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Cornamusa, suoni e melodie di antiche origini

Pietro Paolini (Lucca 1603-1681) Suonatrice di tamburello e suonatore di zampogna.

Dolci le melodie conosciute, ma più dolci le ignote così voi, tenere cornamuse, il vostro canto non al mero orecchio portate, ma, per questo più care, allo spirito offrite silenziosi concerti.
John Keats

 
Saturazione dello sguardo, rabbocco all’animo e vibrato palpito dell’emozioni sulla vita è naturale ed elegiaco effetto conseguente all’osservazione dei paesaggi scozzesi ove austeri monti padri di frizzanti laghi, foreste e spiagge inversamente speculari alle proprie altitudini, colline, campagne ed infinite lande, si fan straordinario dono all’esperienza sensoriale durante la quale, socchiudendo gli occhi, facilmente immaginabile è melodioso suon della cornamusa, atavico strumento in cui il soffiar fiato origina densa ed armoniosa magia.
 
Dalla Scozia all'Italia, un piccolo viaggio nei luoghi della cornamusa, atavico strumento il cui soffio, melodico e solenne, dona da sempre magiche atmosfere • Terzo Pianeta (https://terzopianeta.info)

 

I Pitti e gli Scoti

Antica popolazione celtica d’irlandese provenienza fu quella degli Scoti o Scotti, coloro che nel quarto secolo d.C. occuparono la Caledonia, ovvero la regione britannica tra i fiumi Forth e Clyde, con probabile paternità sull’attuale nome del selvaggio e montano paese a culla d’Edimburgo.

Nella parte antica della caledoniana zona di Britannia vivevano i Pitti, storicamente considerati come una sorta d’associazione d’unità tribali, coalizzatesi contro avversari comuni sulla base di condivise ideologie e che, dopo indebolimento seguito ad attacco vichingo, agli Scoti etnicamente s’unirono a formare un unico popolo, stoicamente opponendosi all’espansione romana sui loro territori.

Lingua di matrice celtica introdotta in Scozia dai coloni irlandesi fu, nella sua ramificazione insulare, il gaèlico, o geodelico, gradualmente sostituita dall’inglese a partir dal dodicesimo secolo ed a tutt’oggi circoscritta alla compatta regione montuosa delle Highlands, in gaèlico scozzese denominate A’ Ghàidhealtachd, ossia «terre dei Gaeli» in riferimento all’antica popolazione il cui idioma venne eroso nel corso dei secoli.

In quell’aria montana intrisa di storia, il cui avvolger le vette racconta di lontane melodie imprescindibilmente connesse alla succitata cultura, garbatezza d’alito s’infonde in cornamuse dal peculiare suono la cui musicalità, in sublime e delicata artigianeria di note magistralmente sbuffate, trasla all’universo emotivo al semplice udirne.

Divulgatasi in varie parti del mondo, è principalmente nelle scozzesi Highlands che il suo crescente sviluppo raggiunse notevoli livelli di pratica e tradizione, seppur le sue origini facciano capo al Medio Oriente, con propagazione europea, fra il dodicesimo ed il tredicesimo secolo, sull’errabondo passo di musicisti in itinere.

Lo cornamusa scozzese odierna, discendente dalle Border Pipes, viene comunemente denominata Great Highland Bagpipe (Cornamusa dell’altopiano).
 

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Border Pipe

 
Approdo in quel di Scozia pare sia avvenuto circa tre secoli più tardi, con ufficialità di presenza su territorio confermata dalla pubblicazione, nel 1508, del Testamento di Mr. Andrew Kennedy e divenendo in un secondo strumento d’uso militare; a tal proposito, alcuni clan scozzesi conservano repertori strumentali che si suppone possano esser stati protagonisti sonori della Battaglia di Bannockburn, il significativo conflitto, combattutosi fra il 23 ed il 24 giugno del 1314, a seguito del quale, all’interno della prima guerra d’indipendenza scozzese (1296-1328), l’affrancamento della Scozia dall’Inghilterra fu restaurato nei fatti, fino alla sua proclamazione giuridica nel trattato di Edimburgo-Northampton (1328).
 
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Battaglia di Bannockburn, immagine tratta dal Cassell’s History of England, Century Edition, 1902

 
Precedentemente alla scoperta del tal strumento, la tradizione musicale scozzese scioglieva le proprie note sulla base di canzoni popolari accompagnate da tamburi o strumenti a fiato elementari, mentre in ambito d’aristocrazia erano le arpe a deliziare l’udito dei nobili, limitazione delle quali era tuttavia una scarsa amplificazione del suono, dovuto alla debolezza dello stesso, a costringerne l’esibizione intramura, motivo per cui l’avvento delle grandi cornamuse, le Bagpipes, coincise con la possibilità d’ascoltarne le melodie anche in zone aperte, grazie appunto alla potenza delle loro vibrazioni in armonioso effondersi fra laghi (loch) e vallate (glens).

Alle soglie del diciottesimo secolo, la trasmissione della musical arte di padre in figlio fu concreto passaggio di mano fra consanguinei suonatori, le cui abilità trovarono possibilità d’esser affinate all’interno di scuole ove sapienti pipers si donavano fra padronanza di strumento e bagaglio d’esperienza.

A metà dello stesso secolo, nel 1746, l’inabilità strategica degli scozzesi li condusse a disastrosa sconfitta nella Battaglia di Culloden, sotto direzione del nobile Carlo Edoardo Stuart, a capo dell’insurrezione dei giacobini, contro il generale britannico duca di Cumberland, rinominato Billy il Macellaio a causa della feroce repressione attuata nei confronti degli stessi. L’inevitabile sfibrarsi dell’apparato tradizionale d’un popolo, a seguito di sconfitte e prevaricazioni, allentò l’utilizzo della cornamusa nella sua accezione “casalinga”, mantenendone tuttavia in essere il suono su due fronti ben precisi, ovvero quello militare, conseguente ad arruolamento di civili, ed a quello migratorio, considerato il notevole dirigersi di scozzesi verso territori americani.

Conseguente fu l’espandersi di modelli innovativi dello strumento, a discapito degli originali, in derivata e graduale fase di crepuscolo, mantenuta comunque in vita nell’isola di Capo Bretone, nella zona canadese della nuova Scozia, grazie a colonizzatori che ne importarono tipicità di suono e stile, nella particolarità dell’originarie cornamuse.

Attualmente, varie sono le gare od i concorsi a cui partecipano pipers provenienti da ogni parte del mondo, variegati gli strumenti, siano essi eredi di derivazione militare o più vicini alle primigenie pipes, con stili che spaziano in ampio repertorio Folk, sfumando le proprie note di generi più moderni quali il Rock ed il Jazz.

 

La cornamusa scozzese

La cornamusa scozzese appartiene alla musical famiglia degli aerofoni, ovvero gli strumenti musicali nei quali è l’aria ad entrare in vibrazione producendo il suono; a seconda che la stessa sia contenuta in una cavità dello strumento oppure no, gli aerofoni prendono rispettivamente il nome di “risonanti” o “liberi”.
 

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Great Highland Bagpipe

 
Il contemporaneo strumento è composto da una sacca (bag), negli anni passati in pelle, ora frequentemente di materiale sintetico, alla quale son collegate quattro canne musicali ed un insufflatore (blowpipe) in cui il suonatore immette il proprio soffio riempiendo la sacca; il suono deriva dalla pressione dell’aria, abilmente controllata dallo stesso musicista in bilanciamento fra entrata ed uscita.

Comunemente, delle quattro canne, tre prendono il nome di bordoni (drones), che emettono una nota fissa di fondo, mentre la quarta canna, il chanter, definita anche “canna del canto”, deputata all’esecuzione della melodia, su una scala di nove note fuoriuscenti dai corrispettivi fori. A loro volta, chanter, bordoni ed insufflatore, solitamente in legno d’ebano africano, sono collegati alla sacca tramite degli stocks, elementi ad alloggio alla stessa strettamente legati; all’interno di chanter e bordoni vi son delle ance, quattro in tutto, le cui sottili linguette mobili permettono il suono tramite vibrazione dell’aria.

All’originaria struttura di base, epoca di modernità ha apportato modifiche e varianti, sia dal punto di vista estetico che in riferimento ai materiali utilizzati. Resta il fatto che la bellezza dello strumento, nelle sue antiche forme, resta emotivo anello di contatto con suonatori d’altri tempi grazie all’errante peregrinar dei quali, anche in Italia, in determinati periodi ci si può sciogliere in abbandono uditivo al magico mormorio d’una sacca in eufonico soffiar.
 

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Hendrick ter Brugghen (1588-1629)
Il suonatore di cornamusa, 1624

 
Anche nell’italica penisola vi sono scuole che insegnano a suonare la cornamusa, arte per cui è necessaria una sentita capacità d’immedesimazione con lo strumento, a partire da un iniziale ascolto dello stesso al fine di familiarizzare con le caratteristiche gracenotes, ovvero “brevi note veloci inframezzate alla linea principale”, dedizione essenziale all’udirne il vociferante animo, prima di soffiar se stessi nel boccaglio d’insufflazione; in alcuni strumenti particolarmente evoluti le note raddoppiano, divenendo diciotto e, in rari modelli particolarmente sofisticati, addirittura trenta, restando comunque nove per la maggioranza delle cornamuse.

A facilitar movimenti delle dita e modulazione del fiato vien in soccorso il Pratice Chanter, sorta di flauto con suono similare alla cornamusa grazie al quale sperimentarsi ed allenarsi in doti quali costanza e velocità, pazientemente attendendo di riconoscere il giusto momento per intrecciarsi corpo e spirito alla grande sacca dalle canne canterine, la cui voce dura ininterrottamente fino alla fine del brano; ecco il motivo per cui, fra una nota e l’altra, va inserito un terzo suono a spezzarne la continuità, elevandone il ritmo. L’aria va giocata in doppia abilità di soffio, alternando dunque quella dedicata al riempimento della sacca al respiro da prendere, accortamente estratto dalla stessa con pressione del braccio, come funamboli in equilibrio fra capacità polmonare, tattile ed uditiva, nella magia di simbiosi che l’armonia dell’esibizione eviscera in sublime compattezza.

Nel casi in cui la cornamusa sia interamente costruita con materiali naturali, di sacrosanta importanza è la sua manutenzione, da affidare, al di là dell’ordinaria, ad esperti liutai o tecnici affini che sappiano prendersene cura come fosse creatura vivente da nutrire e carezzare affinché l’azione del tempo non sia corrosiva sulla sua capacità di canto in empatia all’uomo.

Ceòl Mór (o piobaireachd) e Ceòl Beag, in gaèlico “grande musica” e “piccola musica”, sono invece i due tradizionali registri in base ai quali suonarla, il primo più classico, quindi riservato a brani solisti, alla sola portata di pipers esperti, il secondo tipico delle pipe band, oltre che maggiormente dedicato a marce e danze popolari.

 

Tradizioni italiane

Oltre alle Highland Bagspipes, le cornamuse prettamente utilizzate negli storici battaglioni militari, fra le remote cornamuse scozzesi, principalmente suonate durante i quotidiani eventi, cittadini ed agricoli, vi erano le suddette Border Pipes altrimenti note come Lowland o Reel Pipes, attualmente meno diffuse a causa delle battagliere vicissitudini che trafissero i cuori scozzesi, ma discretamente riscoperte e ritornate alla ribalta negli ultimi anni. Ad accomunarle alle irlandesi Uillean Pipes è il soffio indiretto, ovvero tramite un soffietto che immette aria fredda nella sacca, pratica di suono che ha ne ricamato il nomignolo di cold wind, «vento freddo». Della famiglia delle Lowland Pipes, sono anche le Scottish Small Pipes e le Pastoral Pipes, tipologie similari seppur con caratteristiche di timbro lievemente differenti.
 

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Scottish Smallpipe

 
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Pastoral Pipe

 
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Uillean Pipe

 
Ovviamente limitata la pratica solistica, consideratone la complessità, l’attività delle pipes band s’è al contrario accresciuta in territorio scozzese e non solo, rendendo non più tanto rara la presenza di pipers anche all’interno di gruppi musicali, a dimostrazione del fatto che, con le moderne tecniche d’amplificazione, l’interazione fra strumenti di dissimile potenza non sia un miraggio, bensì una moltitudine di suoni in danza sulle proprie differenze.

Entro confini italiani la cornamusa ha saputo mantenere il tradizionale fascino della musica d’un tempo, diffondendosi nell’intera penisola, particolarmente nella zona centro meridionale della stessa dove, ben conosciuta come Zampogna, il general termine sotto il quale i musicologi dediti allo studio degli strumenti preferiscono raggruppare tutti gli strumenti muniti di ancia ed otre (la tradizionale sacca di pelle animale cucita), riservando la definizione di cornamusa a limitati esemplari suonanti.

In territorio meridionale la Zampogna è strettamente legata a musiche popolari, danze, festività e rituali, con aggiuntivo accenno agli eventi natalizi in territorio molisano, dove la variante suonata presenta due chanter, rispettivamente di ruolo melodico, l’uno, d’accompagnamento, l’altro, e spesso in coppia con la ciaramella (o pipita), l’aerofono della famiglia degli oboi, i conici strumenti a doppia ancia, di suono lieve, ma penetrante, spesso costruiti con legno d’ebano o palissandro.
 
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È la zona piemontese a pullulare di gruppi dediti alla riscoperta degli strumenti più antichi, rispolverandone i suoni attraverso rievocazioni storiche o manifestazioni interamente dedicate alla fedele riproposizione delle sequenze ritmiche proprie ad ognuno d’essi, in aggiunta ad un’intimo slancio artigianale per chi desiderasse apprenderne le modalità di costruzione manuale.

Piva è invece la denominazione appartenente alla zona emiliana affibbiata alla similar cornamusa utilizzata nell’appenniniche valli del Nure e della media val Trebbia, cedendo il posto, nelle rimanenti vallate dell’Appennino emiliano, alla Müsa delle quattro province (Pavia, Alessandria, Genova e Piacenza) in dialetto ligure Müza, dagli anziani ancor chiamata Müzetta ed il cui chanter staccato potrebbe tranquillamente far le veci d’un piffero, venne prevalentemente suonata fino al trentennio, poi sostituita dalla fisarmonica, mentre la Piva, frequente base del ballo, fu abbandonata dopo il secondo conflitto mondiale fino a riemergere negli anni ottanta, specialmente in terra modenese, resuscitando dunque un chanter a doppia ancia il cui otre è in pelle conciata di capretto.
 

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Müsa

 
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Piva

 
Di terra sarda le Launeddas, antichissimi e polifonici aerofoni, già presenti in ere preistoriche, a fiato policalamo, ancia battente e tre canne: la più lunga è il bascio (o tumbu), priva di fori e ad unica nota; la seconda, la mancosa manna, ha funzione d’accompagnamento; la mancosedda, terza canna, è libera dalle altre due, invece legate fra loro, e dalla stessa fuoriescono le note di melodia. Ne esistono numerose varietà e differenti tonalità, per la costruzione delle cui canne si utilizzano quelle di fiume, non le palustri. L’antico ambito d’uso era prevalentemente quello religioso, rituale e, mantenutosi fino al presente secolo, quello in accompagnamento a balli, sagre, matrimoni od eventi popolari in genere, in stretto legame ad un popolo che ancor ne vive le antiche origini, respirandone l’antropologica musicalità nel più sentito folklore.

Infine il sopravvissuto Baghèt bergamasco-bresciano, tradizionale cornamusa lombarda dalle incerte origini, con sacca in pelle di pecora o capra denominata baga, canna del canto (diana) a doppia ancia in canna palustre (pia) e due bordoni (orghègn) ad ancia singola (spoléta); negli anni addietro di globale diffusione lombarda, il Baghèt si è nel tempo circoscritto ai territori della val Seriana e val Gandino. Prezioso musicista bergamasco fu Giacomo “Fagòt” Ruggieri (1905-1990), ultimo suonatore della vecchia generazione dei “baghèter”, carismatiche figure di musicanti delle montagne che, nel periodo natalizio, han saputo deliziare adulti e bambini con delicato soffio di montagna librato nell’aria, fra antiche note vibranti sul sensoriale pentagramma d’ogni fanciullo.
 

Cuncordia a Launeddas
(Accumpangiamentu a is Isposus, Naschid’est, Anninnora)

 

Baghèt Band (Bergamo On Pipe, 2012)

 

Noi bambini di campagna s’aspettava il Natale con frizzante brama nell’attesa dei doni richiesti. Erano ancora tempi in cui attendere era preziosa prerogativa di gioia, quel fremente chiedersi se quanto richiesto sarebbe giunto e se il buon comportarsi avrebbe giocato a favore del ricevere.
Nei pomeriggi passati a casa dei nonni ci si alternava fra salti nella neve e scatoloni di statuine per il presepe, prima di posar le quali si andava insieme per sentieri a raccogliere profumato muschio d’adagiare in suolo ai pastori ed ai loro greggi, nel tragitto verso la capanna. Gli specchietti divenivano piccoli laghi nascosti nelle grotte create a corteccia e colorate lucine facevano capolino in piccole casette di cartone, forate sul retro per il passaggio del piccolo lume.

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Ma c’era un suono, unico, avvolgente, maestoso, che, poco prima del posar il bambin Gesù nel suo giaciglio, giungeva da bordo paese ed fiumi di campo parevano anticiparne il venire sull’eco delle gelide correnti invernali. Noi fanciulli si correva fuori dagli usci a gridar “Arrivano gli zampognari, arrivano gli zampognari!!!” ed acchiappata la mano dei nonni si correva estasiati a gustarne il musical fluire, inebriandosi i sensi. Gli uomini anziani si levavano il cappello in segno di rispetto, rendendone orfano il savio capo con la garbatezza propria dei tempi… gran ricchezza il sol poter assistere alla lor fine e nobile gentilezza, la stessa con la quale, in gesto d’estrema e riguardosa bontà, porgevano monete ai magnanimi suonatori, nell’insieme di quell’umanità che privilegio assoluto è stato il poterla semplicemente ammirare. Un incanto assaporato e ricamato sull’interiorità fra melodia e tradizioni, nel dolce cullarsi fra le proprie radici…
 
 

Seamus Ennis • Gartan Mother Lullaby

 

Rufus Harley • Chim Chim Cher-ee
(Live, 22.03.1965)

 

Rufus Harley Quintet (Washington, 1987)

 

Richard Parkes
(The Wise Maiden, The Devil in the Kitchen, Upside Down in Eden Court)

 

Gordon Duncan e Dougie MacLean • Barium Meal

 

Gordon Duncan e The Vale of Atholl Pipe Band

 

Anistratov project • Last tango in Harris
(Gordon Duncan)

 

Clanadonia • Ya Bassa

 

Scottish Power Pipe Band
(Hellbound Train, Wicked Train of Thought, Back On Track)

 

The Royal Edinburgh Military Tattoo, 2019

 
 
 
 

Immagine di copertina:
Pietro Paolini (Lucca 1603-1681), Suonatrice di tamburello e suonatore di zampogna.

 
 
 
 

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