabilmente lasciando che geneticamente a scorrere nelle vene di Benny fosse quella brama di volo ch’egli concretizzò producendo e suonando il suo primo strumento all’età di sei anni, adoperandosi perché una lattina di sardine gli fungesse da cassa armonica sulla quale musicare con un legnetto, quindi duramente lavorando per rincorrere il proprio sogno, proseguendo in prime esibizioni economicamente retribuite in base a quante monete venissero gentilmente posate nel suo cappello e infine mirando barlume di speranza nella vincita di una competizione radiofonica, che, contrariamente a quanto sperato, si rivelò umiliante esperienza sotto sfruttamento di contratti stipulati da danarosi e cinici uomini d’affari.
Ma determinazione rese meno amara ogni difficoltà e lo condusse nel tempo al traguardo d’un meritato successo, raggiunto con il gruppo, da lui formato, Banda Gigante. Rimasto a Cuba anche in seguito alla Rivoluzione cubana in quanto desideroso di rimanere fra la mi gente, in territorio natio concluse la sua esistenza, precocemente passando a miglior vita, accompagnato da migliaia di persone durante i funerali, nel 1963.
La più sincera espressione di un popolo sta nelle sue danze e nella sua musica. I corpi non mentono mai.
Agnes George De Mille
Dalla musica alla danza
Inevitabilmente, fin dai primi arrangiamenti attuati sul dánzon, le originarie danze cubane subirono stilistico stravolgimento in virtù della benevolenza che si sperava potessero ottenere nell’incontrar l’ascolto da parte dei nuovi residenti cubani di provenienza occidentale e similarmente successe al Mambo dopo la sua diffusione negli Stati Uniti, arrivando in Europa con tutta la sua innovativa potenzialità, ma ineluttabilmente perdendo, per lo meno nelle interpretazioni dal vivo, quella caliente carica timbrica tipica delle orchestre latino-americane, con derivati arrangiamenti finalizzati a rendere le melodie più facilmente ballabili e nell’intento di suscitare interesse ad ampio raggio, in Italia mantenutosi pressoché costante fino alla metà degli anni cinquanta, ovvero prima che il Cha Cha Cha apparisse all’orizzonte, tuttavia anch’esso tramontando nel giro di un quinquennio, come la maggior parte della musica latina, sulla storica nascita di generi musicali completamente differenti, a partire dall’esplosione senza precedenti dei Beatles e di tutti i gruppi rock and roll americano che celermente ed intensamente andarono a diffondersi intrecciandosi alle ribellioni e contestazioni che di lì a poco avrebbero infiammato la maggior parte delle piazze in differenti parti del mondo.
In retrospettivo balzo agli antichi albori del Mambo, originari strumenti, poi integrati, che ebbero a concretizzarne il primitivo suono, furono:
– le congas, strumenti musicali della famiglia dei membranofoni (quegli strumenti in cui il suono viene prodotto con vibrazione di una membrana tesa), prima della loro diffusione mondiale utilizzati esclusivamente nella musica afro-cubana;
– i bongos, strumenti a percussione, d’origine africana, ad unica membrana ed un risuonatore in legno in grado di riprodurre due suoni, uno medio ed uno acuto;
– le maracas, strumenti, a scuotimento, della famiglia degli idiofoni (il suono origina dalla vibrazione del corpo medesimo dello strumento, senza l’uso di corde o membrane tese) e d’origine sudamericana, per la costruzione delle quali, zucche rese cave vengono utilizzate come contenitori di piccoli sassi o semi secchi;
– le claves, legnetti cilindrici anch’essi facenti parte degli strumenti idiofoni;
– la cabasa, strumento idiofono proveniente dal continente africano e formato da un cilindro metallico, con superficie ruvida, su cui è arrotolata una catena di biglie d’acciaio.
La danza è un insieme di passi perfettamente riconoscibili ad ognuno dei quali corrisponde un movimento specifico. Alla fine degli anni trenta, il dánzon, era caratterizzato da tre movimenti ben precisi: l’introduzione, la passeggiata in un cerchio, detta “el paseo” e il tema principale, denominato “comparsa”, in cui i ballerini interagiscono ballando. L’evoluzione in seguito applicata dai fratelli Lopéz, andò ad agire sulla terza parte del movimento, sostituendo un Montuno, a sua volta Rodriguéz ne caricò la musicalità d’africani suoni e infine Peréz, ne modificò la struttura musicale ispirandosi a note di jazz, manipolazioni artistiche giunte fino ai nostri giorni passando fra mani e menti di vari altri artisti, qui ingratamente non citati.
All’oggi il Mambo si presenta come una danza colma di ritmo e sinuosità, per imparare a ballar la quale è necessario seguire scrupolosamente alcuni passaggi coreografici, abbastanza semplici da realizzare. Solitamente, rispetto al passato, si balla a coppie, in un ballo di contatto in cui “cavaliere” e “dama” si sfiorano più volte, attentamente riferendosi a 8 passi, ognuno abbinato ad una parte fisica, che sono i medesimi per entrambi (ad eccezione del primo e del quinto passo, riferibili all’abbassamento del tallone e speculari), da provare a riproporre in completa libertà di braccia, che devono seguire le fluttuazioni del corpo in tutta fluidità.
La partenza è a gambe unite e schiena ben eretta, testa alta e sguardo dritto, partendo da uno schema di base in cui è l’uomo a guidare la danza, seguito dalla donna, che ne seguirà i movimenti, attuandoli al contrario.
La basilare modalità prevede: alzata di entrambi i talloni, due passi in avanti con il sinistro e tre indietro con il destro per il cavaliere, ai quali corrispondono due passi indietro con il destro e tre avanti con il sinistro per la dama; il quarto passo è di chiusura ed abbassamento del tallone destro, quindi ripetizione del tutto e chiusura con abbassamento del tallone sinistro.
Un’esercitazione da assimilare e sperimentare nell’emozione di provare ad abbandonarsi ad una danza, il Mambo, che trascende ogni dimensione nel tender le sue radici in tempi lontani ove i generi suoi padri rinacquero in musica sulla disperazione protratta di coloro che furono resi schiavi, incatenati in mente e fisico. Catene spezzate, a libertà sopraggiunta, la cui terribile esperienza i corpi desiderarono esorcizzare abbandonandosi a balli convulsi e scatenati, bel lontani dalla staticità pregressa di ballate ben più rilassanti. Ritmi resi propri fra percussioni e scuotimento di strumenti e d’animo, paure mescolate a piccoli semi rimbombanti su pareti di zucca al pari d’afflizioni per decenni martellanti sui neuroni e battere di bacchette su membrane tese quanto i nervi degli uomini ai quali venne proibito d’esistere senza la consapevolezza d’avere un padrone, in lacerante frustrazione poi espulsa in musica con colpo di ventre, sul soffio di corde vocali provate dall’amarezza di lacrime deglutite.
Uno fra i tanti, il Mambo, a testimoniar come la mente sia da sempre inesauribile fonte di resistenza che, al netto delle sopraffazioni, sia in grado di rimusicarsi in note dopo essersi spolverata di dosso le ingiustizie del passato, intimamente lanciando staffetta a cavallo di secoli, omaggiando del dono di provare a muover piedi e dedicare ascolto a quello che è ricchezza emotiva, ancor prima che storica, culturale ed artistica.
La danza è una canzone del corpo di gioia e di dolore.
Marta Graham
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