Taras Hryhorovyč Ševčenko, anima poetica ucraina
Pittore, umanista, scrittore e poeta ucraino, Taras Hryhorovyč Ševčenko nacque il 9 marzo del 1814 nel villaggio di Morynči — oggi appartenente alla regione ucraina Oblast’ di Čerkasy, mentre all’epoca nel Governatorato di Kiev dell’Impero Russo (1721-1917) — da genitori servi della gleba, precoce dipartita degli stessi lasciandolo orfano appena dodicenne, il ragazzo fin da piccino dedicandosi ad innata passione nel disegno ed apprendimento della lettura essendogli possibile per mezzo d’un precettore, nel 1928 il divenuto adolescente trasferendosi al seguito del proprio signore — Pavel Engelhardt — a Vilnius e di lì a un triennio ambedue spostandosi a San Pietroburgo, ove Taras intraprese un quadriennale percorso di studi in tecniche pittoriche sotto la guida di Vassili Širiaev, grazie al sostegno di Pavel, a cui non era sfuggita la naturale indole del giovane, nella vasta cittadina russa Ševčenko avendo modo d’avviare preziose frequentazioni in ambito artistico, fra le quali quella con l’illustratore, pittore e docente Aleksej Gavrilovič Venecianov (1780-1847) e sulla scia delle affabili conoscenze per lui presentandosi fausta occasione d’incontro con il magnanimo pittore Karl Pavlovič Brjullov (1799-1852), colui che, in una sorta di consacrazione alla profonda e sincera amicizia concretizzatasi con Taras, ne sciolse le catene di servitù acquistandone liberazione il 5 maggio 1838 e nella medesima annata accogliendone frequentazione del suo laboratorio presso l’Accademia delle Arti, per due volte Ševčenko ricevendo medaglia d’argento in onorificenza ad una coppia di dipinti.
Furono invece il 1840 e il 1841 a materializzar in opere il fine e sensibile talento per la scrittura da Taras coltivato nel tempo, rispettivamente vedendo pubblicazione una prima antologia di poesie titolata Kobzar ed il poema epico Haidamaky, al contempo terzo distintivo argentato premiando nuovamente un suo quadro, frattanto egli saggiandosi nella stesura di libretti teatrali e nostalgico eco in petto della patria natia calamitandone errante passo fra 1843 e il 1846, periodo durante il quale tre viaggi lo riportarono nell’amata Ucraina, pulsandogli il cuore poter riabbracciare i propri parenti, nutrendogli cultura molteplici amicizie ivi sorte in ambito scrittorio ed intellettuale e purtroppo struggendogli animo le affliggenti condizioni esistenziali del mondo contadino, l’accorato Taras Ševčenko concretizzando legame con la propria terra nell’incidere in una raccolta d’acqueforti le più belle opere architettoniche ucraine e nel corso del suo terzo viaggio amichevolmente relazionandosi con lo scrittore e storico Nikolaj Ivanovič Kostomarov (1817-1885), significativo leader del movimento separatista ucraino nonché iniziatore della Confraternita dei Santi Cirillo e Metodio, organizzazione segreta nata nel 1845 — operante a Kiev nel sentito intento di liberalizzare il tessuto socio-politico dell’Impero Russo in base ai principi di cristianesimo e slavofilismo, ovvero la corrente filosofica, politica e letteraria russa sorta nel diciannovesimo secolo e volta al riaggancio di valori della Russia agreste e patriarcale, in aperta antitesi all’Europa occidentale — e dal governo zarista prontamente annullata nel 1847, con conseguente prigionia o esilio per i suoi adepti, fra i quali venne catalogato lo stesso Taras, sebben non esistesse certezza che fosse membro della soppressa congregazione, tuttavia ad inchiodarlo il ritrovamento, durante una perquisizione, d’un suo poema le cui pagine riportavano biasimevole riprensione nei confronti della politica imperiale, pertanto all’autore, ritenuto ideologicamente nocivo, imponendosi forzata partenza come soldato semplice ad Orsk, nella guarnigione di Orenburg, in aggiunta ad umiliarne la già sfregiata dignità l’assoluto divieto, da parte dello Zar Nicola I (1796-1855) — di porre mano a penna e setola.
Graziato dopo un decennio, a Taras Ševčenko venne comunque impedito rientro, il malinconico esiliato con malavoglia domiciliandosi per circa un biennio a Nižnij Novgorod, perlomeno fin al 1859 allorquando autorizzazione non gli permise di finalmente varcar confini del Paese natale, sennonché dopo soli quattro mesi infondate e menzognere insinuazioni di blasfemia non ne provocarono cattura, celere rilascio e susseguente obbligo di condursi a San Pietroburgo, l’ispirato Taras trascorrendo l’ultimo segmento del proprio arco esistenziale totalmente dedito pittura, incisioni e poesia, struggente pathos fissando fra tela, carta e metalli, fin al battito ultimo in petto, rintoccato — ad un giorno dal tagliato traguardo dei quarantasette anni — il 10 marzo del 1861, per sua intima volontà l’esanime corpo, dopo una prima sepoltura in suolo russo, amorevolmente accompagnato dagli amici nella tanto desiata Ucraina e riguardosamente adagiato nei dolci terreni collinari nei pressi di Kaniv, ad un centinaio di chilometri dalla cittadina che quasi mezzo secolo prima ne aveva accolto respiro, per un fugace soffio temporale egli non potersi appagare della raggiunta Emancipazione dei Servi della Gleba, ufficialmente dichiarata ad una settimana dalla di lui scomparsa, con conseguente e sacrosanta libertà all’incirca quaranta milioni di contadini.
Sensibilmente percettivo, generosamente benevolo ed artisticamente poliedrico, Taras Ševčenko è tuttora ritenuto imprescindibile fondamento della moderna letteratura ucraina, le opere da lui redatte riferimento primo sia a livello letterario che linguistico e l’immane patrimonio culturale lasciato in eredità al proprio popolo — e non solo — riecheggiando oltre tempo ardentemente intriso d’inesauribile valore umano e, come tale, liberatoria pira infiammante le coscienze d’un’intera nazione, il suo stile fin dall’uscita di Kobzar, smisuratamente entusiasmando il connazionale economista, traduttore, attivista politico socialista, scrittore, poeta, giornalista e critico letterario Ivan Jakovyč Franko (1856-1916) il quale — all’assaporarne l’elegiaco componimento — lo elogiò definendolo depositario d’una «chiarezza, respiro ed eleganza di espressione artistica sconosciute precedentemente nei componimenti ucraini», una poetica screziata di Romanticismo e indissolubilmente amalgamata di personale sentire, visceralmente sciolto in inchiostro a ricamar urlanti concezioni socio-esistenziali fervidamente devote ad un’identità nazionale assolutamente inviolabile ed in fede alla stessa Taras inconsapevolmente fornendo ai postumi i basamenti del moderno linguaggio ucraino — al pari di come il sommo Dante Alighieri e l’eccelso Francesco Petrarca fecero con la lingua italiana — e in lui ispirazione legandosi ad un concetto di fratellanza, comune a svariate Confraternite ucraine sul finir del sedicesimo secolo ed allegorica estrinsecazione in sé custodente l’insieme degli assunti etico-politici da Ševčenko incastonati nei testi in maniera zelantemente analitica e sorprendentemente attuali in taluni aspetti, risultando pertanto impossibile addentrarsi nei suoi scritti — sian essi prose o poesie — con la pretesa di comprenderne il significato intrinseco al netto del tal concetto, dacché una fratellanza da Taras germinata in parole a livello sistemico e fattasi seme germogliante in ogni singolo individuo, dall’uno all’altro balzando e di parola in parola, di mente in mente nutrendosi nella speranza di un riformismo sociale che — allora come ora — annienti ingiustizie e dissemini amor trasversale in ciascun cuore.
Suonatore di bandura
Suonatore di bandura,
possiedi fortuna, fratello:
hai le ali, il potere
puoi librarti in cielo,
allora vola in Ucraina,
vai desiderando,
io vorrei andar con te,
ma chi mi accoglierebbe?
Qui, sono solo e straniero,
ma in Ucraina sono orfano,
caro mio,
ecco il mio destino…
e il cuore, palpitante duole,
perché?
Anche lì v’è solitudine…
…ma l’Ucraina…
Steppe, cielo, Sole…
Quando il vento soffia,
parla da fratello;
Laggiù, nella vastità dei campi
dimora la libertà;
Laggiù, l’azzurro mare
splende in lode a Dio
e placa i tormenti.
I monti gemono,
al vento sussurrano:
«Quanto passato, non tornerà».
Laggiù volerei, vorrei ascoltarli
dolermi con loro….
Ma il destino mi travolse
gettandomi tra gente estranea.
San Pietroburgo, 1840
Il cuore mio
Perché tanto soffre, s’angustia
e piange il cuor mio,
geme e urla come un bimbo affamato?
Cuore mio travagliato,
cosa speri, che cosa t’addolora?
Vuoi bere, mangiare, o vorresti riposare?
Addormentati, cuore mio, nei secoli riposa,
spoglio, spezzato
e le persone dissennate
lasciale alla loro furia.
Chiudi gli occhi, cuore mio.
San Pietroburgo, 13 novembre 1844
Incantesimo
Incantami, vecchio mago,
Amico dai grigi baffi,
tu già sigillasti il cuore,
ma serrare il mio,
m’intimorisce,
paura m’assale di rovinare ancora la casa bruciata.
Ho ancora paura, caro mio,
di seppellire il cuore.
Chissà, potrebbe tornare la speranza
con l’acqua salvifica e corroborante
d’una lacrima, seppur minuscola.
Chissà, potrebbe tornare dall’altro mondo
a svernare nella casa abbandonata,
ed almeno dentro imbiancarla.
Accenderà il fuoco, la scalderà,
la illuminerà,
magari si desteranno di nuovo
i miei fanciulleschi versi e forse
ancora una volta pregherò,
piangendo insieme ai piccoli;
forse ancora una volta il sole di giustizia
almeno in sogno rivedrò.
Sii per me fratello e pur giocandoti di me,
dimmi cosa fare:
Forse pregare, angustiarmi,
altrimenti rompere il cranio?
San Pietroburgo, 13 dicembre 1844
Sogno
(Commedia)
«Rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità,
che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce».
Giovanni, 14, 15-21
A ciascuno il suo destino
e la sua ampia strada:
chi costruisce e chi annienta,
chi con insaziabile brama
oltre i confini del mondo scruta,
quando non trova paese da saccheggiare
e da portar con sé nella bara.
Chi nasconde l’asso nella manica
e il compare deruba nella sua dimora;
mentre un altro, in penombra,
affila la lama destinata al fratello.
Poi chi, lucido, pacato e timorato di Dio,
di soppiatto s’insinua e come un gatto
attende l’istante
per affondare gli artigli nel ventre.
Non pregarlo:
non dei fanciulli, non di donne
ne muoveran l’animo alla compassione.
Poi ancora c’è quello che
innalza santuari su santuari
e tanto ama la Patria e per essa s’affligge,
che su di lei fa scorrere sangue come fosse acqua!
E i fratelli, in silenzio e con gli occhi sbarrati
restano fermi, inerti come agnelli:
«Lasciate – dicono – magari in tal modo si deve».
Esatto, così di deve!
Dacché non c’è Dio nel cielo!
E sfiniti dal giogo, la gente implora
un qualunque paradiso nell’altro mondo.
Non esiste! Non esiste!
Sono energie gettate, dunque riprendetevi:
tutti al mondo, eredi di zar o di mendicanti,
son figli d’Adamo.
Quello…l’altro…Ed io?
Una brava persona: mi diverto, banchetto,
sia nei giorni di festa, sia di lavoro,
mentre voi vi tediate! Vi lamentate!
Per Dio, non ascolto.
E non gridate!
Io bevo quanto mi dà il mio sangue e della gente.
Sicché di notte, ubriaco e di ritorno da un banchetto,
ragiono e cammino lungo le siepi trascinandomi fin alla mia dimora.
Dove non urlano i bambini, né una moglie,
impera il silenzio come in paradiso
ed ovunque la grazia di Dio;
nel cuore, tra le mura,
e così mi distesi.
E quando l’ebbro s’assopisce,
nemmen il ruggire dei cannoni lo desta.
Ed ecco che un sogno, estremamente strano,
m’apparve.
L’uomo più sobrio si sarebbe ubriacato,
l’ebreo avaro ebreo una grivnia avrebbe donato,
pur d’osservar tal prodigio.
Vedo una civetta volare sui prati,
sulle rive, sulle foreste, sopra i baratri,
sull’infinite steppe, le gole boschive
e io, congedatomi dal suolo,
dietro di lei, volo…
Addio mondo, addio terra ostile,
i tormenti, le angosce, nascondo in una nuvola
e da te, mia Ucraina, sola infelice,
volerò e dalle nubi ti parlerò,
mestamente e piano,
ascoltando di te i consigli;
finché a mezzanotte cadrò,
come profluvio di rugiada.
Scambieremo sussurri,
soffusi, fin al sorgere del sole,
fin all’insorgere dei tuoi figli contro il nemico.
Addio, madre mia, madre dolente,
offri nutrimento ai pargoli: giustizia e verità appartengono a Dio!
Voliamo e già s’infiamma l’alba all’estremità del cielo,
l’usignolo canta alle ombre del bosco e il Sole saluta.
Lento soffia il vento sulla steppa, sul prosperar dei campi,
e i salici verdeggiano nei terreni scoscesi, attorno agli stagni,
rami si piegano al maturar di frutti e i pioppi s’ergono
come fossero guardiani e meraviglia avvolge l’intero Paese,
rigogliante, di rugiada s’irrora, si terge
e va incontro al Sole…
Né inizio, né fine ha il mondo!
Nessun deve offrirgli cura e nessun può dargli rovina…
Così è anima mia, dunque non piangere,
non t’affliggere povera anima mia.
Cosa t’opprime? Non vedi,
forse non senti degli uomini i tormenti?
Ascolta ed osserva,
volerò in alto, oltre le nuvole blu,
dove non esiste potere, condanna
e della gente non rimbombano risa né pianto.
Invece guarda, nel paradiso che lasci
allo storpio ruban le vesti rattoppate,
gliele strappan con le pelle
perché dia calore ai prìncipi;
la vedova, per riscuoter dazio,
crocifiggono e suo figlio,
l’unico suo bambino e speranza,
lo catturano, incatenano e infine arruolano!
E laggiù, vicino alla recinzione, una creatura dal ventre gonfio,
muore di fame, mentre la madre,
serva, miete per il padrone.
E poi là, vedi? Occhi! Occhi, a cosa servite,
perché non vi siete prosciugati nell’infanzia,
svanendo con le lacrime?
Più vicino,
una ragazza avanza zoppicando ed a piedi nudi
col suo piccolo bastardo, ripudiata dai genitori,
emarginata e ripudiata perfin dai mendicanti.
Ma il giovane suo padrone, neanche maggiorenne,
nulla sa e con la ventesima
[anima da vendere ottenendo denaro da dissipare n.d.A.]
dilapida i propri schiavi!
Chiedo, allora,
dalla sua nuvola Dio scorge le nostre lacrime e dolore?
Probabilmente sì, ma l’aiuto offerto
è come l’antiche montagne
tinte d’umano sangue!…
Povera anima mia! D’ogni dolore pervasa.
Ubriachiamoci di veleno
ed assopiamoci sul ghiaccio,
inviando a Dio il nostro pensiero,
per aver risposta al nostro dilemma:
Quanto ancora i carnefici domineranno la Terra?
Vola, pensiero, mio profondo tormento,
porta con te le angosce, tua congrega,
con esse sei cresciuto ed hai amato,
le lor mani pesanti t’han fasciata.
Raccoglile, vola
e disperdi l’orda nell’immensità del cielo.
Che s’oscuri, rosseggi, sbuffi fiamme e serpenti,
dei cadaveri si coperta la terra.
E senza di te, in qualche luogo,
nasconderò il mio cuore —
e poi, cercherò un angolo di paradiso,
distante dai confini del mondo
e ancora volerò, di nuovo abbandonando la terra,
dicendole addio.
È difficile, lasciar una madre
in una dimora priva del tetto
e ancora più dolente, è guardare
lacrime e stracci.
Volo, volo, il vento soffia
innanzi a me biancheggia la neve;
intorno s’estendon pinete e paludi,
nebbia, nebbia e spazi deserti.
Suoni di persone non s’odono,
né traccia si vede d’umana orrenda orma.
Nemici e non, vi dico addio,
mai più vostro ospite sarò!
Festeggiate, bevete,
le vostre urla non mi giungeranno,
giacerò solo, nei secoli, sui nevai
e fin quando non saprete
dell’esistenza d’un luogo non lambito
da sangue e lacrime,
riposerò…
Ma sento, sento
sferragliare catene sotto terra.
Guardo…
Infami!
Da dove arrivate?
Cosa fate, cosa cercate nelle profondità?
Ormai nemmen in cielo troverò riparo!…
Perché tale condanna, perché
m’obbligate a simili atroci sofferenze?
Recai forse offesa a qualcuno?
Le cui pesanti mani al corpo m’incatenano l’anima,
incendiano il cuore e come stormi di corvi
disperdono nei cieli i miei pensieri?
Per quale peccato sono condannato e
punito tanto amaramente?!
E quanto tempo mi servirà per espiar colpa?
Quando giungerà la fine?
Non vedo fine.
Landa desolata s’agita.
Come da una bara angusta,
nel terribile Giorno del Giudizio
risorgono i morti a chieder verità.
Ma defunti non sono, gli uccisi
che invocano il Giudizio Universale!
Sono uomini, uomini vivi, incatenati.
Traggono dalle caverne l’oro,
e nella gola dell’insaziabile lo gettano.
Sono prigionieri, ma per quale crimine?
L’Onnipotente lo sa,
o forse persin Lui è ingannato.
Laggiù, un ladro
marchiato trascina le catene;
dall’altra parte un brigante torturato
digrigna i denti,
intenzionato a sgozzare un criminale suo compagno!
Fra tali impenitenti però,
coperto di catene,
v’è il Re dell’Universo, il Re della Libertà,
il Re dalla corona che ne marchia le tempie.
Nel tormento, nella prigionia,
non supplica, non piange, non geme!
Il petto ha incendiato di bontà
e niente potrai mai raggelarGli il cuore.
Dove sono i tuoi pensieri, rosei fiori,
figli ben curati, arditi, amati?
Amico, a chi li hai dati?
Giacciono forse negli abissi del tuo cuore?
Non tenerli nascosti, fratello!
Bensì lasciali correre!
Sorgeranno e cresceranno e dalla gente, andranno!
Ma quanto ancora durerà questo supplizio?
Preferibile fermarsi, fa freddo e
il gelo desta la mente.
E di nuovo volo, l’oscurità ammanta la terra,
si rilassa l’intelletto mentre si strugge il cuore.
Osservo: edifici sulle le strade, villaggi e centinaia di chiese,
nelle città, come guidi marciano i soldati,
pasciuti, con catene e stivali sfilano.
Guardo oltre: nella valle, come in una lugubre palude,
la città vagheggia e su di essa
una nuvola nera incombe,
nebbia pesante — Là mi dirigo in volo…
È una città senza fine.
Turca, tedesca?
Forse moscovita.
Palazzi, santuari,
grassi borghesi,
nessuna traccia d’una semplice dimora di legno.
Calò la notte…i fuochi toccavano i cieli,
intorno a me, fiamme.
Ho provato timore…
«Urra! Urra! Urra!» — gridarono!
«Silenzio, stupidi, contenetevi!
Perché diamine gioite?
Vi piacciono le fiamme?» —
«Guarda che follia, è una parata!
Lo zar in persona e si gongola persino».
«Ma dov’è questo grand uomo?»
«Laggiù, nel palazzo laggiù!»
Avanzai, finché, bontà sua,
un compaesano, con bottoni di latta,
mi riconobbe:
«Da dove spunti?»
«Dall’Ucraina».
«E perché nemmen sai come qui si parla?»
«Al contrario — dico — ben conosco la parlata, ma non voglio».
«Strano soggetto! Comunque, prestandovi qui servizio,
le strade non han segreti per me,
quindi se vuoi, posso portarti nel palazzo,
però sappi fratello, siamo gente illuminata,
dunque non lesinerai neanche una moneta…»
Via, schifoso
Calamaio…e di nuovo mi resi invisibile
e mi spinsi nel regal edificio.
O Signore Onnipotente!
Qual paradiso! Oro ovunque.
E finalmente arriva lui, alto, arcigno
cammina; al suo fianco la sciagurata zarina,
un piccolo fungo avvizzito.
Sottile, gambe lunghe e magre,
inoltre, miseramente dondola la testa.
E sarebbe allor questa la dea!?
E pensar ch’io, povero scemo,
non avendoti visto nemmen una volta,
prestavo fede ai tuoi stolidi poetastri,
Un idiota! Un vero idiota!
Ho creduto ai moscoviti sulla parola!
Leggi e vagli a credere!
Dietro agli dèi, i nobili,
nobili ricoperti d’oro e argento!
Sembran maiali, grassi, brutti in volto
e nonostante sudino persino,
s’accalcano per star loro più vicini:
forse li prenderanno a pedate
o di mandarli a quel paese
si degneranno;
magari appena, ma almen sul grugno
glielo dicano.
In fila si sono disposti,
e quasi fossero privi di parola,
nessuno fiata,
mentre lo zar va blaterando
e la meravigliosa zarina,
trampoliere tra le gru,
saltella intorno e s’imbaldanzisce.
A lungo passeggiarono,
parevan gufi gonfiati
e bisbigliavano da non farsi intendere,
sembrava della Patria, forse di lustrine,
d’addestramento,
Poi la zarina, silenziosamente
s’accomodò su uno sgabello.
Guardo: lo zar s’avvicina al più anziano
e in pieno muso lo colpisce!
Il malcapitato si toccò le labbra,
e al sottoposto sferrò un pugno sullo stomaco
da fargli sentir l’eco!
E lui al proprio subordinato
gli assestò un botta sulla schiena
e questi si riscattò sul graduato inferiore,
poi toccò gli ultimi e agli ultimi oltre la soglia,
continuando nelle strade,
sui restanti ortodossi,
immediatamente a lamentarsi;
Strillano, urlano:
«Si diverte il batjuška, il nostro caro zar!
Urrà! Urrà! Urrà!»
Scoppiai dalle risate. Impossibile altrimenti.
Seppur anche a me ne diedero abbastanza!
Prima dell’alba, tornò la calma;
solo alcuni ortodossi rimasero agli angoli a gemere,
eppure per batjuška, piagnucolando pregavano.
Risa e lacrime!
Allora ripresi il cammino, osservando la città,
perché lì, la notte è come il giorno.
Guardo: palazzi ovunque,
palazzi sul placido fiume;
le rive ricoperte di pietra.
Rimango stupito,
quasi impazzisco!
Come poterono da una pozzanghera
far tale bellezza?
Fiumi di sangue furono versati —
e pure senza coltello. Sulla sponda lontana,
s’ergono fortezza e campanile,
quest’ultimo simile a un affilato punteruolo,
da lasciar attoniti.
E gli orologi cominciarono a tintinnare,
così mi girai e un cavallo, con gli zoccoli
quasi erompe dalla roccia!
E su di esso è una figura avvolta da un cappotto
e senza cappello, ma la testa è cinta da strane foglie.
Il cavallo s’imbizzarrisce!
Salterà il fiume!
E lui tende la mano,
come volesse agguantare il mondo intero.
Ma di chi si tratta?
Vado a leggere quanto è inciso sulla pietra:
Al Primo, la Seconda questa meraviglia ha innalzato.
Ora capisco: è quel Primo [Pietro n.d.A.] che crocifisse
la nostra Ucraina,
e la Seconda [Caterina n.d.A.] colei a infliggere il colpo di grazia
alla vedova abbandonata.
Boia! cannibali!
Mangiaste a sazietà, depredaste all’inverosimile.
Ma nell’Aldilà cosa portaste con voi?
Quale angoscia pervase il mio cuore,
leggendo il passato dell’Ucraina.
Rimasi immobile, sgomento,
allorché tenue mi giunse un dolce canto:
«Dalla città, da Hluchiv
i reggimenti marciarono sul Fronte
ed anche me, in veste d’etmano,
inviarono nella capitale al comando dei cosacchi!
O Dio misericordioso!
O tu, infame zar,
zar malvagio e maledetto,
aspide vorace,
cosa facesti dei miei cosacchi?
Colmasti le paludi delle loro nobili ossa;
e poi sui loro corpi martoriati ergesti la capitale!
e in una cella oscura,
anche me uccidesti, un libero etmano
ammazzato dalla fame.
Zar! O zar! Nemmeno Dio
può tenerci distanti.
In eterno, catene ti terranno a me legato.
Infinita pena è vagare sulla Neva.
L’Ucraina lontana,
potrebbe già non esserci più.
Vorrei volar da lei, guardarla,
ma Dio non lo permette.
Forse Mosca potrebbe averla già ridotta in cenere
e il Dnipro disperso nell’azzurro del mare
e gli alti tumuli saccheggiato – la nostra gloria.
Dio misericordioso,
abbi pietà abbi di noi, buon Dio».
E poi silenzio.
Guardai: una candida nuvola
velava il grigiore del cielo e da essa
pareva provenir l’ululare d’un animale nel bosco —
non una nuvola, bensì stormo di bianchi volatili
e discese su quello zar di bronzo
gridando: «Anche noi siamo a te incatenati.
Serpe, cannibale!
Nel Giorno del Giudizio
noi nasconderemo Dio,
agli insaziabili tuoi occhi.
Dall’Ucraina,
nudi e affamati, ci cacciasti
nelle distese innevate di terra straniera.
Ci sgozzasti e con la nostra pelle,
coi tendini irrobustiti,
imbastisti una purpurea regale veste.
Hai fondato una capitale
di sacralità ricoprendola.
Osserva: chiese e palazzi! Rallegrati perfido carnefice!
Maledetto, maledetto!»
Volando si dissolsero,
frattanto sorgeva il sole.
Ed rimasi impietrito, colmo di terrore.
I poveri si destarono, affrettandosi a lavorare
e agli incroci le truppe di Mosca marciavano.
Ai margini delle strade, giovani assonnate s’affannavano,
ma non dalle case provenivano — tornavano;
le madri le avevano mandate a lavorare
tutta la notte, a guadagnare il pane.
Rimasi lì, riflettendo
sulla sofferenza sopportata dalle persone
per un tozzo di pane.
Ed ecco la flotta d’impiegati ministeriali
volgere verso il Senato per apporre firme,
scarabocchiare documenti,
sfruttare il padre, il fratello
e qua e là, compaiono anche i paesani.
In russo ciarlano, imprecano,
ingiuriano i propri genitori,
perché quand’eran bimbi
non gli insegnaron a parlar tedesco
evitando loro d’esser adesso costretti
ad inacidire nell’inchiostro!
Sanguisughe! Parassiti!
Forse i padri hanno dovuto vendere
l’ultima mucca agli ebrei,
affinché ben imparassero il russo!
O Ucraina! Ucraina!
Questi son i tuoi figli,
i tuoi giovani fiori,
annaffiati con inchiostro e giusquiamo di Mosca
all’interno di soffocanti serre tedesche.
Piangi, Ucraina! Madre senza figli!
Andrò a dare un’occhiata
ai palazzi dello zar,
per veder cosa accade.
Tutt’in fila,
dignitari ansimanti e panciuti
sbuffano come tacchini e ogni tanto,
furtivamente sbirciano la porta.
Si spalanca e quasi uscisse dalla tana,
barcollante appare l’orso.
Gonfio da divenir blu
ed appannato da una maledetta sbornia.
Quei grassoni,
sprofondano sotto terra dal timore!
Indemoniato urla ai sottoposti
e quelli svaniscono,
poi spetta agli infimi
e al pari dei precedenti si volatizzano.
Quindi si avvicina alla servitù — sparita;
Si rivolge ai militari, gemono
e il suolo ingoia anche i soldatini
Prodigi avvengono al mondo.
E io guardo, domandandomi cos’altro accadrà,
cosa combinerà mai l’orsacchiotto!?
Ma se ne sta lì, solo,
a testa bassa, misera creatura.
E la potente natura dell’orso?
Sembrava un gattino
ed esplosi una risata!
Quindi mi sentì
e a squarciagola cominciò ad urlare.
Mi spaventai e destai all’istante…
Strano davvero questo sogno…
Unicamente i folli e gli ubriachi
siffatti sogni possono compiere.
Non stupitevi però, fratelli cari,
poiché della mia storia
non v’ho raccontato, ma soltanto
di quanto ho sognato.
San Pietroburgo, 8 luglio 1844
Tre anni
Non è giorno il giorno,
scorre e non scorre
e come dardi volano gli anni
portando con sé
quanto di bello donarono.
Rubano i lieti pensieri,
sbattono sull’algide pietre
e spezzano il cuore,
per poi pronunciare Amen,
Amen ad ogni gioia,
in eterno,
lasciando al piccolo incrocio,
il cieco derelitto.
Anni brevi, solo tre,
effimeri.
Ma d’un grande male,
invasero la mia dimora.
devastato il cuore
quand’era sereno e puro,
soffocato il bene, appiccando il male
e col fumo avvelenato,
han disseccato le lacrime
ch’io io sparsi per Caterina
lungo la strada per Mosca,
e con cui pregavo
per i cosacchi dei turchi prigionieri,
che per Oksana [Kovalenko n.d.A],
mia dolce stella, buona sorte amata,
lavavano ogni giorno che Dio mandava.
Poi vennero in silenzio anni maligni,
e tutto cancellarono.
Triste è deporre sulla tomba un padre,
una madre e la sposa fedele
giovane e piena di gioia.
Questo è profondo dolore, fratelli miei.
È aspra la vita di coloro che
devono nutrire i figli,
nudi in una dimora gelida,
ed è immensa la miseria, però
non quanto quella del folle
che amò una donna,
unì il suo destino ad una
che per tre soldi a un altro si vendette
e di lui si fa persin gioco.
Qui è il male! Ecco dove,
il cuore all’istante si spezza!
È il male oscuro che m’ha travolto:
Alla gente il cuor mio s’era offerto
e agli uomini diede amore,
ed essi lo onoravano,
lo blandivano, lo lodavano..
ma gli anni lentamente se ne andarono
e si spensero le lacrime, le lacrime d’amore vero.
Così, piano s’aprirono gli occhi
e guardandomi intorno
— sarebbe meglio tacere —
ovunque volga lo sguardo
non scorgo uomini vedo, piuttosto serpi…
Ed inaridite si son le lacrime mie,
giovane pianto, cuore spezzato
ed ora di sol veleno mi nutro,
e non piango, non canto,
ma come una civetta vo ululando.
È la verità, fate ciò che volete:
i miei canti,
che li biasimiate ad alta voce
oppur ne tessiate sussurrate lodi,
nulla cambia,
i miei anni giovani, la parola gioiosa,
non torneranno più.
Non torneranno e io da voi
non tornerò a cuore aperto.
Non so dove posso andare,
dove trovar rifugio?
Con chi confrontarmi,
e chi confortare?
A chi dedicare i miei canti?
O miei canti!
Miei anni, voi, tre duri anni,
chi vi accoglierà,
figli miei balordi?
A nessuno andate a chieder ricovero,
a dormire restate a casa,
mentre io all’anno nuovo,
all’anno quarto andrò incontro.
Buongiorno a te, anno nuovo,
porti le vesti del tempo andato,
e cosa porti in Ucraina nella borsa rattoppata?
«Felicità ed abbondanza, or ora per sovrano decreto stabilite».
E sia, stammi bene, però non dimenticare
di portare alla miseria saluto.
V’junyšča, 22 dicembre 1845
Testamento
Quando morrò seppellitemi
su di un’alta collina
attorniata di steppa
dell’amata Ucraina
Dove si vedano i campi
e le ripide del Dnipro,
ascoltandone il ruggire
mentre al mare azzurro
il sangue nemico porta.
Allora e solo allora,
lascerò la terra ed ascenderò all’Altissimo
pregandolo…adesso non conosco Dio.
Seppellitemi, ribellatevi,
spezzate le catene
e del sangue nemico
irrorate la libertà
e me stesso, nella grande famiglia,
libera e rigenerata,
non dimenticate rimembrarmi
tramite lieve e fraterna parola.
Perejaslav, 25 dicembre 1845
Passano i giorni e le notti
Passano i giorni, le notti,
tramonta l’estate e dorato
stormisce il fogliame;
s’assopiscono gli occhi,
i pensieri, il cuore.
Tutto si placa e io non so,
se son vivo, se la morte m’è vicina
o in un limbo vado errando,
dacché non piango, né rido più…
Dove sei, fato, dove?
Non v’è alcun destino
e se, Dio, non puoi concedermi fortuna,
cattiva sorte riservami!
Ma non permetter ch’io dorma
lungo il cammino,
non permetter al cuor mio,
di raggelarsi e che nel mondo
come un legno d’acqua intriso,
mi consumi.
Fammi vivere,
vivere con il cuore,
amando la gente, altrimenti maledicendola
e il mondo incendiando!
Poiché orrendo è terminar esistenza in catene,
in prigionia, eppur peggio è
dormire, dormire, dormire quando si è liberi,
giacere in eterno senza lasciar traccia alcuna,
dacché distante non è dal morire!
Dove sei, fato, dove?
Non v’è alcun destino
e se, Dio, non puoi concedermi fortuna,
cattiva sorte riservami!
V’junyšča, 21 dicembre 1845
Non invidiare
Non invidiare il ricco,
egli non conosce amore né amicizia,
tutto compra con i soldi.
Non invidiare il potente,
tutto prende con la prepotenza.
Non invidiare chi ha notorietà,
egli ben sa, ad esser amata
è soltanto la fama che ha guadagnato
versando gravose lacrime.
Quando giovani s’uniscono
tutto appare nitido e sereno al pari del paradiso,
tuttavia, attentamente guardando
il male è in agguato.
Dunque non invidiar nessuno,
piuttosto osserva il mondo intorno
e nota, non esiste il paradiso in terra
e nemmeno c’è in cielo.
Myrhorod, 4 ottobre 1845
Fraterna epistola
Ai defunti, ai viventi, ai non ancora nati,
ai miei compatrioti tutti, in Ucraina e fuori dell’Ucraina.
«Se uno dice: “Io amo Dio”, ma odia suo fratello, è bugiardo;»
Giovanni 4,20-21
Il Sole va calando e giunge il crepuscolo,
è la parabola dell’esistenza;
E il popolo stanco, come ogni creatura
nel sonno si rifugia;
Io solo mi dolgo come un maledetto
dalla prima all’ultima ora,
nell’abbraccio tra il giorno e la notte
senza che nessuno si accorga;
nessuno vede, nessuno sente,
incapaci d’ascolto,
gli uomini barattano catene
e verità a proprio interesse,
così commettendo infamia
innanzi allo sguardo dell’Altissimo;
imbrigliano, soggiogano,
gettano nei terreni le sementi del demonio…
Domando allora, quali frutti germoglieranno?
Presto vedremo il raccolto!
Redimetevi, ottusi figli della follia!
Osservate la vostra Patria,
pacifica Ucraina;
Lasciate che i vostri cuori, traboccanti amor sincero,
si sollevino dalle rovine!
Spezzate le catene, nell’amore unitevi
e non volgete lo sguardo oltre il confine…
Nella vostra dimora, troverete
giustizia, potenza e libertà!
Non esiste altra Ucraina,
né altro Dnipro.
Vyuny, 14 dicembre 1845
Caucaso
«Chi farà del mio capo una fonte di acqua,
dei miei occhi una sorgente di lacrime,
perché pianga giorno e notte
i morti della figlia del mio popolo?»
Geremia, 8, 23
Monti su monti ammantati di nubi,
disseminati di dolore, irrorati di sangue irrorati.
Dalla notte dei tempi, Prometeo soffre, vittima dell’aquila;
ogni giorno che Dio manda, petto e cuore ella gli strazia.
Ne dilania il corpo, ma non può dissetarsi del sangue, sangue ancora vivo,
e il nemico irride. Poiché morire non l’anima nostra,
la libertà non conosce morte.
E l’ingordo tiranno non può arare i terreni
sul fondo del mare; né può incatenare lo spirito e nemmeno la parola viva,
Altrettanto non può, offuscare la divina gloria.
Non sta a noi sfidarTi!
Non sta a noi giudicarTi!
A noi spetta unicamente il pianto, il pianto,
a noi spetta pane di sangue e lacrime impastato;
il carnefice ci tortura e schernisce
e la nostra verità, ubriaca dorme — come morta!
Quando si desterà?
Quando, sfinito dalla lotta,
riposerai Signore, riposerai lasciandoci viveri liberi?
Nel Tua potenza, nel Tuo Spirito riponiamo fede;
Libertà e giustizia!
E allora, Signore, da ogni angolo del Pianeta inni a Te si leveranno,
ma nel frattempo, scorrono fiumi,
fiumi di sangue!
Monti su monti ammantati di nubi,
disseminati di dolore, irrorati di sangue irrorati.
La nostra maestosa libertà,
vera sia pure sfinita dalla fame,
misera, ma reale libertà.
La inseguiamo!…e i terreni son pertanto cosparsi d’ossa di coscritti.
Lacrime e sangue, tanto quanto basterebbe
ad affogar tutti gli imperatori e con loro
i loro figli
e i nipoti, bramanti il soglio
nelle lacrime delle vedove.
E le lacrime versate nel silenzio della notte da fanciulle,
E in quelle incediate delle madri!
E quelle di sangue dei vecchi padri. Non fiumi — un intero mare,
un mare di fuoco di lacrime…gloria! Gloria!
Gloria ai segugi, ai cacciatori, agli zar, ai batjuška.
Sia gloria.
Ma gloria a voi, monti azzurri da neve e ghiaccio
protetti,
e a voi, impavidi eroi, Dio non vi dimentica.
Combattete e trionfate!
Dio è con voi!
È con voi la verità, la gloria, giustizia
e la sacra libertà!
Sáklja e Čurèk [dimora fortezza e pane non lievitato propri del Caucaso n.d.A.],
sono vostri.
Non l’avete richiesti, non sono un dono — nessun altro li prenderà,
come a nessuno è dato incatenarvi.
Nell’impero nostro…gente civile,
usiamo leggere le Sacre Scritture,
e dalla più infima fogna del carcere,
fin al più alto trono,
siam coperti d’oro — anche nudi.
Venite ad imparare! V’insegneremo
il prezzo del pane, del sale…
Siamo Cristiani. Abbiamo santuari e scuole
ed ogn’altro bene. Persin Dio ha riguardo di noi,
La vostra sáklja deturpa il panorama,
Perché mai è stata issata
senza previa nostra autorizzazione?
Non siamo noi a gettarvi quel čurek come ai cani?!
Perché non pagate dazio anche per il Sole?!
Non sarebbe nulla! Mica siamo pagani,
siamo autentici cristiani e
di poco ci accontentiamo.
Se foste amichevoli, tanto potremmo insegnarvi.
Nostro è mezzo mondo,
pensate, perfino la sconfinata Siberia!
Prigioni? Incarcerati? Troppi per contarli!
Dai Moldavi ai Finlandesi
tutti tacciono contenti…
Nel nostro impero
la Bibbia è così illustrata
dai monaci:
«Uno zar [Re David, n.d.A.] che pascolava maiali,
per aver la donna dell’amico, questi uccise,
e meritò così il Regno dei Cieli!»
Capite qual eccelse persone popolano il nostro Paradiso!
Voi non siete illuminati, ignorate la verità della Santa Croce!
Venite ad imparare! Prendi, prendi e dai,
e quando hai dato vai dritto in Cielo,
con l’intera famiglia al seguito!
Riguardo noi, cosa non sappiamo?
Contiamo le stelle, seminiamo il grano,
ingiuriamo i francesi. Possiamo
vendere gli uomini — ce li giochiamo anche a carte —
non i negri, ma della nostra stessa etnia,
cristiani, non importa, è nulla più che plebe
e noi non siamo spagnoli! Dio non voglia però,
sia merce rubata come son soliti far gli ebrei.
Noi rispettiamo la legge!
Legge apostolica?
Allora amate i fratelli vostri?
Ipocriti oltraggiosi, da Dio maledetti.
Amate le pelle di vostro fratello, ma non l’anima sua!
Lo derubate secondo legge quando denaro vi necessita:
una pelliccia da porger alla figliola illegittima,
o la dote del vostro bastardo,
le scarpe della moglie,
per quanto di voi, la famiglia tenete all’oscuro!
Per chi sei stato crocefisso, Cristo, Figlio di Dio?
Per noi, gente onesta, oppure in nome della verità?
O forse perché di Te ci prendessimo gioco?
Questo è accaduto.
Cattedrali e basiliche, candelabri, icone, nuvole d’incenso.
Interminabili prostrazioni ad onorar l’effigie Tua;
ottenendo così il permesso di saccheggiare, uccidere, muovere guerra,
il diritto di versar sangue d’un fratello,
offrendoTi poi doni, rubati tra le fiamme!
Noi siamo illuminati! Riveliamo la benedetta radiosità della verità,
a coloro che albergano nelle tenebra.
Unitevi a noi e raggiungerete la conoscenza: v’insegneremo a compiere i nodi dello knut [antico flagello russo, n.d.A.], a forgiare catene, anche a portarle! L’intera nostra scienza v’insegneremo. Dovete unicamente darci
i vostri monti azzurri, nient’altro.
Dacché pianure e mari già li abbiamo presi.
Uccisero anche te, Jakiv, amico mio, mio unico amico!
Non per l’Ucraina,
ma per il suo boia versaron il sangue tuo — sangue puro;
dal calice moscovita, veleno t’hanno dato da bere!
Amico mio caro, indimenticato!
Torna, anima viva, torna in Ucraina;
Vola dai cosacchi sulle rive, sii guardiano
dei tumuli deturpati dei combattenti e attendi
nella steppa, condividendo il pianto dei cosacchi,
il mio ritorno, dall’angosciante prigionia.
Nel frattempo, come semi getterò,
provando infame dolore, i miei canti; che germoglino
al sibilar del vento.
Il vento mite dell’Ucraina,
che a te, fratello, porterà insieme a rugiada.
Sicché salutali,
in silenzio leggendoli e rimembrando
i sepolcri, le distese pianeggianti, le colline,
la terra che amasti
e me.
Perejaslav, 18 novembre 1845
Inno all’esilio
Oltre le colline, il Sole va scendendo,
calano le tenebre e più non s’odon cinguettii,
le voci dei lavoratori dai terreni
ed in beato riposo va il mondo adagiandosi.
Con gioia in petto,
contemplo l’ombrosa boscaglia d’Ucraina.
Tra i ricordi più cari, laggiù oltre le colline,
il mio cuore trova conforto.
Oscurità avvolge campi, alberi,
mentre dalla volta celeste, una stella risplende e
lacrime solcano il viso.
O astro della sera!
Benedici col tuo lume l’Ucraina?
Dolce Paese ove il mio sguardo si posa
cercando gli occhi che un tempo eran soliti accogliermi.
Han forse dimenticato le loro promesse?
Lasciali riposare e
più non pianger sul mio destino.
Fortezza di Orsk, 1847
Tredici anni
Era il mio tredicesimo anno.
Pascolavo il gregge nel villaggio.
Forse il sole coi suoi raggi,
altrimenti cos’altro,
sfiorò l’anima mia?
Lietezza mi pervase,
tanta,
come al cospetto di Dio…
Al lavoro m’han richiamarono,
ma dalla gramigna irretito
Pregai l’Altissimo…
Non so perché a me,
allora fanciullo,
pregar restituiva
cotanta dolcezza, lieve euforia,
al punto che i cieli
e pure il villaggio,
sembravan gioire
ed il gregge altrettanto.
Il sole scaldava, ma non ardeva!
Però per poco,
fu dolce il suo calore,
poco durò la preghiera…
Tutto riarse, s’infuocò,
perfino il paradiso.
Di colpo mi svegliai e
intorno guardai:
il villaggio era nero,
egualmente la volta celeste di Dio,
s’era oscurata.
Osservai gli agnelli – Non erano miei.
Gli occhi volsi a cercar casa – Non avevo una casa.
Nulla m’aveva donato l’Eterno…
Lacrime sgorgarono, pesanti lacrime…
Ma una ragazza, sul ciglio della strada,
da me non distante,
raccogliendo canapa
udì il mio pianto ed avvicinatasi,
mi salutò.
Terse le mie lacrime, mi baciò…
Il Sole sembrò tornar a luccicare e
e sentii come diventar mio, il mondo intero…
prati, giardini, foreste!…
Quindi tra noi giocando,
spingemmo l’altrui gregge
ad abbeverarsi…
Utopie!
Eppure, quando rammento,
cuor si duole, poiché tal paradiso
Dio non concesse viver
anche sol per istante.
Sarei morto arando la terra,
nulla del mondo avrei conosciuto,
Spiritato non avrei peregrinato,
né maledetto la gente, tantomen Dio!
Fortezza della Terza Sezione, San Pietroburgo, 1847
Giardino di ciliegi
Giardino di ciliegi attorno a casa,
Maggiolini ronzano tutt’intorno,
Gli aratori con l’aratro vanno,
Cantano, tornando, le fanciulle,
Le madri aspettan per la cena.
La famiglia cena presso casa,
Stella serotina in cielo,
La figlia serve al desco,
Ammaestrarla vorría la madre,
Ma canta forte l’usignolo.
A dormire stende dentro casa,
La madre i piccolini,
Nel sonno cade assieme a loro.
Or tutto tace, ma non s’acquietan
Le fanciulle e l’usignolo.
Fortezza della Terza Sezione, San Pietroburgo, 1847
(traduzione Giovanna Brogi e Oxana Pachlovska)
Abbraccio
Con gli occhi abbraccio la steppa
e questi campi,
Dio misericordioso, mi chiedo,
permetterà ch’io da vecchio riveda la libertà?
Vorrei andare in Ucraina,
vorrei andare a casa
e sentirmi dir ‘bentornato’;
gioirebbero per questo vecchio
e laggiù, pregando il Signore, potrei riposare un po’.
Là potrei.
A nulla vale pensarvi, ma in schiavitù,
com’è possibile trascorrer l’esistenza, senza sperare?
Ditemi brava gente,
altrimenti follia mi catturerà.
Fortezza di Orsk, 1848
A H. Z.
[Hanna, amata da Ścevčenko, n.d.A.]
Non esiste maggior dolore della prigionia,
ricordare la libertà.
Però non posso,
mia dolce libertà, non pensare a te.
Mai t’avvertii tanto meravigliosa e giovane,
infinitamente bella come adesso,
in terra straniera e per giunta prigioniero,
ti rammento.
Destino! Destino!
Libertà mia, ch’io cantai!
Almen uno sguardo dedicami dall’altra riva del Dnipro,
un sorriso dalla…
E tu, unica mia, nel mentre t’issi da oltre il mare,
dietro la nebbia, fragile rosea alba,
unica mia che
con te stringi i miei giorni fanciulli
frattanto innanzi a me
come onde avanzano grandi villaggi
con giardini colmi di visciole
e gente gioviale.
Persone e villaggi,
che un tempo m’accolsero come un fratello.
Madre! Madre mia vecchietta!
S’adunano ancor gli ospiti gioiosi
per divertirsi nella tua casa,
semplicemente allietarsi,
nel modo antico, dalla sera a mattino?
E voi, giovani dalle chiome brune,
ridenti fanciulle,
dalla vecchia signora ballate sempre?
E tu, sorte, mio rifugio!
Vita dalle ciglia scure,
avanzi ancora fra loro,
serena e radiosa?
Con occhi di blu tanto intenso
da sembrar neri,
puoi ancora ammaliar anime?
Invano ammiranti la tua sottile figura?
Mia gioia! Unica gioia!
Quando si stringeranno a te, mia sorte,
le tue figlie in fiore e canteranno
com’è loro antica consuetudine,
magari anche me, per un istante, ricorderanno.
Oppure forse, di me qualcuna
pronuncerà malignità.
Sorridi cuore mio,
lievemente, piano,
cosicché nessun manchi di vedere…
e nient’altro.
O mia dolce sorte,
in prigionia Iddio io pregherò.
Kosaral, autunno 1848
Profeta
Come figli giusti,
Dio amò gli uomini,
e sulla terra inviò un profeta
ad annunciar il Suo amore,
ad annunciar la Santa Verità!
Parimenti l’infinito nostro Dnipro,
le Sue parole s’espandevano
e nelle profondità del cuor fluivano!
Infiammando d’invisibile fuoco i gelidi spiriti
ed amarono il profeta,
in ogni luogo andavano pur di seguirlo
e lacrime versavano le genti redente…
…e perfin perverse!
Di Dio la gloria Sacra ammorbarono…
ed in nome di sconosciuti dèi s’ingozzarono di vittime sacrificali.
Infami!
E il santo uomo,
siano maledetti,
lapidarono in strada.
Ma la Giustizia dell’Altissimo Infinito,
per tali barbare e feroci fiere,
comandò di forgiar catene
e di costruir carceri tetre ordinò.
O gente arrogante e crudele!
Anziché un mite profeta,
Egli v’impose uno zar!
Kosaral, 1848
Non fa differenza
Non ha importanza, se in Ucraina
vivrò ancora oppure no.
se qualcuno mi ricorderà o sarò dimenticato
nella neve in terra straniera –
Non ha importanza, nulla m’interessa.
Son cresciuto in prigionia, fra gente estranea
e senza il pianto dei miei cari,
così, in schiavitù morirò piangendo.
Tutto porterò via,
non lascerò di me nessuna traccia
nella nostra eterna Ucraina,
terra nostra, non più nostra.
E non mi rammenta il padre col figlio,
ed egli non dirà:
«Prega, prega per colui che un giorno,
fecero martire dell’Ucraina».
Non ha importanza,
se quel figliolo pregherà per me
o non pregherà affatto…
però m’importa, m’importa eccome,
che gente malvagia possa gettar nel sonno l’Ucraina
e poi saccheggiata, nel fuoco si ridesti
Questo ha importanza,
di questo m’importa eccome!
Fortezza della Terza Sezione, San Pietroburgo, 1847
Ai miei compagni di prigionia
Ricordo, sicché, i miei fratelli…
Non voglio che tornino quei giorni maledetti,
quando voi, così come me,
soltanto attraverso le sbarre della prigione,
potevamo osservare il mondo.
Anche voi, avrete immaginato,
senza dubbio quando a bassa voce ci accordammo,
al momento in cui
ci saremmo nuovamente incontrati
nel nostro povero Paese.
Mai più, cari fratelli miei, mai più
berremo insieme dalle acque del Dnipro,
Malasorte ci ha separati e trascinati
nella steppa, nella foresta,
ma un barlume di libertà conserveremo
e ricominceremo, tenteremo
di vivere mescolandoci alle persone —
però, fratelli miei, fino ad allora,
amatevi l’un l’altro, amate l’Ucraina,
adoratela e per essa,
povera sfortunata Terra,
supplicate Iddio,
ed al contempo, dimenticate i traditori,
non malediteli in eterno,
ed anch’io, nella credule prigionia,
a volte, lo ricorderò.
Orenburg, 1 novembre 1849 – 23 aprile 1850
Né Archimede, né Galileo
Non Archimede e neppure Galileo
probabilmente videro mai del vino,
il quale invece
abbondante scorreva nel ventre dei monaci.
E voi, santi profeti,
vi disperdeste nel mondo sconfinato,
portando una briciola di pane
a deplorevoli re.
Distrutto però,
verrà il grano seminato dagli zar
e risorgeranno gli uomini.
Moriranno i sovrani
ancor prima d’esser concepiti
e sull’emancipata terra,
non vi sarà più traccia di crudele despota
ma vi sarà il figlio,
la madre e ci saranno uomini.
San Pietroburgo, 1860
Verità e giustizia
Qui ed ovunque, tracimava il male.
La povera anima presto si destò,
per poco lavorò e poi, misera, a riposare si sdraiò.
Su di essa però vegliava il Giudizio:
«Svegliati – imperò – Piangi, negletta!
Il Sole non si leva. Solo tenebre
e di giustizia su questa terra,
non v’è ombra!».
Ma il negligente Arbitrio,
mentiva all’anima pura.
Il Sole s’alzò e con sé portò il giorno.
Ed ecco, alla luce vacillano
e si sgretolano i corpi dei re,
mentre verità e giustizia
scendono sulla terra.
San Pietroburgo, 1860
La Musa
Dea misericordiosa,
innocente sorella d’Apollo,
Donandomi al mondo,
su di un tumulo da pianura attorniato,
mi raccogliesti e come di sconfinata libertà,
m’avvolgesti in manto di nebbia;
rassicurante, cantando mi dondolavi,
compivi incantesimi…ed io…
O amorevole Dea,
la mia vita ogni istante proteggesti.
Sempre e ovunque, stella immacolata, vegliavi su di me;
anche nella steppa, selvaggia ed inospitale,
nella remota prigionia,
rifulgevi egualmente ad un fiore in un campo.
Dalle luride quattro mura della caserma,
pura ed innocente volasti via,
librandoti e cantando
nel cielo me sovrastante,
come un angelo dall’ali dorate
e m’aspergesti la mia anima immortalando
con la grazia celeste.
Su di me splendi, mio astro caritatevole,
divina beltà! Mia sacra consigliera,
inestimabile lume del mio cammino,
non abbandonarmi nello sconforto;
nelle notti, e di giorno, al crepuscolo e all’alba,
librati e insegnami,
insegnami con respiro sincero
a proferir verità!
Insegnami perché possa far preghiera
della mia vita e quando morirò,
Santa e preziosa madre,
deponi tuo figlio in un sepolcro
e seppur minuscola, in esso lasciar cader
una lacrima dai tuoi imperituri occhi.
Nižnij Novgorod, 9 febbraio 1858
Traduzioni dall’inglese, tranne dove diversamente indicato
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