Petronilla Paolini, vita e poetica di una donna «non vile»
Io scrivo, scrivo sul serio. Imprimo me stessa sulla carta. Scrivo per liberarmi, per essere. E per scrivere sono disposta a tutto.
Petronilla Paolini
Sotto volta celeste dell’aquilano comune di Tagliacozzo, natalizia atmosfera del ventiquattro dicembre 1663 accolse primo vagito di Petronilla Anna Maria Antonia Paolini, elegiaco animo alla bimba venendo effuso con tal ardore, da inebriarne mente e spirito in predestinato suggello.
Genitori di Petronilla furono l’affermato, diplomatico e solerte Francesco Antonio — appassionato cultore della letteratura, barone dei feudi d’Ortona dei Marsi e Carrito, a servizio della casata patrizia romana Colonna — e Silvia Caterina Argoli, appartenente ad una delle più influenti famiglie tagliacozzane, da medesimo lignaggio elevandosi ad illustre carriera il matematico, medico, astrologo ed astronomo Andrea (1570-1657) e il di lui figlio Giovanni (ca. 1609-1660), autore umanista — latino e volgare — di svariate opere, la maggiore racchiusa nei dodici canti de L’Endimione, poema di Giouanni Argolo all’illustrissimo, & eccellentissimo sign. don Filippo Colonna, riecheggiante L’Adone, componimento mitologico redatto dallo scrittore partenopeo — ritenuto l’iniziatore della poesia barocca — Giovan Battista Marino (1569-1625).
In territorio natale — il cui suolo peraltro battuto dalla storica battaglia tra guelfi e ghibellini, svoltasi nel lontan ventitré agosto 1268 e rievocata dal sommo Dante Alighieri (1265-1321) nella sesta terzina del ventottesimo Canto dell’Inferno — Petronilla trascorse serena infanzia in un ambiente alquanto agiato, stimolante e fertile alla brillante intelligenza a lei insita, contesto affettivamente rafforzato d’amorevoli premure materne che la nutrirono nel profondo, sebben la solitaria e riflessiva Silvia fosse fortemente incline all’introversione.
Ad incrinar ovattato e lieto vivere della bimba, fu la malaugurata sorte posta in capo al padre, poiché assassinato in un agguato del tredici febbraio 1667 e il delitto restando irrisolto, benché non poche teorie sull’omicidio oscillando fra l’attribuirlo all’aristocratico e Gran Connestabile, Don Lorenzo Onofrio Colonna (1637-1689) — per supposti intrallazzi politici — e l’immaginarlo congettura del parentado Argoli, nell’avaro intento di metter mano sui copiosi averi dei Paolini e così, nel bel mezzo d’un’età che andrebbe vissuta senza l’ombra d’un patimento, la piccola Petronilla venne travolta dal fulmineo, inaspettato e straziante dispiacere incussole dall’ingiusta privazione del genitore, aggravato dal successivo assillo d’opportunisti e spietati profittatori.
In un soffio di vento sottratta ad un ovattato mondo fatto d’ilari canzoncine, fascinosa lettura e salubre giuoco, la dolce fanciulla si trovò catapultata in alienante, disumana e tribolata atmosfera, da cui la riservata Silvia ebbe naturale ed impulsivo desiderio di salvaguardar entrambe e dileguarsi, indi per mano all’amata creatura conducendosi a Roma e riparando presso la corte papale di Clemente X, al secolo Emilio Bonaventura Altieri (1590-1676), recuperando quel briciolo di schermante serenità, necessaria per non correr il rischio di soccombere agli infausti eventi.
A scortarle nel viaggio fu Giacinto Paolini, colui che all’uccisione del fratello gli succedette nella gestione del feudo d’Ortona dei Marsi e relativo castello, acquistati dal compianto Francesco Antonio l’anno precedente dalla famiglia Fibbioni — proprietaria per un sessantennio — il cui capostipite, Bartolomeo del Secco, era giunto all’Aquila da Novara nel sedicesimo secolo, appunto ricevendo soprannome, Fibbione.
Fra le immortali architetture della Caput Mundi, Petronilla intraprese studi nel Convento dello Spirito Santo (odierna Comunità di Sant’Egidio), rassicuranti e silenti ambienti monastici che le favorirono — con zelante dedizione e sete d’apprendimento — l’assorbir sapere come una spugna il suo mare, in primo luogo sulle geniali rime di Torquato Tasso (1544-1595), che la Paolini lesse, rilesse e memorizzò al cospetto dell’Arte poetica, ancestral richiamo che all’ineluttabile inceder del tempo, ad essa l’avrebbe abnegata, ella respirandone a pieni polmoni, intimamente filtrandola ed in seguito eviscerandosi a getti di sofferto inchiostro.
Temporalmente distante dall’affermarsi poeticamente — dacché ancor ragazzina — spregevole scacco matto ad illibata innocenza le venne inferto proprio dal pontefice che l’aveva accolta, Clemente X chiedendo infatti a Silvia facoltà di concederla in sposa — dopo aver oculatamente scandagliato le molteplici proposte di matrimonio a lei rivolte e ricevute in mera brama di possesso dell’immane dote ereditata, di circa centomila scudi — all’aristocratico nipote, in quell’annata nominato Governatore di Castel Sant’Angelo, Francesco Massimi (1635-1707), Sua santità considerandolo candidato ideale alle nozze, legittimate con una remunerata dispensa — datata agli atti ventun settembre 1670 — volta all’eludere il divieto di maritarsi prima dei quattordici anni, dunque Petronilla raggiungendo altare il nove novembre 1673, per indiretto effetto di remissivo consenso che la madre — verosimilmente in preda a rassegnato fatalismo — aveva impotentemente accordato, la Paolini restandole comunque affianco per un abbondante biennio, dunque nel 1675 traslocando a Palazzo Massimo in Aracoeli, per esser affidata alle cure di Prudenza Buratti, anziana cognata del marito.
Nel 1678 la Paolini — ormai anagraficamente idonea al condivider dimora col consorte — giunse a Castel Sant’Angelo, struttura adibita a carcere in cui vigeva regime penitenziario estremamente efferato nell’esecuzioni e torture riservate ai detenuti, dei quali non di rado Petronilla udiva le raccapriccianti grida, nella sua mente cicatrizzatesi in un boato di dolore dall’eco difficilmente obliabile e desolatamente rammentato nelle sue memorie.
Piacevole incontro le capitò, nello stesso anno, con Cristina Alessandra Maria, ex sovrana Cristina di Svezia (1626-1689) — sulla cui attività caritatevole ed artistica sarebbe sorta la prestigiosa ed autorevole Accademia dell’Arcadia — per la giovane autentico simbolo di coraggio, perspicacia ed erudizione da un giorno eguagliare, purtroppo essendo completamente ignara dell’intollerabili, umilianti ed opprimenti condizioni a cui l’avrebbe, all’opposto, costretta il meschino Francesco Massimi, soldato di rango e mentalità marziale, sprovvisto di qualsivoglia capacità d’empatia, comprensione o barlume di sensibilità, nonché aridamente incapace di riconoscer malessere in chi all’Altissimo aveva promesso d’amar ed onorar ogni giorno della propria vita.
Rigidissimi dettami di comportamento le vennero imposti nell’immediato: divieto d’indossare abiti dalle vivaci tinte o monili, conversar con la servitù ed osservar negli occhi eventuali interlocutori, inizialmente la Paolini sostando in tre minuscole camere illuminate da «finestre guarnite di ferrate come che altre volte servite per uso di carceri», con occasionali uscite rigorosamente controllate ed a capo coperto.
Incantevoli gioie della maternità — saggiate con la nascita d’Angelo (1679-1755), Domenico (1681-1694) ed Emilio (1682-1744) — non bastarono a rincuorar in toto Petronilla la quale, nonostante lapalissiana, o quantomeno desumibile, lietezza resale dalla presenza degli adorati pargoli, d’ali tarpate e percosse fisiche percepiva quotidiane, ignobili, dolenti e mortificanti ferite, inoltre il maligno coniuge — dopo le gravidanze avendo deciso di non condivider più talamo — la relegò in una delle tre stanze, la Paolini sopravvivendo nell’unico sollievo segretamente custodito fra le quattro disagevoli mura: «quando ivi soletta mi ritirava, e in leggere, lavorare, et orando passava il mio tempo sin che allorché tutta la casa dormiva, con l’aiuto d’un piccolo calamaio donatomi nascostamente da una donna di servizio mi applicava ove il mio genio tendeva in comporre qualche poesia et in altri studi»; ma ben poco ci volle affinché Francesco Massimi scoprisse arcano, impedendole di scrivere e levandole ogni mobilio, ad eccezion di letto, sedie ed inginocchiatoio, nondimeno a cotanta povertà morale la femminea guerriera, in beffarda ribellione ed eccelsa tempra, rispondendo con edificante superiorità psicofisica, nel virar pathos a note cantorie, spranghe nulla potendo sul suono vocale emesso d’affranta ugola, altisonante nell’etere.
Supremazia intellettiva, cocciuta resilienza ed amor proprio eressero nella Paolini un incrollabile temperamento, lacrima su lacrima Petronilla implodendo e sopportando avversità senza mai arrendersi a maschil grettezza, viceversa, ad inconcepibili e codarde prevaricazioni opponendo instancabile ascolto del proprio vibrare, rimbombante a tal punto da portarla, nel 1690, ad assentarsi addicendo scusante di dover accudir la beneamata madre, cosicché avviandosi a percuoter battocchio del seminario che ne formò istruzione ed ivi fermandosi senza più far ritorno, dal canto suo Francesco Massimi reagendo privandola d’ogni sostentamento economico e — in grossolana, abietta e sfrontata rivalsa — negandole visione della prediletta prole, arrivando persin a precluderle l’umana e quantomeno assennata opportunità dell’ultima carezza al secondogenito, asceso ai Cieli ed accomiatatosi dal mondo senza poter socchiuder palpebre nel di lei confortante sguardo.
D’un mio tenero figlio, ch’era di questo sen parte migliore, morte recise il fiore; e al materno amor non fu concesso darli nel morir l’ultimo amplesso.
Seppur sfinita, lacerata e sanguinante nell’anima, la temeraria ventisettenne — spinta dalla sovrumana forza che con inconsolabile violenza deflagra nel petto d’una madre a cui abbiano strappato carne della propria carne — il sei luglio 1694 azzardò quanto all’epoca non era minimamente ipotizzabile, ovvero l’intraprender causa alla Sacra Rota per «separazione di letto», nel proponimento d’ottener sacrosanta indipendenza e recuperar la propria dote, ma nella sfibrante battaglia legale intentata, esito di giudizio, ufficializzato tre anni dopo, intervenne a favore di Francesco Massimi sulle accuse da lui avanzate — d’abbandono di focolare e figliolanza — nei confronti della moglie, alla qual venne tuttavia permesso di soggiornare in Convento, sebben scevra di sostegno finanziario.
Già costretta a stremante miseria e debilitata nella salute, Petronilla incassò ennesimo colpo basso infertole, oltremodo determinata ed orgogliosamente intenzionata a rialzarsi, nella certezza di riuscir prima o poi a metter al tappeto il carnefice che s’era ottusamente illuso di farla vittima.
Il mio martir disfido, l’affronto e il vinco.
In quel periodo la Paolini perseverò con lodevole tenacia ad investir su di sé, perfezionando conoscenze mediante vasto approfondimento in campo linguistico e filosofico, soprattutto avvicinandosi alla concezione neoplatonica — che ne influenzerà personal produzione — del ragguardevole umanista, astrologo e filosofo figlinese Marsilio Ficino (1433-1499), parallelamente fine beltà, distinto garbo e brillante acume della donna — in aggiunta alla risonanza dei fatti processuali, testimoni dell’ardimento a lei connaturato — destando crescente stima e sincero interessamento nei contemporanei, a partir dal 1696 Petronilla instaurando importante collaborazione con il compositore, operativo alla corte imperiale di Vienna, Carlo Agostino Badia (1672-1738), a lui porgendo svariati testi, su tutti l’oratorio, L’invenzione della Croce.
Già aggregata all’Accademia degli Infecondi di Roma sotto pseudonimo Urania Tollerante, Petronilla nel 1698 compì ingresso, assumendo identità di Fidalma Partenide, nella sopraccennata Arcadia, rifiorendo fra eminenti personalità che — in rispettoso e gratificante ossequio — ne ammirarono ed esaltarono virtù caratteriali e scrittorie, compiaciute lodi giungendole, per citarne sol alcune, dal coetaneo e critico letterario Giovanni Mario Crescimbeni (1663-1728), dall’insigne storiografo, numismatico, presbitero, diplomatista, bibliotecario e personaggio di spicco nel settecentesco scenario d’élite intellettuale Lodovico Antonio Muratori (1672-1750), dal drammaturgo e mentore Carlo Alessandro Guidi (1650-1712) — che le dedicò, Il Tevere — dal collega Pietro ‘Pier’ Jacopo Martello (1665-1727) — il cui nome Arcade, Mirtillo Dianidio — e dal librettista e reverendo, sapiente rivisitatore del melodramma italiano, Pietro Antonio Domenico Bonaventura Trapassi ‘Metastasio’ (1698-1782), con cui la Paolini tenne fitto scambio epistolare, carteggio altresì intessendo con i dotti Gregorio Redi (1676-1748), Niccolò Montemelini (1643-1723), Antonio Magliabechi (1633-1714) e Vincenzo da Filicaia (1642-1707), quest’ultimo omaggiandola dell’epiteto La Poetessa di Roma.
Da lì in avanti desiata e contesa da altre Accademie disseminate lungo Penisola — Insensati di Perugia, Oscuri di Lucca, Intronati di Siena, Immaturi della Pergola e Ricomposti di Anghiari le avrebbero garantito popolarità ed oltretutto offerto la protezione necessaria ad una donna sola in disputa coniugale — nel 1701 Petronilla si vide giuridicamente riconosciuto un sesto del patrimonio dotale, sentenza rappresentando la tanta agognata autonomia economica, oltre all’aprir uno spiraglio per la condizione delle donne in una società ad impronta nettamente maschilista, realtà da lei testata in prima persona ed emergente in espressioni istintive e intrise d’elementi autobiografici, sospesi fra stile classico, sfumature barocche e rime urlanti giustizia, quella che ad un certo punto dell’esistenza le venne elargita allorquando — alla dipartita di Francesco Massimi nel 1707 — la Paolini potè finalmente riabbracciar Angelo e Virgilio, tornando a vivere con loro, felicemente accogliendo anche la madre e ricostituendo quel calor familiare mancatole come l’aria per oltre tre lustri, poco prima del lieto evento avvicinandosi a diverse confraternite e indissolubilmente legandosi alle Carmelitane Scalze della Chiesa Sant’Egidio in Trastevere.
Aggregatasi nel 1708 anche tra le file dei Rinvigoriti di Foligno ed alleggerito cuor da grevi e soffocanti zavorre, Petronilla seguitò a coltivar scrittura, frequentar salotti letterari, organizzar adunate degli adepti accademici nella ritrovata dimora a Palazzo Massimo ed interessarsi all’arte, frattanto garantendo vivo sostegno e completa disposizione a donne che si trovassero ad soffrire difficoltà, in loro immedesimandosi sull’onda delle terribili disavventure che nel passato l’avevano tenuta in apnea emotiva.
Nel 1709 — forse per risolver questioni economiche con i cugini paterni — la rivoluzionaria verseggiatrice si recò nella Marsica in nostalgica visita ai luoghi d’infanzia, ma s’è vero che la pace attinta le funse da ispirazione, un sessennio più tardi ulterior dramma ne incupì nuovamente sorriso, al deprivarla della terrena presenza di Silvia, lutto che la sconquassò irrimediabilmente, instillando amarezza nei rimanenti anni dell’arco vitale a lei concesso, conclusosi nella serata del tre marzo 1726, le provate spoglie venendo adagiate — come da lei preventivamente indicato — nella cappella della suddetta Chiesa di Sant’Egidio, a piedi nudi, con saio e soggolo, alla maniera delle monache a lei tanto care, scelta dell’epitaffio venendo affidata, dai figli Angelo ed Emilio, al commosso e fidente amico Crescimbeni.
Immortalatasi in eterogenei componimenti — parallelamente non cedendo alle ingannevoli lusinghe della fama, solcata con placido e savio timone — colei che si definì «una donzella ch’entro un corpo caduco serba un’anima non vile», seppe traslarsi in strofe tramite l’elaborazione di vicissitudini che ne misero a dura prova l’equilibrio psicofisico, accadimenti da Petronilla Paolini ingiustamente subiti, ma straordinariamente riversati — sullo sfondo d’una fede in lei mai vacillata, costante faro in fase di tempesta — nel portentoso, penetrante, calamitico e toccante amalgama, fra strofe e sentire, d’una poesia or vulcanica e rancorosa or soave e pacificante, emblematica memoria di una donna che senza sosta cavalcò sororale e indomabile penna, in caparbia mira a raggiunta e attraversa libertà.
Non va per via fiorita anima grande, ma fia che molti e vari mostri affronti.
A Fidalma Partenide
di Autone Manturese
«Nome in Arcadia di balì Gregorio Redi Aretino,
Vicecustode della Colonia Forzata degli Arcadi, e Accademico della Crusca»
Rime degli Arcadi, Tomo decimoquarto, 1717
Io già piantai degli anni miei sul fiore
Nel patrio suolo un ramoscel di Lauro,
E opportuno dal Cielo ebbe ristauro
Con rugiade, e da me col mio sudore.
Crebbe la pianta, e al nome suo splendore
Arezia ne sperò dall’Indo al Mauro:
Ma il vulgo, che sol prezza e gemme, ed auro,
Spregiò de i rami l’infecondo onore.
E l’empia invidia, che suo scorno, e duolo
Maligna estima l’altrui gloria, e vanto,
Affascinolla, ahimè, col guardo solo.
Fidalma or tù, ch’ai così dolce il canto,
Inaridita la vedrai nel suolo,
Se co’ tuoi carmi non disfai l’incanto.
Al Cielo di poggiare ebbi ardimento
Delle bellezze tue, Donna gentile,
Sperando folle col mio basso stile
Sì sovrano trattare ampio argomeato.
Il pensiero del grande, alto cimento
Atterrir non poteo mio stato umile,
Nè coll’ardito vol temei simile
Ad Icaro infelice aver l’evento,
Che se cadrò, dicea, potranno dire:
A costui nel tentar sì nobil vanto,
La vita venne men, ma non l’ardire.
Dissi, e volai; ma quando giunsi accanto
A quel Bello, ove Uom’ mai non può salire,
si strusser l’ali, e m’annegai nel pianto.
Poiché con chiaro, e generoſo esempio
Non poteva acquistar lume di gloria,
Onde il nomasse la futura lstoria
Erostrato egualmente e folle, ed empio,
Temerario bruciò d’Efeso il Tempio,
Per tramandare a noi la sua memoria;
E ottenne, è vero, dell’obblio vittoria,
Ma come autor d’un sì nefando scempio.
Tal tu, Donna crudel, che in seno avesti
Di farti celebrar crudo diletto,
Non con illustri, ma con empi gesti,
Colle due faci, che ti accese Aletto
Nella mendace fronte, abi lasso, ardesti
Il bel Tempio d’Amor, ch’era il mio petto.
Alla Santità di N.S. Papa Clemente XI
Quegli, che spira ovunque vuole, e muove
L’umane menti, e i lor desiri accende;
Poiché nel seno al Vatican discende,
E a tuo favor l’infiamma, e lo commuove,
Egli le tue virtù celesti, e nuove
Del gran Triregno incoronate intende;
Mentre al desio comun solo contende
Il voler tuo con ammirabil prove.
Le Corone rifiuti, indi il pensiero
Pieghi nelle voglie eterne, e sì n’insegni
Di verace umiltade il bel sentiero.
Così d’immortal gloria il Mondo or segni,
Che grande sei nel rifiutar l’Impero,
E sei maggior quando Tu il prendi, e regni
Per la nascita dell’Infante di Savoia
Benché nel tuo gran Padre alta difesa
Di se viaggia l’Italia, e de’ suoi pregi,
E rinnovarli in Lui d’antichi Regi
Vera virtù di vera gloria accesa;
E miri (opra di Lui) dal Ciel discesa
La bella Pace, e scintillare i fregi
Degli aurei scudi, e di costumi egregi;
E sia fortuna alle chiar’opre intesa;
Pur di maggior letizia ora si pasce,
Ora, che scorge per divin consiglio
L’alta Immago di Lui, che in te rinasce.
E spera indi veder maggiore il Figlio
Del paterno valor, però, ch’ei nasce
A maggior uopo, ed a maggior periglio.
Del Re dell’Alpi il fanciulletto ignudo
Con la tenera man cerca la spada,
Sprezza le molli piume, e sol gli aggrada
Trovar riposo entro il paterno scudo.
Già con lo sguardo generoso e crudo
A i lontani trofei s’apre la strada:
Dato è dal Cielo, perchè solo ei vada
Contro il destin, ch’or nel silenzio io chiudo.
Nell’opre già del Genitor guerriero
Gran lampi di virtude il Mondo ha scorto,
E più ne scorgerà nel germe altero.
Prenda l’Italia pur speme e conforto,
E risvegli la mente a gran pensiero,
Chè l’antico valore è già risorto.
Che alla Dama non disconvengono gli esercizi
Letterari, e Cavallereschi.
Sdegna Clorinda a i femminili uffici
chinar la destra, e sotto l’elmo accoglie
i biondi crini e con guerriere voglie
fa del proprio valor pompa a i nemici.
Così gli alti natali e i lieti auspici
e gli aurei tetti e le regali spoglie
nulla curando, Amalasonta coglie
de’ fecondi Licei lauri felici.
Mente capace d’ogni nobil cura
ha il nostro sesso: or qual potente inganno
dall’imprese d’onor l’alme ne fura?
So ben che i fati a noi guerra non fanno,
né i suoi doni contende a noi natura:
sol del nostro valor l’uomo è tiranno.
Al Sig. Cristino Martinelli Nobile Veneto
Poiché lo stato suo l’alma comprende,
E vede il mal, che si diletta, e piace,
E conosce i suoi danni, e di sua pace
Scorge chi il bel seren turba, ed offende;
Ed ode il Cielo, e la ragione intende,
Né i suoi deliri a se medesma tace,
Perché il ver non oppone al ben fallace,
E del suo vaneggiar sdegno non prende?
Forse, perché dispera, or non s’aita;
E mentre cieca di viltà si veste,
I suoi nimici a soggiogarla invita,
Per discior le catene empie, e funeste
Armi il proprio valore, e volga ardita
In sé lo sguardo, e in sua beltà celeste.
Per la nascita del Redentore, solennizzata dagli Arcadi
nella Cancelleria Apostolica l’anno 1716
Scende il Ver dalle Stelle, e adombra,
La gloria degli Dei falsi, e bugiardi:
Arcadia, a che più pensi? ah che più tardi?
Non scorgi ancor la luminosa face?
Ecco ch’ella t’addita esser mendace
L’antica Deità, che in sen ti guardi.
Contra Pan, che t’inganna, ancor non ardi
Di sdegno? e soffri il lungo errore in pace?
A lui struggi gli altari, e squarcia il velo,
Ch’è di vane figure impresso, e vago,
E volgi a miglior uso il senno, e ‘l zelo.
Quinci il bel genio tuo sia lieto, e pago;
Poiché t’invita ad adorare il Cielo
L’Autor della natura, e non l’Immago.
Per la SS. Vergine Assunta
Pugnar ben spesso entro il mio petto io sento
Bella speranza, e rio timore insieme;
E vorrìa l’uno eterno il mio tormento,
L’altra già spento il duol che il cuor mi preme.
Temi, quel fier mi dice: e s’io consento,
Tosto, spera, gridar s’ode la speme;
Ma se sperare io vuo’ solo un momento,
Nella stessa speranza il mio cuor teme.
Mie sventure per l’uno escono in campo,
Mia costanza per l’altra; e fan battaglia
Aspra così, che indarno io cerco scampo.
Dir non so già chi mai di lor prevaglia:
So ben, ch’or gelo, ahi lassa!, ed or’avvampo;
E sempre un rio pensier m’ange e travaglia.
Era il caos confuso allor, che Dio
Della seconda mente aprì le forme:
Oscura ognuna, e sul natale informe
Si converte al principio ond’essa uscio.
Rivolta al divin lume alto desio
Mostrò d’un sì bel raggio andar per l’orme,
E allor di mille idee le vaghe torme
Usciron fuor del tenebroso obblio.
La primiera sostanza a Dio rivolta
Fu la cuna d’Amor, fu d’alimento
Quel fuoco, e crebbe poscia in Dio raccolta
Del Mondo ad idear le forme intento
Indi Amore anelò, poichìebbe sciolta
L’una, e l’altr’ala; e dispiegolla al vento.
Se alle nostre foreste avvien, che arrida,
Signore, un lampo di tua sacra luce,
Avrem virtù, ch’alti pensier produce,
E a magnanime imprese è scorta, e guida.
Noi canterem, come in tuo cor s’annida
Tutto l’onor di lui, che in Ciel riluce;
E come tua pietà muove, e conduce
L’ordine eterno, e la sua greggia affida.
Veggiam pur noi quai per lo Ciel turbato
Volgonsi nembi di terror profondo,
E quai cova tempeste Austro adirato:
Ma basterà per tranquillare il Mondo,
E ricolmar di gioia il nostro stato,
Di tua mente uno sguardo almo, e giocondo.
Il Sonno del Bambino Gesù: Sonetto
per la Ragunanza degli Arcadi, che solennizzò
nella Cancelleria Apostolica l’anno 1713,
la Nascita del Redentore
Or che tieni chiusi i lumi in dolce obblio
Il Fanciullo Divin, tacete o venti,
E voi fermate il corso, o chiari argenti,
Benché v’incalzi tra le sponde il Rio.
Vorrei fermare i miei sospiri anch’io,
Se fosse, come voi siete, innocenti;
Ma di pentito cuor l’aure dolenti
Non turban la quiete al nato Dio.
Ch’egli dormendo ancor, l’alto amoroso
Pensier ravvolge per disegno e norma
Della grand’opra, onde avrem noi riposo.
Oh dolce sonno, che per l’Uom riforma
L’antico male! Ahi che il Bambin pietoso
Veglia a dar vita al Mondo, e par che dorma!
Chi è, dicean le sovrumane menti,
Ch’ornano i Cieli e delle Stelle han cura
Costei che vien fra le beate genti
Della Luna e del Sol più chiara e pura?
Quante ha virtudi d’alta gloria ardenti!
Quanto ha valore a superar Natura!
Come ha begli occhi al sommo Sole intenti,
E il nostro insieme e l’altrui pregio oscura!
Come in sua veste ancor si riconsiglia
Giunger Costei dove ogni Fral s’obblia,
Vergine, e Madre, e del suo Figlio Figlia?
Quando s’udio del Ciel per ogni via,
E mancò possa all’alta maraviglia,
MARIA suonare, e replicar MARIA.
Quando di sé più che del Sol vestita
L’alta Madre di Dio nel Cielo ascese,
E sovra ogni altra il primo Ben comprese,
E la sua gloria immensa ed infinita:
Risplender tutti in quell’eterna vita
Vide i passati affanni, e l’aspre offese,
E un nuovo amor ne’ Serafini accese
Al Padre, al Figlio, al santo Amore unita.
E se nel basso Mondo a pro di noi
Ben cotanto potèo, che in uman velo
Altra simil non fu nè pria, nè poi;
Or che tant’alto ascende, il proprio zelo
L’orna, e le fan corona i pregi suoi,
Chi potrà dir quant’è più grande il Cielo!
Per il Santissimo Natale: Sonetto fatto
per la Ragunanza degli Arcadi del 1712
Mio cuor, credi, ed adora: eccoti avante
Al gran mistero, in cui si stringe al petto
Vergine Madre e Sposa il Pargoletto
Tuo Redentor tanto aspettato innante.
Deponi qui le così varie, e tante
Folli speranze, e ogni profano affetto;
E sia per te nelle sue fasce stretto
Ei l’Amore, ei l’Amato, ed ei l’Amante.
Vedi come a Maria risplende il viso
D’un sì bel pianto, che non fu giammai
Delle Stelle, e del Ciel più bello il riso?
Per poco, o nulla, lagrimasti assai:
Or se nol fai dal tuo fallir conquiso,
Quando in uso miglior pianger saprai?
Tempo già fu, che in solitario tetto,
Ove di Vesta s’adorava il nume
Stuolo nutrir di Verginelle eletto
Inestinguibil fuoco ebbe in costume.
Or’Io la fiamma, che nascondo in petto,
In cui pudico Amore arde le piume,
Conservo sì, che l’infocato affetto
A tutto il bel de’ miei pensier fa lume.
Simpatica favilla in sen l’accende
Figlia del merto, e di bell’opre erede,
Che sempre in cuor gentil ratta s’apprese.
Virtude alfin forza, e vigor le diede;
Febo co’ raggi ad illustrarla intese;
E la rende immortal costanza, e fede.
Stavasi in due brune pupille ascoso
Amor senz’arco al fianco, e senza strali,
E in dolce sonno il Garzoncel vezzoso
Fatto s’avea molle origlier coll’ali.
Quando il mio cuor d’accarezzar voglioso
Le belle fresche guance ed immortali,
Venne incauto a turbare il suo riposo,
E sdegni accese a null’altr’ira eguali.
Lampeggiar l’aria al muover del suo volo,
E uscir saette, per cui fuma, e stride
Tutto in faville il cuor, fu un punto solo.
Deh alcun non sia, che del Crudel si fide,
Ch’ove altri teme men, più acerbo è il duolo,
E se dorme, e se veglia, ei sempre uccide.
Spieghi le chiome irate
Minacciosa Cometa, e il guardo giri
Giove di morte a queste mura intorno.
Nubi di fiamme armate
Giove sovra di noi muova, e s’adiri,
Né splenda mai senza saette il giorno.
Colle nuove sciagure anco ritorno
Faccian l’antiche, e il lor furore insieme
Sovra l’anima mia corra disciolto.
Io con pallido volto
Non mirerò le mie sventure estreme:
Soffre il mio cuor, non teme;
E intrepida vedrò sovra il mio crine
Dal destino cader stragi e ruine.
S’avventano i disastri
Solo all’Anime grandi: Io mai non vidi
Fulminata dal Ciel capanna umile.
Suole l’ira de gli Astri
Solo tra i rischi esercitar gli Alcidi,
Né gode d’assalir petto servile,
Però ch’il fato ancor si prende a vile
Recar guerra crudele ad alma imbelle,
Che di lagrime sol coperto ha il ciglio.
Vuol fortezza il periglio,
E se contra di te s’arman le Stelle,
Tu desta omai le belle
Prove, che in nobil cuor virtù produce,
E il tenor di mia vita a te sia duce.
Tu sai, che i lumi appena
Apersi al dì, che m’incontrai dolente
Coll’aspetto crudel d’avversa sorte,
E con adulta pena
In pargoletta età vidi repente
Fin sulla cuna mia scherzar la morte.
Pianser gli occhi presaghi, e ancor non forte
Fu il mio tenero seno a i colpi esposto,
Che m’avventò dal Ciel destino ingrato.
Del genitore il fato,
A me sola palese, altrui nascosto,
Predissi; indi ben tosto
Seguiro i danni, e alla presaga cuna
Il paterno feretro unì fortuna.
Sull’offesa negletta
Trionfò l’omicida in faccia al Cielo,
Ch’immoto spettator vide lo scempio;
Né per giusta vendetta
La provvida ragione arse di zelo,
Ma tacita soffrì l’orrido scempio.
Si vide solo pullulare un empio
E vorace desio, nato nel petto
De’ tiranni congiunti, il cui furore
Estinse quell’amore
Ch’in seno anco alle fere è sacro affetto.
Fuggendo allor l’aspetto
De gli antichi Penati, e Patrii Lari,
Schernii le voglie inique e i genj avari.
Esule abbandonata,
Della vedova Madre allor seguendo,
Qual Ascanio o Camilla, il passo errante,
Ver’ la Patria bramata,
Da cui partiva il piè, volsi piangendo
Del mio ciglio infelice il guardo amante:
Languida alfin le mal sicure piante
Posai sul Tebro entro sacrate soglie,
Ove splender credea tranquilla luce;
Ma quel, che mi conduce,
Pertinace destin non cangiò voglie:
Ovunque egli m’accoglie,
Mi circonda d’affanni; e s’io mi guardo
Dall’Arco feritor, pur sento il dardo.
Nuovi ingordi desiri
Collegarsi a’ miei danni allor vid’io,
E alle ricchezze mie negar la pace;
Gli empj e ciechi deliri
Anelar sitibondi al sangue mio,
E portar delle furie in man la face.
Ed io tenera ancor, non quel che piace,
Ma quel ch’opprime a sostenere appresi;
Né furon dal mio labbro invan temute
Le funeste cicute.
Io di mia morte ragionare intesi,
Ma pure Astri cortesi,
Armando a bell’Astrea la mano invitta,
Recar’ soccorso all’innocenza afflitta.
Fortuna alfin m’accolse;
E lungo stuol d’adorator’ divoti
I miei ricchi Imenei chiedeva a gara,
Ed oh quanti raccolse
Lo splendor di mia sorte incensi e voti,
Ch’adulando porgea la turba avara!
Già cominciava ad esser lieta e cara
A me la vita, e l’aura era gentile,
E già l’alma e il pensier s’ergean sull’ale:
Quando forza fatale
De gli anni miei congiunse il vago Aprile
A strana età senile:
Io rammentai colle mie nozze allora
L’ingrate tede all’infelice Aurora.
Del Gran Pastor Latino
L’alto voler fu legge a’ miei sponsali,
E il cenno suo dettò il materno assenso.
Vide allora il destino,
Al lume di mie faci nuzziali,
Estinta la pietà, non ch’altro senso.
Del pianto mio, del mio dolore intenso
Godero i fati, e riser gli astri alteri,
Che resero crudel Giove clemente.
Ei di fasto apparente
Coprì l’orrore; ed a i potenti imperi
Cedero i miei pensieri,
Qual onda al vento, e tra l’illustri cure
Sol potei numerar le mie sventure.
Quella, che un tempo sorse
Mole tremenda a gli anni, al Tebro in riva
Già d’ossa Imperiali Urna superba;
E poscia albergo porse
A i seguaci di Marte, e, d’ozio schiva,
Dell’antico valor vestigio serba;
Quella m’accolse in sull’etate acerba,
E novelle m’offerse ingiuste pene.
Sotto titolo illustre in chiuso orrore
Varcai le più bell’ore,
E passeggiai sulle funeste scene;
Pur baciai le catene,
E in rigida prigion sfogai col canto,
Qual dolente Usignol, l’angosce e il pianto.
Quivi piombar’ ben mille
Dall’urna ampia de’ fati ingiurie ed onte,
Quale in turbato dì tallor si vede
Che alle sonore squille
Di grandini temute, in faccia al monte,
Pria scoppia il tuono, e il fulmin poi succede.
Ma il Ciel sa che non cede
Temprato alle sventure eroico petto.
Suol, qual neve, cader senz’altrui danno
In nobil cuor l’affanno;
E qual Olimpo ognor prende a diletto
De’ nembi il fero aspetto,
Tal vidi del destin l’ire schernite,
O pur belle nel sen le mie ferite.
Stanca alfin, ma non vinta
De’ sacri chiostri Io ritornai nel seno,
Ed ivi men crudel sperai fortuna;
Ma quella calma finta,
Qual in nube talor debil baleno,
Cangia sembianze, e le tempeste aduna.
Allor vidi scagliarsi ad una ad una
Nel sen nuove sventure, e i Cieli irati
Diffonder sovra me lumi fatali.
Per colmarmi di mali
Mirai sovra il mio crin gl’influssi armati
De’ miei torbidi fati
Dar fulmini alle Stelle, e tutto l’Etra
Farsi sol per mio danno arco e faretra.
Qual Filomena afflitta,
Che da rustica man vede involarsi
Gli amati parti suoi, sospira e geme;
Tal Io, nel cuor trafitta,
Lungi da’ cari Figli il pianto sparsi,
Cui tiranno voler tolse alla speme.
Ma qual onda, ch’altr’onda incalza e preme,
Succedendo a dolor nuovo dolore,
Ben presto a nuovo pianto apersi il ciglio:
D’un mio tenero Figlio,
Ch’era di questo sen parte migliore,
Morte recise il fiore;
E al materno dolor non fu concesso
Darli nel suo morir l’ultimo amplesso.
Volea ben l’alma forte
Seguir l’orme del Figlio, e sulle sfere
Indivisa da lui posar le piante;
Ma, rifiuto di morte,
Giacque sull’egre piume anco il volere,
Ch’a costringere il Ciel non è bastante.
Chiedei pietà con pallido sembiante
A quelle man’, nel cui poter commise
Colle ricchezze mie me stessa il fato;
Ma nel misero stato,
In cui posta m’avea, sì mi derise,
Che volle in strane guise
Di quello, che gli diedi, ampio tesoro
Negare a’ pregi miei debil ristoro.
Alla parte divina
Delle provvide leggi i voti offersi,
E dal soglio di lei sperai sostegno.
E ben l’alta Reina,
Turbata in ascoltar quanto soffersi,
Fiammeggiò di pietate, arse di sdegno,
Né l’orgoglio soffrì, né il crudo ingegno
Delle garrule turbe al ver nimiche:
La potenza schernì, spense la frode;
Ed io soccorso e lode
Ebbi per man dell’auree leggi amiche.
Spariro allor l’antiche,
E nuove pene; e per me allor giocondo
Sorrise il Fato, e tornò bello il Mondo.
Quella Ruota suprema,
Che i genj di fortuna a scherno prende,
E dell’uman poter sprezza le voglie;
Quella, che solo ha tema
Della ragion, cui d’ubbidire intende,
Dalla cui sacra mente il moto toglie;
Quella le mie speranze in sé raccoglie.
Ed io spero da lei l’intiera pace,
E ben scorge ch’io sono inerme e sola,
E quanto a me s’invola
Vede per man dell’altrui forza audace.
Benché il mio labbro tace,
I miei danni comprende; e fia che segua
Suoi giusti moti, onde sé stessa adegua.
Non perché vesta il piede
I tragici coturni, avvien che sempre
Abbia la scena sanguinoso fine:
Spesso al dolor si vede
Seguir la gioia, e con amiche tempre
Variarsi fra lor regno e confine.
Pria che la tarda età c’imbianchi il crine,
Con moderato cuore i dì godiamo,
E sien sparse d’obblio le nostre cure.
D’istabili sventure,
Come scherzi del Ciel, giuoco prendiamo;
E se talor veggiamo
A vicine battaglie il campo aperto,
Pensiam che da i cimenti ha vita il merto.
Quando dall’urne oscure
Placida notte amica
Licenzia i sonni, e l’ombre molli usate,
E cuopre il volto della madre antica
Sotto le tenebrose ali stellate,
Le più penose cure
Tuffansi in Lete; e in ramo, in bosco, e in sponda,
L’augel, la fera, e l’onda
Pur trova pace; e posto in bando il duolo,
L’ira obblia, frena il moto, e acqueta il volo.
Per me pace non viene;
E nel comun riposo
Sento farsi più grave il mio tormento.
Misuro allora con pensier doglioso
Quanti Cloto ha filati anni di stento,
Per le mie acerbe pene;
E duro campo di battaglia è il letto
All’agitato petto,
Sicché nel Ciel par ch’adirati gli Astri
Veglin solo a destare i miei disastri.
Ma se pochi momenti
Nega di posa il fato
All’intrepido cor, sull’Arpa d’oro
Venga lo spirto di virtute armato,
E dalle piaghe mie versi un tesoro
D’armoniosi accenti.
Sentan l’età future, e n’abbia scorno
Ogni altro stile adorno,
Com’io raffreno in sulle luci il pianto
Per bella gloria, e lo converto in canto.
Poetico furore
Agiti l’alma, e affretti
Sull’arco armonioso i sacri strali;
Ed indi ben mille ferite aspetti
L’alta cagion de’ miei perversi mali.
Nel bel campo d’onore,
Fatta scudo a me stessa, innalzo un grido,
E il mio martir disfido:
L’affronto, e il vinco; e sotto giogo acerbo
Traggo il reo dal sepolcro, e in vita il serbo.
Incatenato poi
Della gloria al confine
Guidatel voi, Castalie suore elette,
Ove l’irreparabili ruine
Pianga con luci di veleno infette,
Poiché sin là con voi
Giungere a me non lice, e troppo ho stanco
Per tante cure il fianco.
Altri pur giunga al sospirato lito:
Ché a me basta l’onor d’averlo ardito.
I primieri vagiti
Udì dalla mia cuna
Con torvo aspetto empio Saturno, e fiero;
E i primi pianti la crudel fortuna
Serbò per semi del suo sdegno altero.
Con turbini infiniti
Scosse il tenero fior de’ miei verdi anni,
Multiplicando affanni,
Maligna stella, e i giovanili allori
Pianser per altro che per folli amori.
Se di gemme natie
Arricchì le mie fasce,
Che com’Idoli suoi il volgo adora,
Oh quante dure inusitate ambasce
Sott’altro manto vi coperse ancora!
Delle rapaci arpie
Pendon, disperse anch’elle in rei consigli,
Da i sanguinosi artigli;
Né v’è chi n’abbia pensamento o cura,
Toltane la mia cruda aspra sventura.
Voi, che nel Ciel movete,
Intelligenze eterne,
I varj aspetti di tant’astri, e tanti,
Perché nel giro delle sorti alterne
Sol per me siete immobili e costanti?
Ma se così volete,
Al sesso imbelle altr’arme non avanza,
Che altrettanta costanza:
Non è poca vittoria e poca palma
In debil spoglia trionfar coll’alma.
Bella Virtù reina,
Tu, che del vero Giove
Pallade uscisti dall’eterna mente,
Seconda tu le gloriose prove,
E tu abbassa per me l’alta possente.
Di luce alma e divina
Cuopri l’oscura mente, ond’io men vada
Per men battuta strada,
Calcando inaccessibili sentieri
Col petto esposto a gli Aquilon’ più fieri.
Se la superba e cieca
Saettatrice infesta
Della terrena spoglia, ov’io son chiusa,
Oltraggio a fiori momentanei appresta
Con fredda mano in rio veleno infusa,
Sollievo all’alma arreca,
Togliendo il peso alle doppie ali, ond’ella
Alla natia sua stella
Si volge, e il molle vaneggiar de’ sensi
Mira con scherno da quegli orbi immensi.
All’erto della gloria
Dov’eterne ghirlande
Fanno ombra illustre all’onorate fronti,
Non va per via fiorita anima grande,
Ma fia che molti e varj mostri affronti.
D’Alcide la memoria
Non langue ancor per volger d’anni, e l’arte,
Più che in fugaci carte,
Intorno a i marmi e intorno a i bronzi suoi
Suda e risuda a immortalar gli Eroi.
Dunque l’ampia faretra
Vòti pur nel mio seno
Nimica sorte; avrò sempre costante
(Come di Pietra il nome) il cor ripieno
Di tempre d’inflessibile diamante.
Sì sì, su questa pietra
Arruoti l’arme, e n’usciran faville
Di gloria a mille a mille,
E sveglieran l’incendio, in cui desio
Morir Fenice, e superar l’obblio.
Canzone epitalamica per le nozze del Sig. Conte Fermano Bichi,
e della Sig. Vittoria Chigi, Sanesi.
Sin da quel primo istante,
Che uscir’ di mano del gran Fabbro eterno
I Cieli, il Sole, e le minute Stelle,
Sciolse Amor l’ali, e di tant’opre, e tante
Per comando di lui prese il governo,
E ‘l Mondo empì dell’altre cose belle.
Ei d’onesto rossore
Sparse le guance della prima Aurora;
Per lui tutta candore
Girò del Sol la luminosa suora.
Da i Poli opposti nelle parti estreme
Si vagheggiaro insieme
Gli Astri con gli Astri; e del suo fuoco pieno
La Terra ornò di mille fiori il seno.
Amor, che sempre intento
Al primiero suo fine il soglio aurato
Tien di ragione, e i bassi sensi affrena,
Che nulla ha parte dell’infausto evento,
Per cui piangon le selve Adon svenato,
O d’Oreste, e Medea piange la scena;
Amor, non quel c’ha infetta
D’un velen dolce, che piacendo ancida,
Mortifera saetta
Per chi dolce ragioni e dolce rida;
Ma quel, che vola oltre il confin d’un viso,
E, nato in Paradiso,
Stringe in nodo di fede i servi suoi,
Padre fecondo di famosi Eroi;
Or questo i santi chiostri
Scorse del Cielo in poco men che il lampo
Non esce dalle nubi; e vide intorno,
Incliti Sposi, che degli Avi vostri,
Famosi in Pace e gloriosi in Campo,
L’alme splendean nell’immortal soggiorno.
Oh di che gloria vide
Il seggio empir della natia sua stella
Non favoloso Alcide,
Per cui Roma si feo più chiara e bella!
Mille altri vide in veste d’oro e d’ostro
Lumi del secol nostro,
De’ quai non langue, o perdesi memoria,
Di poema degnissimi, e d’istoria.
E fra sé disse: “Or quale
Donna sarà fra le tant’altre elette,
Che rinnuovi di loro il Germe augusto?”
E qui tentò la punta al maggior strale,
Che scelse fra mill’altre auree saette,
Di cui va sempre il destro fianco onusto;
E come al Ciel sereno
Momentaneo vapor vibra sé stesso,
E fugge in un baleno,
Quasi tema degli Astri il bel riflesso,
Tal ei spiccò dagli alti giri il volo,
E rise a destra il polo,
Quando il mirò di Rose d’oro ornato
Starsi nascosto di VITTORIA a lato.
Ivi, com’Uom ch’aspetti
E luogo e tempo all’onorata impresa,
Invisibile altrui, venne e rivenne.
Sassel colei, che in generosi affetti
Sentì talor l’onesta mente accesa
Al moto altier delle battute penne.
Egli d’ambrosia asperse
Le soavi parole, e per consiglio
Di lui, che vi s’immerse,
Si regolò la maestà del ciglio.
Se mai per gli odoriferi mirteti
Mosse ella i passi lieti
Della Paterna Villa, Amor gli apparve
Coll’ombra grande d’ALESSANDRO, e sparve.
Pur venne il dì, che l’arco
Riprese, e voi foste, FERMANO, il segno,
E n’andò poi per tutta Italia il grido.
Oh quante volte egli v’attese al varco
Come il più saggio Cavaliere, e degno
Là ‘ve l’Aquila vostra ha regio il nido!
Nel magnanimo core
Tutte s’uniro le virtudi, e fero
Al ben concetto ardore
Con presagi di gloria un plauso altero,
E vi dipinser nella pura mente
Con piacere innocente
I dolci frutti, che n’andran sicuri
Di ramo in ramo a i secoli futuri.
Chi potria dir con quanto
Gaudio e con quanta gioia, a voi conversa,
La Vergine sublime il volto, e il petto
Ornossi, e lieta delle grazie accanto
Dall’aurea chioma inanellata e tersa
Sciolse il bel velo, e Amor n’ebbe diletto?
Come i caldi desiri
Pasceste voi ne i vaghi occhi sereni,
Ch’agli onesti sospiri
Splendean d’un non so che celeste pieni?
Non vide mai per le Toscane strade
L’altera alma Cittade,
In cui valore e cortesia s’apprezza,
Più nobil fuoco per maggior bellezza.
Godete, Alme felici:
Ecco Imeneo scuote la face, e porge
Materia illustre a i più famosi Allori.
Ciò che maggior di te, Febo, predici,
Ove il lume tuo manca, ove risorge,
È poco premio a i fortunati amori;
E voi su i CHISII MONTI
Spiegate pure al Ciel volo indefesso,
Cigni dell’Arbia, e conti
La nostra etade in lor più d’un Permesso.
Di penna in penna, più che gemme ed oro,
Vadano i nomi loro,
Come n’andrà la desiata prole
Per quanto stende il suo cammino il Sole.
Canzon, che nata in solitario loco
Men culta andrai d’altre più belle in schiera
A miglior Cielo, e in più tranquilla stanza,
Se t’invaghio speranza
Di farti serva della Donna altera,
Non sarà scarso premio al basso e tardo
Ufficio tuo delle sue luci un guardo.
Orché la selva annosa
Per la stagion nevosa
Priva è di frondi, e il colle
L’ispida fronte ignuda al Cielo estolle,
Né da i gelati umori
Dell’inceppato rivo han vita i fiori,
Io, che intrecciar disegno
Serto sublime, e degno
Al più famoso e chiaro
Pastor, che va del gran Sincero a paro,
L’ardita mente invoglio
D’un acceso desio più che non soglio.
L’arbor, che già sul Tebro
Fu d’alto onor tutt’ebro,
E che di fronde aprica
Coperse un dì la maestade antica,
Servami a farti onore,
O degli Orfei Toscani Orfeo maggiore:
Quei, che cantò di Bice,
Spirto immortal felice,
E quei, che in stile industre
Sorga rendeo col dolce pianto illustre,
Domando gli anni rei,
Appena porian dir quel che tu sei.
Arcadia il sa, che intese
Nelle Febee contese
Il tuo bel vanto altero,
Cui null’altro pareggia uman pensiero,
E l’Arno il sa, che scerse
Da lunge il merto, e i primi onor’ t’offerse.
Se si leva sull’ale,
Dov’Uom di rado sale,
La mente tua va lieta
Per novello sentiero oltre ogni meta;
Ed Io, che l’opra indago,
Ne’ voli suoi le mie bassezze appago.
Come l’alta sorgente
Del tutto il Cielo ardente
Muove, ed amando invia
Virtù, ch’il tutto a sé converte, e cria,
Nel sollevarsi all’etra
Puote a noi sol ridir l’aurea tua Cetra.
Per te piena di luce
L’età nostra riluce,
Sicché d’invidia accende
Le future degli anni alte vicende;
Se le passate infide
Glorie oscurando, il pregio lor deride.
Canzon, non basta un serto sol d’alloro
Al Pastor che tra noi
Può contar colle stelle i pregi suoi.
Gran Saggio, a cui d’invidia, o di fortuna
Le temerarie offese
Non posson mai l’imprese
Turbar, che Febo illustra ad una ad una,
Se sei con nuovo esempio
Delle bell’arti sue Custode e Tempio;
Qualor della tua mente in sé perfetta
Raggio possente e santo
Torna a svegliarmi il canto,
Quasi io non fossi più, qual son, negletta,
Sull’ali, ancorché scarse,
Sentomi l’alma infin al Cielo alzarse.
E tento allor sovra il poter di Donna
Mandar la tua virtude
Di là dove il Mar chiude
L’una e l’altra d’Alcide alta Colonna:
A tuo nome mi volgo,
Mentre per lui voti di gloria io sciolgo.
Come d’intorno all’immortale e solo
Augel degli altri il coro
Con ossequio canoro
Nelle spiagge d’Arabia affretta il volo,
Poiché risorto il vede
Delle ceneri sue padre ed erede;
Così qualunque sia Cigno felice,
Ch’oltre l’uso mortale
Spieghi la voce e l’ale
Per la bella d’Italia alma pendice,
Ogn’altro lume a sdegno
Prende, e s’inchina al tuo sublime ingegno.
In me vibrò sotto contraria veste,
D’atro veleno infuse,
Nimica delle Muse
Fortuna rea mille saette infeste,
Onde mal nota al Mondo
Per me non resta il bel viver secondo.
Musa, pria che t’additi altro cammino
La sua penna famosa
Per insolita via, siedi e riposa.
Queste son pur l’elette
Molli d’Arcadia erbette,
Ch’ingemma il Ciel di non caduchi fiori.
Odo i saggi Pastori
Cantar lieti e cortesi,
Più che d’Amor, di bella gloria accesi.
Or qual ne i sacri lari
De i Genj tutelari
M’ispirerà virtù, che umile invoco,
Perché degli anni a gioco
Tessa in stil peregrino
Al dotto Alfesibeo serto divino?
Nel margine de’ fonti,
O sul fianco de’ monti
Qual ramo o fior degno dell’opra sia,
Mostrami tu, Talia:
Tu, che con dolce aspetto
Porgesti il nappo al tuo Pastor diletto.
Sai ben come il suo canto
Dolce risuona, e quanto
Porge lume d’onore a i carmi Toschi.
Da questi ombrosi Boschi
Quante lo Spirto degno
Scrisse famose e chiare opre d’ingegno!
Ma perch’abbian tra noi
Corone i merti suoi,
È scarso il Sol forse di raggi ancora;
Né la vermiglia Aurora
Tanti fiori apre al giorno,
Quanti dovriansi alle sue chiome intorno.
L’alta Città Reina
Del mondo, a cui s’inchina
Da Borea ad Austro ogni Monarca, e Duce
Aggiunge luce a luce,
Per le sue dotte carte,
Che fanno Arcadia illustre in ogni parte,
Sin là dove si noma
L’onor d’Italia, e Roma
Giusta lode di lui giunge e risuona;
E questa mia Corona
Andria di gente in gente,
Se avesse un guardo sol dal Gran CLEMENTE.
Serbisi dunque in queste
Luminose foreste
Il suo gran Nome ad ogni età palese;
Né teman poi l’offese
I Tronchi, ove il segnaro
Titiro e Melibeo, del tempo avaro.
Or dal colle Pimpleo
Sin dove il fonte Ascreo
Va con passi d’onor di riva in riva,
Alzate, Muse, un viva
All’aurea Cetra, e degna,
Che sovra i pregi suoi trionfa e regna.
Le suore tue, bassa Canzon, raggiungi,
Né t’innoltrar più lungi:
Di’ loro, per mio avviso,
Ch’all’erta via forza inegual ravviso.
Mentre già sazio dalle piagge apriche
Tornava il gregge, e passo passo intorno
L’ombre scendean dalle montagne antiche,
“Diman”, diceami Alfeo, “col nuovo giorno
Nascerà l’Anno nuovo: or piaccia al Cielo
Dartelo qual più vuoi di grazie adorno.”
Io, che credea che col purpureo velo
L’Alba accogliesse il nobil parto, e il Sole
Lo difendesse dalle nevi, e il gelo,
Quando è più oscura la terrena Mole,
Ed a custodia delle bianche Agnelle
Il fidissimo Can vegliar più suole,
In parte andai dove tra queste e quelle
Più basse collinette ergesi un monte,
Atto a mirar più da vicin le stelle.
E della parte Orientale a fronte
Ferma, l’opra attendea del gran natale,
Come Uom ch’aspetti illustri cose, e conte.
Or quivi Asterio il buon Pastor, che vale
Tanto col disco e colla fromba, e tanto
Sovra ogni uso mortal cantando sale,
Venne per l’orme mie pensoso, e intanto
Non s’era l’Aura mattutina ancora
Desta; ed in dir così, sedemmi accanto:
“Fidalma, e qual desio ti trasse fuora
Della capanna in sì rimota parte,
Pria ch’esca in Cielo la vermiglia Aurora?
Forse hai vaghezza di mirar quant’arte
Pose l’eterna infaticabil Mente
In quei che noi chiamiam Saturno e Marte?
O qualch’altro pensier mesto e dolente
Ti toglie al sonno, onde la stanca salma
Tutto il rigor della stagion non sente?
Amor non è: ché la tua gelid’Alma
Amor non prova; o se lo prova, è solo
Desio di gloria, avidità di palma.
Risposi allor: “Come! non sai che il Polo
Sta per dar fuori l’anno nuovo? ed io
Qui venni a vagheggiarne il primo volo.
Mel disse Alfeo quando passammo il rio,
E al picciol guado Fronimo divise
Il numeroso suo dal gregge mio.”
Asterio allor del mio pensier si rise,
E in parlar grave del novello giorno
Soavemente a ragionar si mise:
“Volgesi il Ciel con tante stelle intorno
All’ampia Terra, e la feconda, e muove
Virtù, ch’empie di frondi il faggio e l’orno;
Né perché colassù Venere o Giove
Cangino aspetto, fia che il basso Mondo
L’antichissime sue forme rinnuove.
Sempre hanno influsso placido e giocondo
Gli Astri; e per scusa dell’uman fallire
Altri infausto lo crede, altri secondo.
Dal nostro or regolato, or reo desire
Pendon le sorti, e volontario è il danno,
Che muove in petto nostro amore ed ire.
Né creder tu, perché risorga l’anno,
Che i primi ordini suoi muti natura,
Se il vero udii pur da color che sanno.
Questa, che al tempo istabile misura
Noi diamo, è come in picciol vetro accolta,
Che in sé sempre si volge, arena impura.
Ei dalla prima memorabil volta,
Che sciolse i vanni, irreparabilmente
Fugge, e il nostro pregar mai non ascolta.
Là nell’ampie Cittadi usa sovente
La sciocca turba a vil guadagno intesa
Favoleggiar di lui per l’Uom potente.
Augura lieta ogni futura impresa,
E cuopre il cor sotto contrario manto,
Conversa in lode la celata offesa.
Fidalma mia, quanto è diverso, oh quanto
Il nostro innocentissimo costume
Da chi mutata ha la menzogna in vanto!
Le mense liete, e l’oziose piume
Con tanti vani titoli d’onore
Han quasi tolto alla ragione il lume.
Andiam, ché già del suo natio splendore
S’imbianca il Cielo, e muove il corso usato
Il bel Pianeta che distingue l’ore.
Tu godi intanto il tuo felice stato.
E in ogni tempo il buon voler sia scorta
A quanto cela a gli occhi nostri il Fato.
Ei d’alto regge il corso agli anni, e porta
Gli ordini eterni di colui che ha cura
Di noi, ch’andiam per via smarrita e torta.
Goditi il ben, che nella mente pura
Serve di sprone a miglior voglia, e sprezza
Ciò ch’un affetto reo cangia in sventura.”
Più volea dir l’altera mente, avvezza
A maggior’ cose, del Pastor felice,
Tanto ebbe in grado allor la mia sciocchezza.
Or nella istessa forma a te predice,
Fidalma, il resto del comun viaggio:
Ché in ogni luogo, e in ogni erma pendice
Va lieto il Forte, ed è contento il Saggio.
Opere tratte da:
Alcune immagini inserite negli articoli pubblicati su TerzoPianeta.info, sono tratte dalla rete ed impiegate al solo fine informativo. Nel rispetto della proprietà intellettuale, sempre, prima di valutarle di pubblico dominio, vengono effettuate approfondite ricerche del detentore dei diritti d’autore, con l’obiettivo di ottenere autorizzazione all’utilizzo, pertanto, laddove richiesta non fosse avvenuta, seppur metodicamente tentata, si prega comprensione ed invito a domandare immediata rimozione, od inserimento delle credenziali, mediante il modulo presente nella pagina Contatti.