Teresa Wilms Montt, storia cilena di passione e poesia
Teresa Wilms Montt fu anima in tumulto, avvolta da passione, luce e sofferenza, spirito anarchico e ribelle persin all’aristocrazia da cui proveniva, lasciando a regalità delinearle il volto a riflesso dell’essere, innata e dipinta negli occhi, enormi e profondi, abissi cristallini al pari dell’amore che amava, della libertà sentita, ascoltata, intrattenuta e animata contro il tempo vissuto e ogni a venire incapace di cambiare, tessendo sublimi trame vocabolesche, come note surreali cadenzate da piacere, dolore ed in tal vortice tuffandosi per catturar poetica e risorger cantando la vita e blandendo il morire; Teresa Wilms Montt: «la donna dannatamente ignuda contro il mondo stabilito, la grande fra tutto ciò che è piccolo, la bimba di fronte all’infinito».
Sono Teresa Wilms Montt
e anche se sono nata cento anni prima di te,
la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna.
È difficile essere donne in questo mondo.
Tu lo sai meglio di tutti.
Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita.
Ho distillato una donna.
Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me.
Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia.
Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia.
Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita.
Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà.
Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato.
Quando mi hanno picchiato, ho risposto.
Sono stata crocefissa, morta e sepolta,
dalla mia famiglia e la società.
Sono nata cento anni prima di te
comunque ti vedo uguale a me.
Sono Teresa Wilms Montt,
e non sono adatta per le signorine.
María Teresa de las Mercedes Wilms Montt, nacque l’8 settembre 1893 a Viña del Mar, la Ciudad Jardin che dalla costa cilena della Regione di Valparaíso si affaccia sull’Oceano Pacifico. I suoi erano genitori, Luz Victoria Montt y Montt e Federico Guillermo Wilms y Brieba, avevano entrambi ascendenza europea, catalana e germanica, famiglie particolarmente facoltose che una volta giunte in Sudamerica agl’inizi del XIX secolo avviarono imprese, strinsero contatti con figure influenti della società e infine fecero il loro ingresso sulla scena politica nazionale conquistando ruoli di alto prestigio, un potere perpetuatosi nel tempo in virtù di una dinastia che ha conosciuto fine.
Fra militari, accademici, avvocati, massoni, artisti, ambasciatori e ministri plenipotenziari in Argentina, Uruguay, Inghilterra e alla Santa Sede, contarono anche 3 presidenti della Repubblica: Manuel Francisco Torres, bisnonno della scrittrice, eletto nel 1851 e nuovamente a fine mandato nel 1861; Jorge Montt Álvarez, cugino di 3° grado, al Palacio de La Moneda dal 1891 al 1896 e infine il prozio Pedro Montt, in carica anch’egli per quattro anni a partire dal 1906.
Federico Wilms inoltre, era presumibilmente erede degli Hohenzollern, antica casata di principi, sovrani e imperatori tedeschi dal motto Nihil sine Deo e in quest’ambiente dovizioso e ufficiale lei crebbe con le sorelle Luz, Maria, Carolina, Anita, Carmen e Margarita, le Ondine del Reno com’eran chiamate per la bellezza, la cui educazione era affidata a governanti e precettori, maestri di buone maniere e altrettanto di pianoforte, canto, danza, lettere, lingue straniere, dal francese al portoghese, dall’inglese all’italiano.
Una culla dorata dalla quale Teresa rifuggì sin da bambina trovando muro nel codice imposto, scontrandosi con la severità della madre, ma consolando con la sua vivacità e ribellione all’etichetta, un padre avvilito dal non aver avuto un figlio maschio, lei per lui era bonariamente Mi Tereso, ma non poteva immaginar che avrebbe inciso il suo cognome nella letteratura, né tantomeno che fuori d’ogni debito protocollo si sarebbe innamorata.
Avvenne un giorno di fine estate del 1909, quando in occasione di uno dei tanti ricevimenti, a villa Wilms si presentò Gustavo Balmaceda Valdés, un giovane dipendente dell’Agenzia delle Entrate che da poco si era trasferito a Viña del Mar con i genitori, anch’essi esponenti dell’élite cilena; lo zio era l’ormai defunto Presidente José Balmaceda Valdés, per taluni visionario statista fautore di riforme e sviluppo, per altri dittatore e istigatore della guerra civile di fine Ottocento.
Fu l’incontro fra due cuori che non altro attendevano.
All’indomani lei gli fece trovar un fiore, dichiarando così un amore improvviso con un gesto puro e innocuo quanto inconveniente per leggi morali dell’epoca, e altrettanto folgorato rimase lui, che tornando a quel momento più tardi ne descrisse l’emozione:«La música de aquella voz; la seducción de aquella sonrisa, toda la gracia de aquél cuerpo adorable y adorado; todas las alternativas de ese carácter inquieto, y de ese temperamento delicado y profundamente sensitivo!».
Come prevede l’intreccio del romanzo, le famiglie tentarono di spezzare l’unione con ogni mezzo e il risultato fu che il 12 dicembre 1910, la diciassettenne Teresa Wilms Montt sposò il suo amato in una fugace e segreta cerimonia, per poi andar a viver con lui a Santiago. Nella capitale s’immerse libera da costrizioni nel mondo culturale che da sempre l’attraeva e per la prima volta non avvertiva la sensazione d’esser un’aliena atterrata sul pianeta sbagliato. Musei, teatri, concerti, partecipava ad assemblee di carattere sociale, frequentava milieu artistici attorniandosi di scrittori, musicisti, pittori, senza per altro mancar d’attirar su di sé l’attenzione, elemento però, che presto scatenò l’invidia e la gelosia di Gustavo Balmaceda.
Con il cervello in apnea sotto le onde dell’alcol, le serate cominciarono a chiudersi sempre più spesso fra insulti, minacce, percosse; ingiurie che Teresa sopportava limitandosi ad affidare le lacrime alla cameriera e intima Rosa Montes.
In lei batteva già il cuore di una creatura che vide la luce il 25 settembre 1911, Elisa, la cui nascita fu seguita dalla partenza alla volta di Valdívia, città del sud non distante dalla Temuco dove a breve, un giovane Pablo Neruda avrebbe pubblicato il suo primo e politico scritto firmandolo come Neftalí Reyes. Vi giunsero in pieno inverno e sebbene si trovasse in una realtà diametralmente opposta a quella appena lasciata, una sorta di esilio per Wilms, continuò a coltivare i suoi interessi cercando e facendosi conoscere nei circoli letterari, divorando i libri di Gustave Flaubert (1821-1880), George Byron (1788-1824), Stendhal (1783-1842), Honoré Balzac (1799-1850), Victor Hugo (1802-1885), del filosofo, scrittore e poeta Rabindranath Tagore (1861-1941) e soprattutto, lontano dagli occhi del marito, già critico e derisorio per il tempo che dedicava alla lettura, iniziò a scrivere e come il poeta cileno, lo fece utilizzando uno pseudonimo: Thérèse Wilms.
La Mañana***
(Los tres cantos)
Canta anima mia; canta la mattina!
Canta con gli uccelli, con gli alberi, i fiori e le acque!
Canta con il vento e la montagna,
con la foresta e la pianura illuminata dal sole,
che ti viene offerta come un’anfora d’oro traboccante di vita!
Canta anima mia, con il meraviglioso grillo di luce,
che abita nella corteccia dei pini
e con l’ape ubriaca di profumo;
canta con l’aquila solitaria nella cuspide delle rocce
e con la formica laboriosa nelle cavità della terra!
Canta con la farfalla dalle ali inquiete
come le palpebre di un bambino,
e con il verde rospo sul trono di ninfee
nello specchio dello stagno.
Canta con il raccolto e il grano dorato;
con frutti rosa, che si aprono come giovani labbra;
canta con il tenero agnello del gregge
e con la madre felice che lo ha dato alla vita!
Canta, anima mia, canta con l’anima gemella;
con la cara anima sorella che vibra,
piange e ride con te in un solo battito!
Canta con il candore gioioso del sorriso sincero
e dello sguardo trasparente
che riflette la serenità della sua dolce emozione!
Canta anima mia, e tendi le braccia all’amore raddolcito
che giunge al tuo grembo per trovar rifugio;
dagli riparo anima mia e desta la sua crescente potenza!
Canta con le lacrime di gioia
che fremono e scivolano come gocce di rugiada sui petali,
e con il bacio che timoroso s’insinua disegnando i veli del cuore
per cedere il passo all’aurora piena d’amore!
Canta, canta, canta, con la vita,
con le passioni del fuoco,
con le delizie floride;
canta con la gloria suprema degli spasmi condivisi
e con i languori che donano agli occhi
i toni del tramonto!
Canta anima mia e trasmetti all’inutile il tuo fuoco;
dagli la tua essenza, crea mondi,
profetizza meraviglia e gentilezza,
erigi un trono alla verità pura!
Canta e attraversa gli spazi con la tua voce musicale
e imponi silenzio sugli uccelli perché diano ascolto
alla parola dell’uomo savio e ferace!
Canta anima mia, canta
e bevi in un sorso il nettare mattutino;
canta anima mia, il cielo azzurro
e la campagna siano per te un baccanale
con la cui bellezza puoi ubriacarti!
Nel 1912 partirono nuovamente e stavolta per dirigersi a nord, verso Iquique, capitale della Regione di Tarapacá dove a fine Ottocento erano stati scoperti importanti giacimenti di salnitro, minerale adoperato in agricoltura e come componente principale della polvere da sparo e in breve tempo, la crescente domanda ne aveva fatto un centro nevralgico dell’economia nazionale, trasformandola in una città cosmopolita. Vi rimasero circa 3 anni albergando presso il centrale Hotel Phoenix, un periodo durante il quale Teresa Wilms strinse amicizia con il poeta Victor Domingo Silva, Luis Emilio Recabarren, con la dott.ssa spagnola Belén Zárraga, impegnata in Cile in numerose conferenze in cui affrontava temi quali il libero pensiero, la laicità, l’emancipazione femminile, ideali che colpirono e influenzarono la giovane scrittrice, sempre più vicina e consapevole dell’attualità del luogo.
Se da una parte il salnitro aveva portato espansione e progresso, dall’altra era causa di una condizione operaia disumana che nel 1907 era sfociata nella Matanza de la Escuela Santa María, quando alle proteste per un trattamento più dignitoso, il neo presidente Pedro Montt e il ministro Rafael Sotomayor Gaete, risposero ordinando al generale dell’esercito Roberto Silva Renard di aprire il fuoco sui circa 8500 contestatori uccidendone ufficialmente 195, numero considerato irreale da numerose secondo cui le vittime furono oltre 2000, i cui corpi, vennero poi gettati nella fossa comune del cimitero cittadino dopo averne certificato il decesso con la dicitura «morte per ferita di pallottola».
Teresa Wilms prese piena coscienza di quanto accadeva davanti ai suoi occhi, degli abusi, dell’estrema povertà in cui riversano troppi cileni e nonostante fosse area interdetta alle donne, cominciò a muoversi attivamente all’interno della politica, abbracciando tesi anarchiche, della massoneria, schierandosi dalla parte dei senzatetto, dei lavoratori nelle fabbriche di salnitro che proprio in quei giorni, sotto la guida di Recabarren avevano fondato il movimento operaio che più tardi sarebbe diventato il Partito Comunista del Cile. In tale fermento pensieri e sentimenti fluivano nella penna per continuare a tradursi nei diari, ma altrettanto nelle pagine di varie riviste iquiqueñas, dove iniziò a esprimersi pubblicamente firmando le proprie idee come Tebal.
L’amore e la prigionia
Il 2 novembre 1913, senza aver mai trovato pace dai continui maltrattamenti e neanche la forza per allontanarsi, vide la nascita della secondogenita, Sylvia Luz, una bambina cagionevole che Teresa accolse dopo un travaglio sofferto, manchevole del sostegno del marito, dei suoi genitori; una bambina che insieme a Elisa avrebbe perso nel baratro della gelosia. Irritato dalle prese di posizione anarco-sindacaliste e assillato dal sospetto d’esser tradito, Gustavo Balmaceda decise di riportarla a Santiago per scoprire come i suoi timori avessero ragion d’esistere in uno scambio di lettere che ella stava intrattenendo con Vincente, El Vicho, suo cugino e inseparabile amico che le aveva presentato a Iquique.
Il peccato della scrittrice fu portato davanti al tribunale presieduto dall’intera famiglia Balmaceda e dopo alcuni giorni di custodia cautelare trascorsi in una stanza tenuta sotto controllo da suocera e uomini della casata, la corte decise per la reclusione dell’imputata nel convento di Preciosa Sangre.
La scure della giustizia si era abbattuta su di lei, perché l’amore come la libertà hanno un prezzo e nell’ipocrisia del processo, come da prassi, non furono messe agli atti le violenze, la relazione di Gustavo con una ragazza di nome Nubia, né tantomeno che Teresa Wilms, conscia di ciò che il suo cuore stava provando aveva chiesto il divorzio, rimanendo però delusa nell’apprendere che il desiderio sarebbe rimasto inesaudito in quanto la separazione avrebbe potuto leder l’onore dei Balmaceda. L’umiliante prigionia, fisica e mentale, iniziò il 18 ottobre 1915, data in cui si vide privata del proprio respiro e di quello delle figlie tenute a distanza, un dolore che tenta di sostenere consegnandolo ai diari dove lascia il tempo scandito dalle campane, «suoni familiari» che le «sanno accarezzare intensamente il cuore», ma il successivo 29 marzo, l’afflizione prese il sopravvento e si tramutò in un suicidio tentato ingerendo una fiala di morfina.
El Crepúsculo***
(Los tres cantos)
Pregate anima mia, pregate!
Pregate per il pomeriggio morente,
per la campana del lontano convento
che lentamente nell’aria soffia il suo metallico gemito!
Pregate per le pecorelle smarrite
e per gli alberi veementi
che sporgono verso il lago
le loro ombrose chiome!
Pregate anima mia,
con l’uccello senza nido
e per la pupilla cieca
del pozzo abbandonato!
Pregate; pregate per il cammello esausto
nelle sabbie del deserto
e per il leone ferito nelle giungle;
pregate per i campi devastati
e le spighe senza grani!
Pregate per il dolore dell’abisso
e per la foglia spiccata!
Pregate per il carro senza ruote
abbandonato nel mezzo del cammino
e per la capanna in rovina che,
come anima del paesaggio,
rimase in attesa dell’uomo!
Pregate; pregate anima mia,
per l’orfano e per il vecchio mendicante;
pregate per i fiori che raccolgono i loro petali
per morire e con il sole,
il cui oro piangente
va calando dietro alla montagna!
Pregate affinché l’orizzonte si accinga a dar preannuncio di sangue
e le nuvole colme d’odio vadano in disgrazia;
pregate e inginocchiatevi anima mia,
pregate affinché regni la pace fra gli uomini e gli elementi;
affinché tutti uniti nella medesima volontà possano andare beati
verso la fine e rinascere con maggior energia e sapienza!
Pregate per coloro che non hanno nome,
ma che offrono il loro impeto e bontà
senza chiedere compenso né onori;
per il vecchio tremante che alla terra china il capo
portando in essa spirito primaverile!
Pregate, pregate anima mia,
per la povera donna innamorata
che per sempre ha visto il suo amato
addormentarsi fra le sue braccia;
pregate per lei, che ha vissuto la feroce realtà
del sentirsi inerme di fronte al potere dei suoi baci
e del suo amore per farne il calore della vita!
Pregate con i cuori squarciati che ululano dolore alle ombre
e debbono ridere alla luce del sole!
Pregate, pregate, pregate mia anima,
toccate la polvere con i vostri pensieri,
scongiurate malauguri, alleviate l’amarezza
e date la vostra essenza per giuste e nobili cause!
Pregate, è l’ora dei presagi, delle tetre apparizioni;
l’ora in cui nasce il destino degli uomini!
Prega contrita, mia anima; il dolore sta arrivando!
Il sole se ne va, e dalle ali delle farfalle morte
nascono fiori per le tombe.
Il sole se ne va. Desolata cala la notte,
portando in grembo il corpo privo di vita del giorno,
pallido, freddo, pallido, esangue….
Spietato e felino, il lupo insegue gli agnelli,
affilando i denti nella corteccia di alberi secolari
e martirizzando le foglie con i artigli feroci.
Rumorosi insetti volano da una parte all’altra,
si nascondono fra l’erbacce,
evitando l’ultimo raggio dell’astro d’oro.
Il sole se ne va. I patimenti vagano per il mondo
con volto affamato in cerca di cuori da divorare.
Il sole se ne va, e il sorriso del moribondo
va incidendosi sulla pietra indelebile dell’immortalità.
Il sole se ne va, e l’anima trema di terrore nell’oscurità.
Natura! Il bel viso s’avvizzisce e,
come le candele che vanno spegnendosi,
china la sua languida testa.
La voce, la sua voce allegra, si attenua;
le parole rotolano e un’eco cavernosa risponde nel mistero.
I suoi occhi, serbanti l’incanto,
ragion della mia vita,
si socchiudono privi di bagliore
e come tristi stelle mi osservano profondamente,
accomiatandosi.
Natura! Intendi, forse, negar il tuo sostegno
a questa grande anima
e lasciarla precipitare nel caos come un’ombra?
Ti canterò; madre mia, ti implorerò;
prostrata bacerò la terra in un prova d’umiltà.
Lascerò che gli uomini mi guardino con disprezzo;
accetterò il morso delle vipere
e il flagello delle loro viscide membra sulle mie spalle.
Riceverò volentieri il castigo di gelidi venti,
che s’insinueranno fin nel midollo
e nel mio cervello faranno il loro rifugio.
Chiederò ai fulmini e ai tuoni che sfoghino sulla mia fronte il loro furore.
Con voce piena implorerò il mare,
perché mi avvolga nell’ira delle onde,
e sin all’ultima goccia si liberi d’ogni amarezza.
Lascerò che il sole s’irriti sul mio corpo e lo faccia carbone;
mi rassegnerò a esser combustibile per fiamme maligne.
Rinuncerò alla mia coscienza, e sarò umile bestia,
con gli occhi rivolti a terra, in attesa di orrende torture.
Sarò un’entità, un nulla, futilità; ma lascia ch’ella viva,
respiri, riceva la solenne benedizione di tutto ciò che racchiudi,
Natura onnipotente!
Il gesto sconvolse il convento e perché non si ripetesse, anziché ridonarla alla vita la rinchiusero in una cella. Ne uscì a giugno, dietro autorizzazione concessa dal marito unicamente per darle modo di recarsi dai genitori e invocar dunque anche il loro perdono. La grazia che le avrebbe permesso di espiar la colpa però non arrivò, la madre Luz Victoria si rifiutò di darle sostegno e a quel punto Teresa Wilms comprese che la fuga rappresentava la sola possibilità per metter fine all’incubo, anche se tale decisione le avrebbe impedito di stringer a sé le piccole figlie. Un patimento accompagnato da un senso di colpa maturato dall’esperienza vissuta, che l’aveva portata a creder di non esser degna di loro, rassegnandosi quindi all’idea di non poterle aver a fianco.
L’occasione di presentò quello stesso giorno. Il padre di nascosto le offrì quantomeno una somma di denaro, dopodiché, ad aiutarla a lasciare il Paese, il poeta e amico Vincent Huidobro in partenza per l’Argentina per tenere una conferenza all’Università di Buenos Aires e quando dal convento giunse notizia della sua assenza, i due erano già oltre confine.
Teresa Wilms Montt: Inquietudini sentimentali
La Regina del Plata la accolse con calore e ammirazione, «tutti volevano incontrare quella giovane – scriverà più tardi Joaquín Edwards Bello della rivista Sucesos de Valparaíso – distaccata come gli arcangeli e i nichilisti, bella e forte, con occhi meravigliosi anche se un po’ indifferente all’amore e con qualcosa di mascolino nella personalità».
Teresa Wilms tornò rivivere le atmosfere di Santiago, si esibiva al pianoforte o alla chitarra durante eventi culturali, era tornata ad esser amata e stimata, la sua penna prese a scorrere su Nosotros, rivista fondata da Roberto Giusti e Alfredo Bianchi nel 1907 e andata in stampa fino al 1943 occupandosi di filosofia, storia, arte, letteratura, registrando grande seguito in tutto il Sudamerica. In questo clima, nel 1917 pubblicò l’antologia di poesie Inquietudes Sentimentales, seguita dalla lirica Los Tres Cantos.
XLVIII*
(Inquietudes Sentimentales)
Ombre furtive che entrano dalle persiane serrate
hanno decorato il mio soffitto con il capriccio di un’artista.
È una città pigmea che ha come unico abitante
un fragile ragno con zampe di spillo.
Il fumo dei legni di sandalo, che ardono in un angolo,
finge forme di snelle ballerine
che si allungano azzurrate fino a spezzarsi come elastici.
Una maschera cinese muore dalle risate contro il guardarobiere.
Bisbigliano i ritratti impauriti da tanta immotivata ilarità,
attenti a non essere sentiti dal cappello
che si torce sulla poltrona come una testa appena sgozzata.
Sbadigliano i cassetti del comò,
mostrando la bianchezza delle camicie
e tirando fuori la lingua rosa delle cinte,
mentre il pizzo del letto,
sostiene un’abbronzata polemica con un paio di scarpe
che protestano indignate per l’ebrietà dei loro tacchi.
Un guanto fa strani toporagni contro la parete;
ha le stesse contrazioni degli agonizzanti tra le lenzuola mortuarie.
La città del mio soffitto si è oscurata,
il tremulo ragno è andato a nascondersi tra i fili
che pendono come un’amaca all’uno e all’altro cornicione.
Tutti gli eroi della novella
che vagano confusi nell’ombra,
hanno rovesciato gli scaffali cercando le pagine dei loro libri,
come tornano le anime al cimitero quando il giorno rispunta.
Nella testa del Niente si è suicidata un’idea.
VII**
(Inquietudes Sentimentales)
Due seni pallidi e inquietanti insieme; occhi rapiti
di lubricità, e una carezza impudica e carnale,
di traverso al mio passo e al mio cammino.
E una voce dal suono indefinibile,
come il duro singhiozzo di un bambino,
che mi sussurra: Vieni! Io sono l’eros.
Ed io andavo seguendo questa menade folle, come
un lembo d’acciaio segue la calamita.
Avanzavo sospinta dal mistero…
S’eran fatte di ghiaccio le mie labbra,
chiusa la gola da sbarre di ferro.
Il mio sguardo era lucido d’umore,
gli occhi raggianti come pietre alcoliche…
E ritornai, le labbra insonnolite,
gli occhi accecati e trepide le mani
contro se stesse in orrido conflitto,
assetate di scempio e, nel mio cuore,
una sorta di marchio rosso fuoco,
denso della più amara delusione.
Ma io non ero lì: non mi porgeva,
la baccante folle, alcun rimedio per il mio mal d’amore.
Entrambe raccolsero il favore della critica, ma come tutto il resto non l’aiutarono a colmare il vuoto della solitudine, dell’amore perduto e i fantasmi aumentarono quando ad agosto dello stesso anno, l’amante Horacio Ramos Mejia, un aristocratico di 19 anni stregato dal fascino di Teresa Wilms, al vedersi non ricambiato dal medesimo sentimento, fu colto da una tale disperazione che si tolse la vita tagliandosi le vene.
L’episodio non poté che turbare profondamente la scrittrice, erano stati amanti e lei ne aveva fatto anche poesia chiamandolo Anuarí e adesso sentiva di dover scappare ancora per non soffocare e così decise di lasciare l’Argentina per raggiungere l’Europa e contribuire al fronte come volontaria nella Croce Rossa. Per farlo volle prima far tappa a New York per «compier i passi necessari», far pratica in un ospedale, e il 1°gennaio 1918 s’imbarco sulla nave Vestris, ma durante la traversata, ebbe un nuovo crollo e solo per l’intervento di un passeggero non riuscì a compiere il suicidio:«Dopo alcuni istanti di serena follia, evocai la morte. Mi a tirando fuori le braccia Dalle rifulgenti scaglie dell’oceano tirò fuori le braccia e la sentii chiamarmi con flebile voce. I suoi occhi neri, penetranti e attraenti, aprirono ai miei piedi il largo pendio del vuoto».
Giunta a destinazione, come ogni immigrato fu sottoposta a controlli medici e legali presso Ellis Island e i capelli biondi, la carnagione chiara, l’azzurro che tinteggiava le iridi, l’alta statura e infine il cognome, ne fecero una spia tedesca e solo dopo 2 giorni di detenzione e incessanti interrogatori fu dichiarata innocente.
La disavventura in terra americana la spinse a cambiare i piani e scelse di andare a Madrid. Nella capitale spagnola i suoi scritti non tardarono a procuragli il dovuto riconoscimento e la stima di letterati come García Lorca, Ramón Gómez de la Serna, Azorín, il poeta futurista Guillermo de Torre, sotto il sole spagnolo ritrovò anche il compagno di fuga Huidobro e come una figlia fu amata da Ramón del Valle-Inclán, che la chiamava Mi niña Chole, come la protagonista della sua Sonata di Primavera. Dopo pochi mesi dal suo arrivo, dalla casa editrice Blanco, fu stampato il suo terzo lavoro, En la quietud del mármol, e l’anno successivo, Anuarí, un monologo interiore, un’elegia in memoria del giovane la cui tragica scomparsa lo tramutò in amore unico.
V***
(En la quietud del mármol)
Anuarí, ti evoco addormentato
e t’immagino in un sonno eterno.
Un’ombra, si diffuse soavemente sulla mia anima,
l’ombra divina delle delle tue ciglia,
che formavan vellutate ali di farfalla,
sotto i tuoi occhi.
Sì, Anuarí.
Una notte, la più beata della mia vita,
sulla mia spalla riposò il tuo volto,
ed era così intimo il piacere,
che del mio respiro ho fatto musica per cullarti.
Ti addormentasti, mia creatura,
dopo aver stretto la mia mente e il mio cuore,
con avide labbra di gioventù,
com’un’ape bramosa di nettare e profumo,
e le tenebrose tue ciglia,
son cortine che mi occludono la luce del sole,
e in vertiginosa confusione
mi levano alle soglie del tuo Paese solenne.
Una notte,
la più lieta,
la più sublime della mia vita,
la tua fronte si posò sul mio seno,
e lì raccolse la delizia del sogno,
vi raccolse il sogno delizioso,
e il giaciglio dell’eternità.
XVI***
(En la quietud del mármol)
Anuarí…
Ti ho portato quest’oggi un fascio d’immacolate peonie.
Al posarle sul feretro,
mi parve che il cielo piovesse stelle su di lui
e un delirio di meraviglia mi ha impossessata.
Volli unire le labbra ai bianchi petali,
e dalle volte della mia anima scesero baci,
un’infinità di baci d’amore sul corpo sognante.
La fragilità della tua tomba,
s’insinua nella mia mente,
come un bagno di rose,
ravvivandola con aneliti di passione.
Purificata è la mia carne
dalla pura aurora dei tuoi avi
che riposano accanto alla tua salma.
Anuarí, mia creatura.
A fine estate, desiderosa di riveder Elisa e Sylvia fece ritorno a Buenos Aires, dove con lo pseudonimo di Teresa de la ✝, pubblicò Cuentos para los hombres que son todavía niños, ma non trovò la forza di andar in Cile, una ricongiunzione voluta anche per depositar fiori sulla tomba della madre scomparsa un anno prima; le dedicherà Con las manos juntas. Senza tregua rientrò in Europa, a Londra, ma accusata di bolscevismo venne nuovamente arrestata e poi espulsa dal Regno Unito, così tornò nella penisola iberica e viaggiò attraverso Siviglia, Cordova, Granada e infine arrivò in Francia, stabilendosi a Parigi e all’ombra della Torre Eiffel intraprese una collaborazione con la rivista La Guirlande e fu accolta da Marx Ernst, André Breton, Arthur Rubinstein, Paul Éluard, ma soprattutto, rivide le bambine.
José Ramón Balmaceda per impegni diplomatici giunse con tutta la famiglia nella capitale francese e a Teresa Wilms Montt fu concesso di aver con loro due giorni alla settimana. Sylvia, ricorderà così l’incontro: «La prima volta che l’ho vista, a Parigi, è stata una grande sensazione. Avevo 6 o 7 anni, con mia sorella e mia mamma stavamo attraversando gli Champs Elysées, quando un taxi si fermò e una donna con un cappellino nero ci chiamò. Ci avvicinammo. Ne fissavo l’immensa bellezza. Aveva occhi incredibilmente profondi. Non sapevo che fosse mia madre. Venne ad abbracciarmi e mi disse: “Amore mio, sono tua madre!” Poi, nell’hotel dove viveva, cantava, rideva. Era pazza di gioia per averci noi». (Ruth González-Vergara, Teresa Wilms Montt: Un canto de libertad)
L’incanto si spezzò un anno dopo, quando i Balmaceda rientrarono in Cile e la partenza, la separazione dalle figlie che smise mai di corroder l’anima della scrittrice, si fece angoscia insostenibile e pochi mesi dopo, mise fine alla sua vita affogandone per sempre i tormenti con un overdose di barbiturici, il Veronal. Trovata agonizzante da un’amica, fu vanamente trasportata all’ospedale parigino Laënnec, dove il 24 dicembre 1921, incontrò il morire che sentiva esser «qualcosa come immergersi in un bagno caldo durante le notti ghiacciate».
L’anima mia si volse verso il cielo implorando il riposo così atteso
Nei diari come nei poemi, musa e poeta, donna e asceta, Teresa Wilms Montt raccontò la carne e la penna, dall’infanzia all’età mai raggiunta, dalla speranza alla malinconia fino alla notte, non tenebra, ma sorella alla quale sempre si rivolse in cerca di sollievo e più ancor dell’istante mistico in cui suono e silenzio, s’avvolgon e uno divengon, essenza del sacro.
Amo il Nulla, perché il Nulla è Tutto, e il Tutto sono io quando penso e amo.
La Noche***
(Los tres cantos)
Il cielo diventa più fragile nella terra dei dormienti;
ha tonalità stupefacenti che si offrono con umile morbidezza alle fossa,
e nel sole c’è meno desiderio di irradiazione,
più dolce nel suo oro che nei campi,
dove ritorna brillante,
come fiamme ravvivate dal vento,
alle spighe mature.
Ho sentito parlare coloro che se ne sono andati,
è un mormorio carezzevole; provo invidia.
C’è tanta bellezza nella semplicità e nel gelo.
Ogni defunto è un blocco immacolato di neve
che diffonde la sua bianca serenità
come una maestosa moltitudine di perdono e oblio.
Ogni defunto è profonda, immutabile bontà.
Ogni defunto è esempio di silente abnegazione.
Lì, tra i morti, trovo il mio spirito,
ed è con loro che condivide la sua profonda tenerezza.
È con loro che si sente forte ed è per loro che si arrende senza timori,
dolcemente, come un devoto al suo Dio.
Miei defunti; sublimi amori.
Vivrò tra voi; sarò un’estrosa dormiente senza gelidi sogni,
ma nel suo glaciale riposo.
Sarò madre di tutti, con le braccia cariche di fiori,
quei fiori che non potete cogliere con vostre algide dita.
Sarò la sposa vergine che vi darà tutta l’intensità
del suo dolore puro fra lapidi e pietre.
Sarò il vostro giorno, il vostro sole, la vostra notte di luna piena.
Oh, miei defunti! Nessuno verrà a togliermi questo privilegio;
i vivi hanno così tanto da dimenticare nella loro lotta per gli onori.
Essi non sanno che nel vostro paese si trova la chiave dell’enigma.
* Traduzione di Emilio Capaccio
** Traduzione di Cristina Sparagana
*** Traduzione di Giuliano L. Landini
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