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Nâzım Hikmet, poesie di speranza, amore e libertà

Niente avrai da fare, tranne vivere.
Nâzım Hikmet

Incantevole terra d’incontro d’Oriente ed Occidente, la Turchia, nella di sé trama di molteplici e coesistenti identità, affiorante e sublimata da eterogeneo movimento letterario, ed eredità dell’esser stata allo scivolar del tempo traversata e ricamata da innumerevoli, grandiose civiltà, al sorger del XX secolo, 15 gennaio 1902, accolse illustre poeta, romanziere, drammaturgo, regista e sceneggiatore, Nâzım Hikmet, in Salonicco — città sin al 1912 annessa all’Impero Ottomano — nato a sublimazion d’unione, celebrata nel 1900 e spentasi diciassette anni dopo, tra l’agente diplomatico, Hikmet Bey (1876-1932) e la pittrice d’origini polacco-ugonotte, Celile Hanim (1880-1956), figlia del linguista, educatore e generale osmanico, Hasan Enver (1857-1929).

Nâzım Hikmet crebbe pertanto in un contesto familiare aristocratico e culturalmente elevato, dacché oltre all’indole artistica della madre, peraltro amante della poesia francese e fervida estimatrice di Charles Pierre Baudelaire (1821-1867) e d’Alphonse Marie Louis de Prat de Lamartine (1790-1869), a manifestare passione letteraria, altresì precedendone estro scrittorio, furono sia il nonno paterno, Mehmet Nâzım (1840-1926) — traduttore, autore di poesie, racconti brevi e governatore di varie province durante il regno del sultano Abdülhamit II (1842-1918) — sia il bisnonno materno, politico e militare, Mustafa Celâleddin Paşa (1826-1876), professante personale ideologia panturchista nel libro, edito nel 1870, Les Turcs anciens et modernes.

Istruzione primaria e secondaria, Nâzım Hikmet svolse presso rinomati istituti scolastici di Istanbul e a tredici anni, aurorali versi impresse all’osservar incendio divampato di fronte alla propria abitazione e a distanza di pochi mesi, concepì patriottiche rime sullo sfondo della Prima Guerra Mondiale, destando quindi intimo anelar di personale espressività poetica e, illuminante intuizione ascoltando di ricercar del linguaggio innovazione, riferimento prese il professore accademico, dipoi, mentore, Yahya Kemal Beyatli, pseudonimo di Ahmet Agâh (1884-1958), adoperatosi perché l’allora diciassettenne aspirante cantore, sentisse l’ebbrezza d’una pubblicazione, materializzatasi fra le pagine dell’all’epoca autorevole rivista istanbuliana, Jeni Mècmua.

Ho udito un lamento all’ombra dei cipressi
e mi son chiesto se qualcuno stesse nei dintorni piangendo
o se fosse il vento, in questo luogo solitario,
ricordando un amore passato.
Un tempo pensavo che i morti ridessero
al calar di nere cortine sugli occhi,
adesso invece mi domando
se i defunti che la vita amarono
all’ombra dei cipressi, piangono ancora

Conseguimento del diploma si concretò, al 1918, presso il Liceo Navale di Heybeliada, la seconda, per estensione, fra le Isole dei Principi — arcipelago situato nel Mar di Marmara; tuttavia, nel 1920, sopraggiunta severa pleurite, costrinse Nâzım Hikmet a concluder dunque breve esperienza in veste d’ufficiale di marina.

Nell’anno successivo — periodo in cui la Guerra di liberazione turca (1919-1923) infiammava sentimenti, quanto ottenebrando cieli spezzava esistenze — assieme agli amici, Yusuf Ziya Ortaç (1895-1967), Ahmed Vâlâ Nureddin ‘Va-Nu’ (1901-1967) e Faruk Nafiz Çamlıbel (1898-1973), partì per İnebolu, Anatolia, coll’intento d’offrir contributo alla lotta per l’indipendenza.

Giunti a destinazione, Nâzım Hikmet e Va-Nu diressero passo verso Ankara, decisi a raggiunger sede del movimento di liberazione, sennonché, incontro con Mustafa Kemal Atartük (1881 circa -1938) — futuro primo Presidente della Repubblica di Turchia — non ne cambiò programma: egli difatti propose loro di rediger lirica perché fungesse da esortazione per i rimasti a Istanbul, a partecipar al conflitto e tale fu l’apprezzamento al legger i versetti richiesti, da riservare alla coppia di compositori un impiego come docenti in un istituto di Bolu, d’impronta conservatrice, aperta ostilità dei funzionari locali non tardò a palesarsi di fronte alle concezioni progressiste dei due neo-insegnanti, in ultimo convincendoli a viaggiar alla volta dei confini sovietici.

A Mosca, Nâzım Hikmet approfondì studi universitari in economia e sociologia, dapprima avvicinandosi al socialismo, quindi appassionandosi al pensiero di Karl Heinrich Marx (1818-1883), infine nutrendo profonda e duratura stima nei confronti del rivoluzionario Vladimir Il’ič Ul’janov, ovverosia, Lenin (1870-1924), all’indomani d’averne intessuto conoscenza nella capitale, dove altrettanto poté relazionarsi con i poeti Sergéj Aleksándrovič Esénin (1895-1925) e Vladimir Vladimirovič Majakovskij (1893-1930) — voce d’eccellenza della Rivoluzione d’ottobre — e col regista, Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d (1874-1940).
 
Biografia ed opere di Nâzım Hikmet, scrittore e poeta turco, tra i più significativi del panorama letterario internazionale • TerzoPianeta.info • https://terzopianeta.info
 
Levata denuncia da Nâzım Hikmet su massacro degli armeni ed avversità alla propaganda politica, la Turchia ne impediva frattanto desiderato rimpatrio che, per effetto di gradita amnistia, gli venne concesso nel 1928: ad avvenuto rientro, l’anno seguente, il poeta entrò nelle file del Partito Comunista e si dedicò a stesure di vario genere, perlomeno finché ipotizzata attività terroristica non gli costò circa un sessennio di prigionia e lavori forzati.

Riconquistata libertà nel 1935, Nâzım Hikmet convolò a nozze con Piraye Ran (1906-1995) ed animo riversò nella scrittura, alla luce dando avanguardiste composizioni in versi liberi, verseggiare per cui si sarebbe contraddistinto nel panorama letterario nazionale, sebben popolarità fortemente osteggiata dalle autorità istituzionali, ciecamente intimorite dalla potenziale valenza sediziosa e antimilitarista delle strofe, di conseguenza censurate con prevaricante prontezza e a ufficiale riprovazione affiancandosi l’apertura d’ulteriore processo dall’esito fatale, poiché ad un solo triennio dal precedente rilascio, condanna a ventotto anni e quattro mesi di reclusione — per incitamento dei cadetti alla rivolta e attività politica internazionale ritenuta minante il regime — piombò sullo scrittore, accuse subendo anche in virtù del libro, L’epopea di Sherik Bedrettin, in cui descrisse l’insurrezione contadina del 1500 contro l’Impero Ottomano.
 

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Nâzim Hikmet nella prigione di Bursa

 
Prigionia fu ulteriormente gravata da trattamento detentivo inumano, segnato da torture, inducendo Nâzım Hikmet, dall’8 al 23 aprile e dal 2 al 19 maggio 1950 — medesimo periodo in cui fu insignito del World Peace Council prizes — ad uno sciopero della fame in protesta, incorrendo in arresto cardiaco ed irreversibile compromissione della condizione di salute, nondimeno dalla sua cella, caparbiamente perseverando nell’erudire, lodare e sostenere artisti quali, fra gli altri, lo scrittore Orhan Kemal, al secolo Mehmet Raşit Öğütçü (1914-1970), il romanziere, novellista e intellettuale Kemal Tahir (1910-1973) e il pittore İbrahim Balaban (1921-2019), al quale donò colori e pennelli in volontà d’incoraggiarlo ed in aggiunta istruendolo a discipline scolastiche che non aveva potuto apprendere — visto l’aver frequentato esclusivamente tre classi nel villaggio di provenienza – fra i due instaurandosi un autentico, fidato e duraturo legame di sincera amicizia.

Nâzım è stato condannato alle punizioni più terribili. Mi ha detto che è stato costretto a camminare sul ponte di una nave fino a non sentirsi troppo debole per rimanere in piedi, quindi lo hanno legato in una latrina dove gli escrementi arrivavano a mezzo metro sopra il pavimento…Il mio fratello poeta ha sentito le sue forze mancare: i miei aguzzini vogliono vedermi soffrire. Resiste con orgoglio. Comincia a cantare, all’inizio la sua voce è bassa, poi sempre più alta fino ad urlare. Ha cantato tutte le canzoni, tutti i poemi d’amore che riesce a ricordare, i suoi stessi versi, le ballate d’amore dei contadini, gli inni di battaglia della gente comune. Ha cantato qualsiasi cosa che la sua mente ricordasse.
E così ha vinto i suoi torturatori.
Pablo Neruda

 

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Ambedue insigniti del Premio Internazionale, Pablo Neruda e Nâzim Hikmet, al World Peace Council prizes, 1950

 
Il caso ebbe risonanza mondiale e insistente pressione d’una rappresentanza internazionale — comprendente nell’ampia ed elevata enumerazione, Jean Paul Charles Aymard Sartre (1905-1980), Pablo Ruiz y Picasso (1881-1973), Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, Pablo Neruda (1904-1973), Paul LeRoy Bustill Robeson (1898-1976), Samuel Rosenstock, Tristan Tzara (1896-1963) — riuscì nell’intento di far conceder a Nâzım Hikmet altra grazia, quantunque serenità del poeta restando ancor lontana, poiché ad attenderlo attentati di matrice governativa e cuor lenimento trovando nel dello spirito respiro, quanto nell’amor compiutosi in promessa all’altare con la traduttrice, Münevver Andaç (1917-1997), dalla qual dono di paternità avrebbe ricevuto in, Mehmet Ran (1951-2018).

Strappato all’ovattante atmosfera del focolare da un imposto esilio nel 1951, Nâzım Hikmet riparo ricercò all’ombra del Cremlino, per poi girovagar l’Europa e richieder asilo politico alla Polonia, da cui acquisendo peraltro cittadinanza otto anni più tardi — dato l’essergli stata sottratta la nativa — pur continuando a risiedere nella metropoli rutena, precisamente al Peredelkino, ove mai gli venne concesso bramato ricongiungimento familiare, fermamente ostacolato dalla Turchia.

Nel 1952, quantunque nuovamente colto da infarto, Nâzım Hikmet si propose abbracciar umano patrimonio intraprendendo lungo viaggiar attraverso continenti ed ogni panorama tramutando poi in gemma da porger a penna e ciascuna, al correr del tempo, germogliata e fiorita in articoli giornalistici, testi teatrali, satire, ilari racconti ne “Il nuvolo innamorato e altre fiabe” ed elegiaci componimenti densi di significato umano e sociale, sentitamente a strenua difesa di precari, disagiati, indifesi o chiunque fosse invisibile agli egoismi d’una società ritenuta fondamentalmente iniqua, ma, soprattutto, eclettico artefice di soavi rime, traboccanti profonda passione per la vita, la gente semplice, le campagne, il mondo agreste, per il figlio e per le donne amate, culmine del lirismo esplodendo in Poesie d’amore, celebre raccolta per eccellenza rappresentante il carisma dell’evoluzione che il romantico vate azzardò con impareggiabile spirito avanguardista, scavalcando i limitanti sbarramenti del metro sillabico e sfociando in peculiare stile.
 
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Al tramontar d’esistenza, da fato medesimo che tristemente ne tratteneva sguardo lontan dai natii orizzonti, Nâzım Hikmet ricevette riprovar fremiti d’amor incantato restando al conoscer, nel 1955, Vera Tulyacova (1932-2001), la qual, inizialmente reticente, a lungo e serrato corteggiamento desistette e il 18 novembre 1960, suggellaron sorta d’ancestrale ritrovarsi d’anime gemelle.

Amo in te le cose lontane,
amo in te l’impossibile…

Inseparabili difatti, vissero e condivisero ogni attimo almen fin al 1963, allorché Nâzım Hikmet, alle 6:30 di lunedì 3 giugno, ad attacco di cuore stavolta porger resa dovette, cedendo all’ingresso di residenza — nella succitata Peredelkino — di sé lasciando imperitura memoria d’un uomo, dall’amica, poetessa e traduttrice Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, nota al nome Joyce Lussu (1912-1998) magistralmente tratteggiato, incastonando aneddoti tra preziose istantanee di poetica e nuda realtà, nella biografia, Il turco in Italia.
 

Vendetta
1915

Gridano vendetta
Le moschee messe in croce
Gridano vendetta
Gli innocenti trafitti
Gridano vendetta
Gli orfani abbandonati
Gridano vendetta
I nonni e i vecchi
Gemono i cieli
Gridano vendetta
Grida vendetta la Rumelia
E tu, figlio di tanta stirpe,
A tanto lamento, taci?

 


 

Alla mia razza
1915

Un tempo tu, razza mia,
Eri sovrana di dominatori
Che l’Europa facevano tremare,
Che conquistarono Istanbul.
Tu eri gran signora di guerrieri
Che lottavano in steppe infuocate.
Quando un tempo l’Europa
Annaspava tra stagni di ignoranza,
Eri tu, razza mia, padrona di sapienti
Che una vivente scienza dominavano.
Perché oggi l’Europa
Deve lanciarti la sua sfida?
Perché oggi, perché,
Quel covo di ignoranza
Deve infliggerti lezioni?

 


 

Mevlânâ
1920

La corona del nulla cingeva la mia fronte
Dall’animo svaniva con letizia il dolore
Scoprivo in comunione rimedio per il cuore
Sono anch’io tuo adepto, Mevlânâ.
Tenebre penetravo all’eterno frapposte
Provavo amore vero, mi elevai all’Empireo
Purificato in cuore io raggiunsi la pace
Sono anch’io tuo adepto, Mevlânâ.

 


 

Viandante
1920

Se vai all’Est, viandante, domanda la rovina
pencolante di pietre istoriate e venerande.
Là combattono i giovani feriti
che versano del sangue ultima goccia.
Se vai all’Est, viandante, sosta nelle province
dove la primavera di sangue si è irrorata
e le armi nei giardini cozzano sulle rose,
ricorda i cuori che quel luogo rimpiangono.
Viandante, se domani giungerai fino all’Est,
il fiore che strappavi alla vittoria
stretto in mano, aspetta sorga il sole
dietro i monti nevosi che si spingono su al cielo.

 


 

Orchestra
1921

Ascoltami,
scemo!
Sta’ attento!
E molla la solita solfa!
Non è cosa per te
il vibrar di tre corde
e stridor d’usignoli
sul braccio di un saz7!
Ascoltami,
scemo!
Sta’ attento!
Il saz a tre corde
e stridor d’usignoli
non sanno sospingere avanti
le masse
con corni di monti e con flutti!
Il saz a tre corde
non porta il sorriso,
non scioglie nel pianto
nei fiumi coi letti
che vogliono alzarsi,
milioni di bocche
in coro
riunite
con impresso lo slancio
da campi e città.
Oh!
Oh!
Sono morti di fame quei tre rossignoli
nel lamento a tre corde di un saz.
Lo butto
da parte!
Oh!
Oh!
Dal legno
del saz a tre corde
hanno fatto
una canna da pipa
col buco farcito di oppio
ai viziosi
Oh!
Oh!
L’orchestra ha iniziato
con corni di monti, con flutti, con corni che
paiono flutti, con flutti che paiono
cor-ni!
Oh!
Oh!
I battenti con voce potente
sono urla
d’incudini ai timpani,
sor-de!
Il vomere lotta col piano,
col piano!
Va in estasi il capo dei musici,
spira forte l’orchestra
con corni di monti, con flutti, con corni
che paiono flutti, con flutti che paiono
cor-ni!

 


 

Il primo sguardo all’Anatolia
1921

Due amici e imbocchiamo il sentiero montano.
E tanto saliamo tanto Inebolu, sulla riva
va stringendosi e divenendo
ancor più minuta tra le anse sue anguste.
Una linea il minareto e appena un punto la
moschea.
Giù in città sono già l’una dentro nell’altra le case,
e più tu sali e più il cielo alla vista si dilata:
due braccia allargate a stringere il mare.
Il vento si leva, sentieri increspati sull’acqua.
Foglie a terra affastellate,
e noi, goffi, su quelle foglie scivoliamo
fino a toccare i piedi di quell’estrema balza,
testa caparbia è la roccia a questa cima!
Potessimo salire a guardare di lassù,
vedremmo l’Anatolia, quel posto già sentito
da bambini nelle fiabe, così bella nel suo interno.
E per fissarla al primo colpo dentro il cuore
teniamo gli occhi chiusi sul passo decisivo.
Ormai laggiù davanti agli occhi spalancati
all’Anatolia si dipana il sogno, in valli e brume.
Si staglia di lontano il sentiero che discende:
un pascolo a man dritta, di là i pini.
Così fitte e vicine le pendici alle ripide montagne
che primavera sdrucciola, non sa più risalire.
Bel paese è ben questo: inverno sulle vette,
autunno sui sentieri, alle vallate aprile,
l’oro del sole e il caldo dell’estate.

 


 

Scalzi
1922

Il sole,
un turbante
infuocato sul capo.
Emaciata è la terra
e nudi nei sandali i piedi.
Ancor più cadavere del decrepito suo mulo
un paesano
è al nostro fianco,
anzi no, non al fianco,
casomai nel sangue
ardente.
Nessun pastrano alle spalle
né sferza alla mano,
né cavallo, né carro
né guardie,
tane d’orsi i paesi
cittadine di fango
scolliniamo radure di monti.
Così vaghiamo nella landa!
Nelle lacrime agli occhi
dei buoi ammalati
ascoltiamo la voce dei campi sassosi.
e vediamo che ormai
la terra non soffia il respiro di spighe dorate
per vomeri
e miseri aratri!
Non è da sonnambuli il viaggio.
Ipnotico, no,
se passiamo dal lordo all’immondo
così vaghiamo nella landa!
E noi
ben conosciamo
l’anelito
dalla landa rimpianto.
È anelito
irrorato da solchi di rughe d’una testa
materialista,
tale anelito possiede
materia
materia!

Oppresse
le case
facciate incupite
ripiegate a ridosso delle altre
su scavate strade da talpe.
Negli sguardi, malizia
parole da miti colombe tubanti
e vorticosi turbanti con fregi e ricami
le gambe incrociate,
le schiene a botteghe appoggiate.
Le suole sfondate
dei sandali nostri
si parano a quelli davanti.
Un rozzo
gendarme
trascina una coppia di adulteri
sorpresi nei campi.
Al caffè
se la fa quel santo e pio uomo,
il baba,
col garzone
e scaglia improperi sinceri
con ira
e sputa in faccia agli amanti che avanzano.
Ecco: è questa la città
come un’olla ch’emana rancido torpore
e non prova romantico malesser
nell’anima
piange
un paio di nostalgiche parole:
linea elettrica
vapore!

Se ciechi non siete
vedete
il terreo bracciante
il figliolo la gobba sul petto
un avanzo di guerra dai monti del Caucaso
sulle teste spellate s’incide
l’artiglio di chi appalta la terra
con la figlia
la moglie
col carro
vorrebbe legarsi a quell’ultimo palmo di terra
e se muore, morire lui vuole con loro
e con loro
qui
vuole
finir sottoterra.

O macchine, voi,
desiderio dei monti e dei campi
attesa febbrile dei sensi di donna che smania
ogni unghia con forza di bufali a mille
di ferro
che gratta la terra e diresti che raspa dell’acqua
di vapore è l’anima vostra
o macchine, voi!

Ehi voi gran signori
la pancia a bottiglia
gorgoglia che par narghilè,
passate montati in carrozze a tre tiri
ai paesani che privi incontrate
di orecchie
di naso
di occhi!
tirate sospiri alla Pierre Loti!
Signori
col morso alla bocca
la penna
alla mano!
Ci siamo stufati di dolci fandonie.
Oramai
nella testa di ognuno di voi
batta
un chiaro
rintocco, vi dica:
il villano rimpiange la terra
e piange le macchine
terra!

 


 

Le pupille degli affamati
1922

Non un po’
non cinque non dieci
ma trenta milioni
di affamati
sono nostri!
Loro
nostri!
Noi
loro!
L’onda
è del mare!
Il mare
è dell’onda!
Non un po’
non cinque non dieci
ma 30.000.000
30.000.000!
Affamati, affamati allineati!
Non uomo, non donna, non ragazzo o ragazza,
scarni, scheletrici,
alberi a nodi
con nodi di rami!
Non uomo, non donna, non ragazzo o ragazza,
affamati, affamati schierati!
Questi,
sono pezzi ambulanti
di quell’arida terra!
C’è
chi porta
una pancia
rigonfia,
rimbalzi a ginocchia
tutt’ossa!
C’è chi ha solo
pelle… pelle e ossa!
E vivono
solo
quegli occhi!
È nera e lontana acutezza a pupille
da pazzi,
enorme la testa da chiodo, sottile la punta
che punge pian piano, che penetra in vena
pupille pungenti
da pazzi!
E loro,
un dolore,
e loro,
ti fissano che…
Che grande, il dolore!
che grande!
che immenso!
Eppure
una botta la fede non tocca.
Il petto è di ferro,
la pena che è nostra
è di 30.000.000
di pupille da pazzi!
Pungenti!
Oh
tu che mi ascolti,
aperta la bocca!
Tu che forse
alle spalle bisbigli che è «matto»
di me, che ti urlo
dal cuore!
Se anche tu,
come gli altri,
sei oca,
se non puoi
dare un senso
al mio dire
almeno guarda me dentro gli occhi;
queste
sono pupille,
pupille da pazzi!

 


 

Male comune
1922

I nostri occhi
Trasparenti
Tersi
Son gocce…
In ogni stilla
Un atomo
Minuscolo
Del prodigio che rianima il ferro…
Trasparenti
Puliti
Con le gocce gli occhi nostri
Se non si fossero uniti come un solo oceano,
Se ogni atomo
Si fosse disperso
Abbinando le turbine alle dinamo
Non avremmo smosso monti d’acciaio come acerbi meloni…
Non avremmo estinto, manciata di fiammiferi,
Del male comune la grade opera
Che si propaga
E che lo costringe:
Vampate di sfruttamento…
Trasparenti
Tersi
A stille i nostri occhi
In un solo oceano mescolati al punto che
Come scioglie
Il sale in acqua che bolle,
Ecco anche noi
L’uno nell’altro
Così siam rifusi…
Avvampa del male comune la grande opera…
Ma scoprimmo il prodigio che rianima il ferro?

 


 

Poeta
1923

Sono poeta
Sui muri
Imprimo
Fischiettando per strada
Forme fulminee di poesie mie!
I miei due occhi
Che da 100 metri distinguono
l’accoppiarsi di due mosche
Han visto di certo
Che due persone in due son divise!
Se tu,
Io,
Di quali io sia tu vuoi capire
Guarda un po’
Nella tasca mia!

Pan di segale che “Lume” declama
Ti dice il vero…
Sono poeta
Di poesia io ne so
Il gazel prediletto
È “Anti-Dühring” di Engels!
Sono poeta
Mie le poesie a pioggia che scroscia per interi anni,
Ma per iniziare il mio autentico
Capolavoro
Il romanzo “Costruttivista-marxista”
Aspetto di mandare a memoria “Das Kapital”.
Nel calcio vecchia volpe:
Quando le ali del Fenerbahçe
Erano mocciosi che giocavano allo scivolo del vicinato
Io
Gettavo a terra i mediani più grossi!
Nel calcio vecchia volpe:
Passaggio da centrocampo
E via
Hop!
E cinque palloni
In pancia al portiere a bocca spalancata!
Questo bel tiro è uno dei miei!
I miei scarpini
Quest’arte l’hanno appresa dalla mia matita,
Di quella matita
Nelle budella è pietra ogni verso che infila
Dai vostri nove orifizi!
Siam poeti,
Poeti, ho detto, oh, gente!

 


 

Ancora riguardo a questo: Scienza
1924

La vita – è movimento!
Il movimento – contrasto!
La società è rimasta sul gozzo alla natura
È contro classi che classi sfoderarono la lama!
E guarda!
Viene detta “scienza” quest’immagine sfuggente
Di pellicola di film di cui siamo attori,
Ch’è sullo schermo della mente
E che di noi gira fuori.
“Scienza” nasce dalla lotta
Per la lotta “scienza” è.

 


 

Lume
1924

Lucente Lume Lu-mi-ne.
Lucente lume mio
Non luna nel cielo.
Non illumino dall’alto, arco teso di luna al cielo,
Lotta di classe in terra.
Son legato, io,
Alla terra
Fangosa di nero di sangue.
Sono nato dalla lotta in terra,
Io sono nella lotta,
La illumino da dentro, quella lotta:
Vediamo, allora,
Sì che
Si accechino
Loro!
Sì, loro,
Lo-ro
Tremolanti e abbattuti nell’oscurità, alberelli stentati,
Io, quelli,
Ponendoli sotto il fuoco della mia luce,
Incavandone
I fori delle pupille;
Rischiaro
L’acciaio
Di nostre asce che affondano in loro radici!
Lucente Lume Lu-mi-ne!

 


 

7 Novembre Oriente Occidente
1924

«Mistero
Fatalismo
Destino.
Gabbia, serraglio, carovana
Chiosco a fontana
Vassoi d’argento e danza la Sultana…
Maragià, Padiscià
Per milleun anni l’imperatore vivrà…
Pendono da minareti zoccoli in madreperla
Tinti d’henné i volti alle belle
E i piedi ricamano a trine;
L’imam barbaverde ai venti intona l’ezan».

Ecco l’Oriente del poeta europeo

Ecco

L’Oriente dei libri
Stampati a milioni al minuto…
Però
Né domani
Né oggi, né ieri
Un tale Oriente
C’è stato.
Più niente.
Oriente:
È la terra
Dove crepa di fame la gente,
Nudi schiavi,
Terra che di tutti,
Tranne gli abitanti, è bene comune.
Muore qui di miseria la carestia
E questo è magazzino di grano rabboccato
Asia,
Granaio d’Europa.
S’impiccano coi lunghi capelli
Tuoi, dei cinesi,
Ceri giallastri,
Su alberi di corazzate americane,
Gli ufficiali inglesi sulla vetta più alta
Più erta
Più nevosa
Dell’Himalaya
Fanno suonare la loro jazz band.
Bagnano in Gange i piedi unghie nere,
Dove gettano i paria
I loro morti dai denti bianchi…
L’Anatolia intera
È area di tiro
per Armstrong.
È pieno il petto d’Asia
Non poppa
Ormai
L’Oriente…
Siamo stanchi, stanchi, gente…
Se qualcuno di voi
Potesse dar l’anima
Per i nostri buoi
E fosse un borghese
Non si mostri ai nostri occhi!
Persino
Tu
Tu, Pierre Loti,
Di te è a noi più vicino,
Ufficiale francese,
Il pidocchio del tifo
Che noi ci passiamo
Da rogna di pelle olivastra!
Tu, l’ufficiale francese,
Scordasti Aziyadé dai begl’occhi d’uva
Più velocemente
Di una puttana.
A tua arma è bersaglio
La stele d’Aziyadé
Che il cuor ci trafisse.
Lo sappia
Chi non sa:
Altro non sei se non ciarlatano.
Un ciarlatano!
Da stoffe francesi che valgon due soldi
Cinquecento per cento è il tuo profitto.
Pierre Loti…
Ma che porco d’un borghese, porca miseria,
Se credessi mai ad anima e materia disgiunte
Il giorno di salvezza d’Oriente
La tua anima
Vorrei crocifissa alla testa d’un ponte,
E là davanti io a fumare.
Io ho dato a voi la mia mano
Le nostre mani le abbiam date a voi
Abbracciateci un po’
Sanculotti d’Europa!
Cavalchiamo affiancati i rossi destrieri.
La meta è vicina
Guardate
Si contano i giorni al dì di salvezza
E davanti ci è l’anno di rivolta d’Oriente.
Sventola a noi fazzoletto di sangue.
Calci a ventre imperialista dai rossi destrieri.

 


 

La freccia scoccata dall’arco
1925

La freccia fu scoccata dall’arco,
Lontano il raggio
Lontano
Molto.
Del bersaglio neanche l’ombra.
Raggio lontano
Molto davvero,
Il dardo in volo non maestro ma garzone
Lasciò nell’aria lembi sanguinolenti d’ala.
Sempre
Sulla scia
Di quest’esile e snello uccello
L’affusolato oscillare di sbieca letale
Traiettoria
Questa
È durata tanti anni
Quante
Le stelle nel cielo.
E quando l’Oriente fu sangue in subbuglio
La freccia riscorse rosso cuore al bersaglio.
Il dardo nel volo fu maestro e non garzone
Quel lonta… no
Raggio ormai lontano non è
Ad aver dato l’arco è il Tempo canuto
E poi noi l’abbiamo piegato
La freccia scoccata nostra vita come uccello
E il bersaglio a noi è salvezza.

 


 

Lo stomaco sacro
1929

O tu, madre dagli occhi arrossati
o tu
tu che crei facendo soffrire
tu che te ne stai con l’acqua sotto l’arco dei ponti
tu, grido delle piazze incendiate
tu, poesia delle poesie, musica delle musiche
tu, amica mia
tu, sventurata
tu, pendaglio da forca
O tu
tu sei tutto
sei tutto fame!
E io giuro, mettendo la fronte sui tuoi piedi scalzi
giuro e dico:
combatterò
Non per il mio né il nostro né il suo né il loro
ma affinché il tuo
il tuo stomaco sacro si sazi.

 


 

La concezione dell’arte
1929

Esalo anch’io talora sospiri e gemiti dal cuore
a uno a uno a uno
grani sanguigni di un rosario di rubini
e quel rosario in vampe rosse scorre
sul filo fine ai tuoi capelli d’oro…
Però
quell’ala che si schiude
sulle spalle della fata
che m’ispira:
è una putrella in ferro dei miei ponti
che si gettano nel volo!
Si sente,
sì, sì, non è che non si senta
il lagno d’usignolo alla sua rosa…
ma nell’essenza
la lingua che io afferro: —
riverbera sonate di Beethoven che la corda
con il rame, il ferro, il legno, l’osso esegue.
A volontà tu puoi
nel turbine di polvere e di nebbia
sospingere il cavallo!
eppure non lo cambio
col purosangue arabo
più nobile;
il mio destriero in ferro
che sui binari in ferro corre
ai 110 orari!
Come una mosca cieca e grossa s’impiglia
qualche volta l’occhio mio
nelle tele dei ragni capomastri sui cantoni
della stanza…
ma il mio stupore vero alle montagne lo riservo:
sono 77 i piani di cemento armato
creature d’architetti con la camicia azzurra!
E se per caso m’imbattessi in testa al ponte
nella bellezza maschia di un
«Adone giovane dio di Biblos»,
tirerei dritto forse e non lo baderei:
però non passo accanto senza occhiate di riguardo
dirette all’occhio con le lenti circolari
al mio filosofo
e fuochista!…
Io
è certo che le fumo le sigarette classe terza bell’e fatte
che le macchine elettriche farciscono ed incollano:
ma le cartine non le avvolgo con le mani e non le fumo,
fossero pure del tabacco di Samsun!
Non cambio
né mai potrò cambiare
Con un’Eva adamitica, discinta,
la moglie mia inguainata nella pelle del basco e della giacca!
Può pure darsi che non abbia io la decantata
«impronta ed indole poetica»!
E che mai fare?!
Ben più dei figli della madre terra
io amo: —
i miei propri bambini!

 


 

Prometeo, la pipa, rosa, usignolo e via dicendo
1929

Noi mica abbiamo sulla nuca al cuore nostro
una zazzera di peli lunghi e unti,
la pancia nostra è gonfia
di rose e spirito e usignoli e via dicendo.
E per adesso alle faccende
di cuore noi non diamo il becco di un quattrino…
E tu senza patemi affida a noi
tua moglie.
Noi giù
calchiamo nel fornello della pipa
i clamori di Prometeo strepitosi
e li fumiamo a mo’ di trinciato
forte a tocchi grossi,
a spalla a spalla poi
con le torri che avvistano l’incendio
scrutiamo gli occhi infiammati all’orizzonte.

 


 

Alle porte di Madrid
1930

Non ascoltare le voci delle sfere dell’aldilà,
né intrecciare nella trama delle righe ‘poesie ermetiche’
né cercare
con pazienza di orafo
rime graziose
e fini espressioni,
stasera, grazie al cielo, io sto più su di tutto ciò.
Stasera io
sono un cantastorie di strada,
La mia voce è semplice, senza artifici,
e tu
non puoi udire la mia canzone…
È notte.
Nevica.
Tu sei alle porte di Madrid.
Davanti a te hai l’anima dei nemici,
che è venuta per uccidere
tutto ciò che c’è di più bello:
la libertà,
il sogno,
la speranza,
e i ragazzi.
E nevica.
E forse
i tuoi piedi nudi gelano.
Nevica…
Ed ecco,
in quest’istante
che io penso a te con tutto il mio cuore,
forse
una pallottola spezzerà la tua vita
e per te non ci sarà più
neve
né vento
né notte
né giorno…
E nevica.
So
che anche prima di gridare
«No pasaran»
e di montare la guardia
alle porte di Madrid,
tu esistevi!
Chi eri,
di dove sei venuto?
Forse
dalle miniere delle Asturie?
Forse
una benda insanguinata sulla tua fronte ha coperto
una ferita che ti sei presa al Nord?
Forse
sei tu quello che per ultimo
sparò nella notte che gli junker
bombardavano Bilbao?
O servivi come bracciante
nelle tenute di un qualche
conte Fernando Valesquero di Cortolon?
O avevi una modesta bottega
alla Porta del Sole
e vendevi le frutta dai colori spagnoli?
Forse, non avevi alcun talento,
o forse avevi una bella voce?
O eri uno studente,
un futuro giurista,
e i tuoi libri
sotto i cingoli d’un carro armato italiano son rimasti
nella città universitaria?
Forse non credevi in Dio,
e forse invece portavi una piccola croce di rame a un cordino
di seta?
Chi sei,
come ti chiami,
quanti anni hai?
Non ho visto la tua faccia,
e non la vedrò.
Forse
essa ricorda le facce di quelli
che batterono le bande di Kolčak in Siberia?
O, in qualche tratto,
tu ricordi coloro
che sono caduti
a Dumlupınar?
O somigli a Robespierre?
Non hai udito il mio nome,
e non l’udrai.
Tra noi due, fratello,
ci sono i mari e i monti,
e le mie maledette catene,
e le prescrizioni
del comitato di non intervento
Non posso venire da te,
non posso mandarti di qui
né una cassa di cartucce
né uova
né un paio di calze di lana…
So
che in questo gelo
i tuoi piedi nudi,
là, alle porte di Madrid,
come due bimbi
gelano al vento…
E so
che tutto ciò che in questo mondo
c’è di grande
e di bello,
tutto ciò che sarà fatto dagli uomini, –
tutta la Verità futura
e la Grandezza,
che io aspetto con tanta ansia nel cuore, –
tutto questo riluce nei tuoi occhi,
sentinella mia,
stanotte
alle porte di Madrid…
E so
che oggi non posso,
come non potei ieri
e non potrò domani,
fare nient’altro
che pensare a te
e amarti!

 


 

Rubai
1933

È l’alba. S’illumina il mondo
come l’acqua che lascia cadere sul fondo
le sue impurità. E sei tu, all’improvviso
tu, mio amore, nel chiarore infinito
di fronte a me.
Giorno d’inverno, senza macchia, trasparente
come vetro. Addentare la polpa candida e sana
d’un frutto. Amarti, mia rosa, somiglia
all’aspirare l’aria in un bosco di pini.
Chi sa, forse non ci ameremmo tanto
se le nostre anime non si vedessero da lontano
non saremmo così vicini, chi sa,
se la sorte non ci avesse divisi.
E’ così, mio usignolo, tra te e me
c’è solo una differenza di grado:
tu hai le ali e non puoi volare
io ho le mani e non posso pensare.
Finito, dirà un giorno madre Natura
finito di ridere e piangere
e sarà ancora la vita immensa
che non vede non parla non pensa.

 


 

Il più bello dei mari
1942

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.

 


 

Guardo in ginocchio la terra
1943

Guardo in ginocchio la terra
guardo l’erba
guardo l’insetto
guardo l’istante fiorito e azzurro
sei come la terra di primavera, amore,
io ti guardo.
Sdraiato sul dorso vedo il cielo
vedo i rami degli alberi
vedo le cicogne che volano
sei come il cielo di primavera, amore,
io ti vedo.
Ho acceso un fuoco di notte in campagna
tocco il fuoco
tocco l’acqua
tocco la stoffa e l’argento
sei come un fuoco di bivacco all’addiaccio
io ti tocco.
Sono tra gli uomini amo gli uomini
Amo l’azione
Amo il pensiero
Amo la mia lotta
Sei essere umano nella mia lotta,
Ti amo.

 


 

Addormentarsi adesso
1945

«Addormentarsi adesso
svegliarsi tra cento anni, amor mio…»
«No,
non sono un disertore.
Del resto, il mio secolo non mi fa paura
il mio secolo pieno di miserie e di scandali
il mio secolo coraggioso grande ed eroico.
Non ho mai rimpianto d’esser venuto al mondo troppo presto
sono del ventesimo secolo e ne son fiero.
Mi basta esser là dove sono, tra i nostri,
e battermi per un mondo nuovo…»
«Tra cento anni, amor mio…»
«No,
prima e malgrado tutto.
Il mio secolo che muore e rinasce
il mio secolo
i cui ultimi giorni saranno belli
la mia terribile notte lacerata dai gridi dell’alba
il mio secolo splenderà di sole, amor mio
come i tuoi occhi…»

 


 

Il vento
1947

Il vento cala e se ne va
lo stesso vento non agita
due volte lo stesso ramo
di ciliegio
gli uccelli cantano nell’albero
ali che voglion volare
la porta è chiusa
bisogna forzarla
bisogna vederti, amor mio,
sia bella come te, la vita
sia amica e amata come te
so che ancora non è finito
il banchetto della miseria ma
finirà.

 


 

Don Quijote
1947

II cavaliere dell’eterna gioventù
seguì, verso la cinquantina,
la legge che batteva nel suo cuore.
Parti un bel mattino di luglio
per conquistare il bello, il vero, il giusto.
Davanti a lui c’era il mondo
coi suoi giganti assurdi e abbietti
sotto di lui Ronzinante
triste ed eroico.
Lo so
quando si è presi da questa passione
e il cuore ha un peso rispettabile
non c’è niente da fare, Don Chisciotte,
niente da fare
è necessario battersi
contro i mulini a vento.
Hai ragione tu, Dulcinea
è la donna più bella del mondo
certo
bisognava gridarlo in faccia
ai bottegai
certo
dovevano buttartisi addosso
e coprirti di botte
ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati
tu continuerai a vivere come una fiamma
nel tuo pesante guscio di ferro
e Dulcinea
sarà ogni giorno più bella.

 


 

I giorni
1948

I giorni son sempre più brevi
le piogge cominceranno.
La mia porta, spalancata, ti ha atteso.
Perché hai tardato tanto?
Sul mio tavolo, dei peperoni verdi, del sale, del pane.
Il vino che avevo conservato nella brocca
l’ho bevuto a metà, da solo, aspettando.
Perché hai tardato tanto?
Ma ecco sui rami, maturi, profondi
dei frutti carichi di miele.
Stavano per cadere senz’essere colti
se tu avessi tardato ancora un poco.

 


 

I tuoi occhi
1948

I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che tu venga all’ospedale o in prigione
nei tuoi occhi porti sempre il sole.
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
questa fine di maggio, dalle parti d’Antalya,
sono cosi, le spighe, di primo mattino;
i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
quante volte hanno pianto davanti a me
son rimasti tutti nudi, i tuoi occhi,
nudi e immensi come gli occhi di un bimbo
ma non un giorno han perso il loro sole;
i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che s’illanguidiscano un poco, i tuoi occhi
gioiosi, immensamente intelligenti, perfetti:
allora saprò far echeggiare il mondo
del mio amore.
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
Così sono d’autunno i castagneti di Bursa
le foglie dopo la pioggia
e in ogni stagione e ad ogni ora, Istanbul.
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
verrà giorno, mia rosa, verrà giorno
che gli uomini si guarderanno l’un l’altro
fraternamente
con i tuoi occhi, amor mio,
si guarderanno con i tuoi occhi.

 


 

Anima mia
1948

Anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
e come s’affonda nell’acqua
immergiti nel sonno
nuda e vestita di bianco
il più bello dei sogni
ti accoglierà
anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
abbandonati
come nell’arco delle mie braccia
nel tuo sonno non dimenticarmi
chiudi gli occhi pian piano
i tuoi occhi marroni
dove brucia una fiamma verde
anima mia.

 


 

Notte d’autunno
1948

In questa notte d’autunno
sono pieno delle tue parole
parole eterne come il tempo
come la materia
parole pesanti come la mano
scintillanti come le stelle.
Dalla tua testa dalla tua carne
dal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole cariche di te
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole, amica.
Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole
erano uomini.

 


 

Alla vita
1948

La vita non è un gioco.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro,
ad esempio, le mani legate.
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni,
ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.

 


 

A Sofia
1952

A Sofia sono entrato
un giorno a primavera, o mia cara.
Ha un profumo di tiglio
la tua città natale.
Senza te peregrino per il mondo,
è così il mio destino,
non c’è niente da fare…
A Sofia l’albero precede il muro,
è più bello del muro.
A Sofia l’albero e l’uomo son fusi,
prima di tutto il pioppo,
che sembra penetrare nella stanza
per adagiarsi sul tappeto rosso…
La città di Sofia, è grande?
Le città, rosa mia, non per i viali,
sono grandi perché ai loro poeti
han fatto il monumento,
Sofia è una grande città…
Qui di sera la gente trabocca nelle strade,
donne e bambini, giovani, anziani,
una risata insieme, un brusio,
un rumore, un trambusto,
un gran viavai,
gli uni di fianco agli altri, a braccetto,
tenendosi per mano…
Al Ramadan di notte
anche a Istanbul, a Şehzadebaşı
– Münevver, tu non serbi ricordi di quell’epoca –
così si andava a spasso.
No… andate se ne sono quelle notti…
Se adesso fossi a Istanbul
mi verrebbe per caso in mente di cercarle?
Ma lontano da Istanbul
qualunque cosa ne vado cercando.
Persino il parlatorio del carcere di Scutari…
A Sofia sono entrato
un giorno a primavera, o mia cara.
Ha un profumo di tiglio
la tua città natale.
Non sai quali onori ho vissuto
tra i tuoi concittadini.
La tua città natale
è in questo giorno
la mia casa fraterna.
Però nemmeno la casa fraterna
fa gettar nell’oblio la propria casa.
Il vivere lontani dalla patria
è un’arte dura, dura.

 


 

Terra magiara
1954

Salve Terra Magiara!
In questi giorni estivi tu
sei come il pane che si sforna fresco
gonfio,
dorato, bruno
e come il pane dei tuoi segreti tu sei pregna
e come il pane tu sei sacra.
Salve Terra Magiara!
E salve ai semi in grembo alla tua terra,
alle radici, a fondamenti e viscere, a miniere,
salve alle ossa che custodisci dentro in te.
Terra Magiara, salve!
Salve alle notti e ai giorni sopra la tua terra,
salve alle foglie,
alle passioni, alle canzoni salve,
alle finestre
e per le ali un salve, a mani e piedi.
Salve Terra Magiara,
Sono venuto col saluto della mia terra prigioniera.
È capitato pure a te,
e tu sai bene
che cosa vuol dire schiavitù.
E quanto appare brutta la propria gente alla sua terra.
e quanto appare stretta la propria terra alla sua gente.
E la parola in bocca si raggela,
e si raggela lo sguardo dentro all’occhio.
E il nostro pane
in mano sa d’amaro più di un frutto marcio.
La terra, come l’uomo
e le canzoni,
si fa più bella ancora in libertà.
E tu, Terra Magiara, sei più bella.
Io non mi sazio mai alla tua gente,
alle tue grazie, a sogni, a libertà,
ai tuoi poeti, ai versi, al vino tuo.
Stammi bene,
io sono così indegno, eppure tanti onori
tu mi hai reso.
Terra Magiara, stammi bene,
ho portato in cima al colle di Géllert
i tuoi fiori di campagna e li ho deposti
a nome del tuo popolo.
Stai bene,
con l’augurio di gemme per le spighe,
del foraggio per le mandrie,
della forza temperata del tuo acciaio,
e di felicità per la tua gente.
Stai bene.
Forse ritorno.
Forse la vita mi tradisce.
Ma già lo so, giorno verrà, lo so,
sarà di ospiti sfilata, un gran viavai da te verso
di noi, a te da noi,
lieve, come un passo lieve
da un orto a un altro orto.

 


 

Pioggia d’estate
1954

Pioggia d’estate cade dentro di me
acini d’uva si schiacciano contro i miei vetri
gli occhi delle mie foglie sono abbagliati
pioggia d’estate cade dentro di me
piccioni d’argento volano dai miei tetti
la mia terra corre coi piedi nudi
pioggia d’estate cade dentro di me
una donna è scesa dal tram
i polpacci bianchi bagnati
pioggia d’estate cade dentro di me
senza rinfrescare la mia tristezza
pioggia d’estate cade dentro di me
all’improvviso e all’improvviso s’arresta
il peso dell’afa è rimasto dov’era
al termine delle grosse rotaie
arrugginite.

 


 

Un albero
1956

C’è un albero in me
trapiantato dal sole
le sue foglie oscillano come pesci di fuoco
le sue foglie cantano come usignoli
è un pezzo che i viaggiatori sono scesi
dai razzi sul pianeta ch’è in me
parlano una lingua che ho udito in sogno
non ordini non vanterie non preghiere
in me c’è una strada bianca
le formiche passano coi semi di grano
i camion passano col chiasso delle feste
ma il carro funebre — è proibito — non può passare
in me il tempo rimane
come una rossa rosa odorosa
che oggi sia venerdì domani sabato
che il più di me sia passato che resti il meno
non importa.

 


 

Forse l’ultima mia lettera a Mehmet
1955

Da una parte
gli aguzzini tra noi
ci separano come un muro
d’altra parte
questo cuore sciagurato
mi ha fatto un brutto scherzo
mio piccolo, mio Mehmet
forse il destino
m’impedirà di rivederti
Sarai un ragazzo, lo so,
simile alla spiga di grano
ero così quand’ero giovane
biondo, snello, alto di statura;
i tuoi occhi saranno vasti come quelli di tua madre
con dentro talvolta uno strascico amaro
di tristezza,
la tua fronte sarà chiara infinitamente
avrai anche una bella voce
— la mia era atroce —
le canzoni che canterai
spezzeranno i cuori
sarai un conversatore brillante
in questo ero maestro anch’io
quando la gente non m’irritava i nervi
dalle tue labbra colerà il miele
ah Mehmet
quanti cuori spezzerai!
E’ difficile allevare un figlio senza padre
non dare pena a tua madre
gioia non gliene ho potuta dare
dagliene tu.
Tua madre
forte e dolce come la seta
tua madre
sarà bella anche all’età delle nonne
come il primo giorno che l’ho vista
quando aveva diciassette anni
sulla riva del Bosforo
era il chiaro di luna
era il chiaro del giorno
era simile a una susina dorata.
Tua madre
un giorno come al solito
ci siamo lasciati: A stasera!
Era per non vederci più.
Tua madre
nella sua bontà la più saggia delle madri
che viva cent’anni
che Dio la benedica.
Non ho paura di morire, figlio mio;
però malgrado tutto
a volte quando lavoro
trasalisco di colpo
oppure nella solitudine del dormiveglia
contare i giorni è difficile
non ci si può saziare del mondo
Mehmet
non ci si può saziare.
Non vivere su questa terra
come un inquilino
oppure in villeggiatura
nella natura
vivi in questo mondo
come se fosse la casa di tuo padre
credi al grano al mare alla terra
ma soprattutto all’uomo.
Ama la nuvola la macchina il libro
ma innanzitutto ama l’uomo.
Senti la tristezza
del ramo che si secca
del pianeta che si spegne
dell’animale infermo
ma innanzitutto la tristezza dell’uomo.
Che tutti i beni terrestri
ti diano gioia
che l’ombra e il chiaro
ti diano gioia
che le quattro stagioni
ti diano gioia
ma che soprattutto l’uomo
ti dia gioia.
La nostra terra, la Turchia
è un bel paese
tra gli altri paesi
e i suoi uomini
quelli di buona lega
sono lavoratori
pensosi e coraggiosi
e atrocemente miserabili
si è sofferto e si soffre ancora
ma la conclusione sarà splendida.
Tu, da noi, col tuo popolo
costruirai il futuro
lo vedrai coi tuoi occhi
lo toccherai con le tue mani.
Mehmet, forse morirò
lontano dalla mia lingua
lontano dalle mie canzoni
lontano dal mio sale e dal mio pane
con la nostalgia di tua madre e di te
del mio popolo dei miei compagni
ma non in esilio
non in terra straniera
morirò nel paese dei miei sogni
nella bianca città dei miei giorni più belli.
Mehmet, piccolo mio
ti affido
ai compagni turchi
me ne vado ma sono calmo
la vita che si disperde in me
si ritroverà in te
per lungo tempo
e nel mio popolo, per sempre.

 


 

Elegia per Satana
1956

Satana era il nome del mio cane
«era» non ha niente a che fare col suo nome
al suo nome non è successo nulla
non somigliava al suo nome
i demoni son tiranni
e i tiranni son astuti, ipocriti,
intelligenti mai
e il mio cane era intelligente.
S’è morto è un po’ colpa mia
non ho saputo averne cura
e se non sai averne cura
non bisogna nemmeno piantare un albero
perché è un grande dolore per l’uomo
che l’albero secchi tra le sue mani
Mi dirai che bisogna buttarsi in acqua
per imparare a nuotare
è vero
ma se anneghi
sei il solo ad annegare
Sono molte mattine che mi sveglio
e ascolto attorno a me
nessuno gratta alla mia porta
mi vien voglia di piangere
e vergogna di non poter piangere
Era come l’uomo
molti animali son come l’uomo
perché hanno la bontà dell’uomo
inchinava il suo collo forte
davanti all’amicizia
la sua libertà era racchiusa
nelle zanne e nelle zampe
e la sua cortesia
nella grande coda pelosa
Ogni tanto avevamo voglia di vederci
mi parlava dei grandi problemi
della fame della sazietà dell’amore
ma non ha mai provato
nostalgia per il suo paese
quello era affar mio.
Hanno messo il poeta in paradiso
e ha gridato: ah! il mio paese
è morto
come muoiono qui
l’uomo l’animale la pianta
nel letto sulla terra nell’aria nell’acqua
all’improvviso
nell’attesa
nel sonno
come si muore in questo mondo
come dovrò morire
come dovremo morire
Oggi son trentotto gradi all’ombra
guardo il balcone verso il bosco
i pini si drizzano
tutti snelli tutti lunghi tutti rossi
il cielo è celeste — acciaio
gli uomini sudano
i cani ansano
vanno al lago per bagnarsi
lasciano sulla riva la pesantezza del corpo
condividono la felicità dei pesci.

 


 

Hotel Bor
1957

Impossibile dormire la notte qui a Varna
impossibile dormire
per via di queste stelle che son troppe
troppo lucide troppo vicine
per via del mormorio sul greto dell’onde morte
il loro sussurro
le loro perle
i loro ciottoli
le alghe salate
per via del rumore di un motore sul mare
come un cuore che batte
per via dei fantasmi
venuti da Istanbul
sorti dal Bosforo
che invadono la stanza
gli occhi verdi dell’uno
le manette ai polsi dell’altro un fazzoletto
nelle mani del terzo
un fazzoletto che sa di lavanda.
impossibile dormire la notte qui a Varna,
mio amore, qui a Varna, all’albergo Bor.

 


 

Il balcone
1957

Kurort, le terme a Varna, dal balcone del
Balkan-Turist:
la strada, le piante,
la pineta, la spiaggia,
il resto sarà cielo e mare,
e no invece che il resto
non cielo né mare,
la spiaggia, la sabbia e poi luce schietta,
una luce
infinita…
E nell’aria un profumo di rose
che ti brucia nel naso.
non vedo le rose
ma il profumo è un annuncio
grandiosa ciascuna
di un rosso ciascuna…
Turisti polacchi discesi alla spiaggia,
sono biondi, di rosa la pelle, e girano nudi…
Sulla testa una rondine gira,
le ali corvine, un candido petto.
Non somiglia per niente ad un’ape,
eppure a quell’ape somiglia.
Scompare e ritorna,
le picchiate, le erte impennate, stridore di canti,
s’inebria di strida…
Scodella celeste cetrioli con yogurt e menta.
E focaccia al formaggio,
— Mi pare di essere a Istanbul —
la focaccia con grani di sesamo è morbida, calda…
Questo giorno d’estate qui a Varna,
Finanche a un poeta, così tanto grave e migrante,
lontano da tutte le gravi pedanti parole che suonano vuote
fa dire: gran bella, beata è la vita.

 


 

Ora di Praga
1957

Millenovecentocinquantasette, diciassette gennaio,
suonano le nove.
Il freddo soleggiato, sincero,
il freddo è rosa pallido
il freddo è celeste cielo.
I miei baffi rossi stanno per gelarsi.
La città di Praga è incisa su una coppa di vetro
incisa con un diamante.
Risuonerebbe se la toccassi;
striata d’oro, limpida e bianca.
Sono le nove sonanti
a tutte le torri
e al mio orologio da polso.
In questo minuto, in questo istante
a Praga nessuno ha mentito
in questo minuto, in questo istante
le donne hanno partorito
senza doglie
e in tutte le strade
non è passata una sola bara.
In questo minuto, in questo istante
tutti i diagrammi sono saliti
— eccetto quelli dei malati —
in questo minuto, in questo istante
le donne eran tutte belle tutti gli uomini intelligenti
e i manichini di cera senza tristezza
in questo minuto, in questo istante
nelle scuole tutti i ragazzi han risposto
senza confondersi alle domande
in questo minuto, in questo istante
in tutte le stufe c’era carbone
tutti i termosifoni
erano caldi
e come sempre la Torre Nera dalla punta d’oro
in questo minuto, in questo istante
i ciechi han dimenticato la loro tenebra
e i gobbi la loro gobba
in questo minuto, in questo istante
non ho un solo nemico
nessuno può neanche immaginare
che i giorni passati potrebbero ritornare.
In questo minuto, in questo istante
Vastlav è sceso dal suo cavallo di bronzo
s’è mescolato alla folla
come uno sconosciuto
in questo minuto, in questo istante
mi amavi, mio amore,
come non hai mai amato nessuno
in questo momento, in questo istante
il freddo soleggiato, sincero,
il freddo è rosa pallido
il freddo è celeste cielo.
La città di Praga è incisa su una coppa di vetro
incisa con un diamante.
Risuonerebbe se la toccassi
striata d’oro, limpida e bianca.

 


 

Concerto in re minore n1 di J. S. Bach
1959

Mattino d’autunno nella vigna
fila dopo fila, vite dopo vite, si ripetono
e i grappoli sulle viti
e gli acini sui grappoli
e la luce sugli acini.
La notte nella casa grandissima e bianca
una luce dentro ciascuna
le finestre si ripetono
tutte le piogge che cadono si ripetono
sul suolo sull’albero sul mare
sulla mia mano il mio viso i miei occhi
e le gocce si schiacciano sul vetro
rinnovamento dei miei giorni
simili gli uni agli altri
differenti gli uni dagli altri
ripetersi dei punti a maglia
ripetersi nel cielo stellato
in tutte le lingue ripetizione dei «t’amo»
e nelle foglie il rinnovamento dell’albero
e in ogni letto di morte il dolore
per la vita troppo breve
ripetersi della neve
che cade
della neve che cade leggera
della neve che cade a fiocchi
della neve che fuma come la nebbia
disperdendosi nella tempesta
che imperversa
ripetersi della neve che mi sbarra il cammino
i bambini giocano nel cortile
nel cortile giocano i bambini
una vecchia passa nella strada
nella strada una vecchia passa
passa una vecchia nella strada.
La notte nella casa grandissima e bianca
una luce dentro ciascuna
le finestre si ripetono
sui grappoli, rinnovamento di acini
sugli acini, la luce
camminare verso il giusto e il vero
combattere per il vero, il giusto
conquistare il giusto, il vero
le tue lagrime mute e il tuo sorriso, mio amore,
i tuoi singhiozzi i tuoi scoppi di risa, mio amore,
il ripetersi del tuo riso
dai denti bianchi
brillanti
il mattino d’autunno nella vigna
fila per fila nodo per nodo i ceppi si ripetono
sui ceppi, i grappoli
sui grappoli, gli acini
sugli acini, la luce
nella luce, il mio amore.
Il miracolo del rinnovamento, mio cuore,
è il non ripetersi del ripetersi.

 


 

Ti amo
1959

Ti amo come se mangiassi il pane
spargendolo di sale
come se alzandomi la notte bruciante di febbre
bevessi l’acqua con le labbra sul rubinetto
ti amo come guardo il pesante sacco della posta
non so che cosa contenga e da chi pieno di gioia
pieno di sospetto agitato
ti amo come se sorvolassi il mare per la prima volta in aereo
ti amo come qualche cosa che si muove in me quando il
crepuscolo scende su Istanbul poco a poco
ti amo come se dicessi Dio sia lodato son vivo.

 


 

Durante il viaggio
1960

Durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me
non dico che fosse come la mia ombra
mi stava accanto anche nel buio
non dico che fosse come le mie mani e i miei piedi
quando si dorme si perdono le mani e i piedi
io non perdevo la nostalgia nemmeno durante il sonno
durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me
non dico che fosse fame o sete o desiderio
del fresco nell’afa o del caldo nel gelo
era qualcosa che non può giungere a sazietà
non era gioia o tristezza non era legata
alle città alle nuvole alle canzoni ai ricordi
era in me e fuori di me.
durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me
e del viaggio non mi resta nulla se non quella nostalgia.

 


 

Foglie morte
1961

Mi lacera dentro
veder cadere le foglie
in particolare le foglie dei viali
e soprattutto se di ippocastani
se passano dei bimbi
se il cielo è sereno
se ho avuto, quel giorno, una buona notizia
se il cuore, quel giorno, non mi fa male
se credo, quel giorno, che l’amata mia mi ami
se sento, quel giorno, armonia con gli uomini
e con me stesso
veder cadere le foglie
mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
dei viali d’ippocastani.

 


 

Sotto la pioggia
1962

Sotto la pioggia camminava la primavera
con i suoi piedi esili e lunghi sull’asfalto di Mosca
chiusa tra gli pneumatici i motori le stoffe le pelli
il mio cardiogramma era pessimo quel giorno
quel che si attende verrà in un’ora inattesa
verrà tutto da solo
senza condurre con sé
coloro che già partirono
suonavano il primo concerto di Čajkovskij sotto la pioggia
salirai le scale senza di me
un garofano sta all’ultimo piano della casa al balcone
sotto la pioggia camminava la primavera
con i suoi piedi esili e lunghi sull’asfalto di Mosca
ti sei seduta di fronte a me non mi vedi
sorridi a una tristezza che fuma lontano
la primavera ti porta via da me ti conduce altrove
e un giorno non tornerai più ti perderai nella pioggia.

 


 

Autobiografia
1962

Sono nato nel 1902
e nella mia città natale non vi sono più tornato;
non amo tornare indietro.
A 3 anni con mio nonno paşa
vivevo ad Aleppo,
a 19 anni ero studente presso
l’università comunista di Mosca
e a 49 vi rientrai in veste
d’ospite del Comitato Centrale
del Partito Comunista
e compongo poesie dall’età di 14 anni

Alcuni ben conoscono le varie specie delle piante
altri dei pesci,
io le separazioni;
alcuni sanno a memoria i nomi delle stelle,
io delle nostalgie

Ho dormito in prigioni e anche in alberghi di lusso,
ho sofferto la fame, persino per sciopero
e quasi non esiste pietanza che non abbia assaggiato

Quando avevo 30 anni volevano impiccarmi
a 48 insignirmi della Medaglia per la Pace,
e me l’hanno consegnata;
a 36 ho trascorso sei mesi a percorrere
i quattro metri quadrati di cemento del carcere;
a 59 ho volato diciotto ore da Praga all’Avana

Non ho mai visto Lenin,
ho vegliato sulla sua bara nel ’24
e nel ’61 il mausoleo visitato, i suoi libri

Hanno provato ad escludermi dal Partito
e non ci son riusciti
e non sono rimasto schiacciato alla caduta degli dei

Nel ’51 insieme ad un giovane amico
ho navigato verso la morte,
nel ’52 sono stato quattro mesi sdraiato sul dorso
e col cuore spezzato ho atteso di morire

Sono stato pazzamente geloso
delle donne amate,
non ho affatto invidiato Charlot,
ho ingannato le mie donne
e mai ho sparlato degli amici

Ho bevuto, ma non assiduamente,
ho sempre guadagnato il pane col sudore della fronte,
pura felicità

Ho provato vergogna per altri e ho mentito,
ho mentito per non ferire il prossimo
e ho mentito anche senza alcuna ragione

Ho viaggiato in treno, aeroplano, automobile
e troppi non ne hanno possibilità.
Sono stato all’Opera e
troppi neppure sanno cosa sia
e dal ’21 più non son entrato
in luoghi dalle masse visitati,
moschee, chiese, sinagoghe,
templi, stregoni,
però mi è capitato
di farmi predire sorte
nei fondi di caffè;
le mie poesie sono pubblicate
in trenta o quaranta idiomi,
eppure in turco, nella mia Turchia
sono proibite

Il cancro non ancora mi ha colpito
e niente lascia presumere che accadrà;
non sarò mai Primo Ministro
e d’altronde non vorrei,
né sono andato in guerra,
o sceso nei rifugi nel cuore della notte,
non ho corso all’ombra di aerei in picchiata,
ma intorno ai sessant’anni mi sono innamorato.
Insomma compagni,
anche se oggi, a Berlino, crepo di tristezza,
posso dir d’aver vissuto da uomo
e quanto vivrò ancora
— tante ne ho passate —
chi può sapere.

 


 

Nostalgia
1963

Per tanti anni
non ci siamo visti Terra Magiara,
mia terra sorella.
Che tu ci creda o no ti vedevo nei sogni.
Come la tua acquavite all’albicocca m’inebrio dell’odore del
Danubio, dei tuoi salami e dei peperoncini.
Si presenta davanti ai miei occhi il Castello di Szigetvár
quando ascolto alla radio la tua dura, virile lingua asiatica
il Castello di Szigetvár qual aquila in picchiata sopra le teste
dei miei ottomani
e Petőfi che rese quest’idioma
seta e nuda spada.
Impossibile immaginare come nel mio naso
fumano nel mio naso le ciminiere degli opifici,
sostegni dell’intenso e azzurro cielo
e i trattori che solcano le pianure
ornate come gli scialli di
bambole Matyó
la tua apertura alla buona gente
come un pranzo nuziale.
Da te lontano, le tue medicine
fecero funzionare a guisa di orologio
il mio cuore malato
ma so che quando ti vedrò di nuovo
non le tirerò fuori dalla scatola.
Per le tue vie voglio girovagare
e i tuoi spassosi aneddoti ascoltare.
Corre la voce che le vigne a Tokaj,
i tuoi strumenti di misurazione
e le ragazze siano ancor più belli,
non arrivo a capire come possano
rendersi più belle ancora
bellezze che già sono fuori dell’ordinario.
Avrei voluto che a te somigliasse
la Terra della mia Anatolia,
somigliasse a te, Terra socialista,
Terra Magiara, mia Terra sorella.

 


 

Il mio funerale, Maggio 1963

Il mio funerale partirà dal nostro cortile?
Come mi faranno
a portarmi giù dal terzo piano?
La bara nell’ascensore non c’entra
e la scala è così angusta.
Il cortile sarà, forse,
pieno di sole, di tortore
forse nevicherà,
i bambini giocheranno strillando
forse, pioggia cadrà sull’asfalto
e ci saranno i soliti bidoni dell’immondizia.
Se m’isseran nel furgone con viso scoperto, com’è usanza,
forse in fronte qualcosa d’un piccione m’arriverà,
porta fortuna,
e con o senza fanfara,
i bambini accorreranno
loro sempre son incuriositi dai morti.
La finestra della nostra cucina
come uno sguardo mi seguirà
e il balcone col bucato steso, mi accompagnerà.
In questo cortile sono stato felice, profondamente felice.
Miei vicini del cortile,
a ciascuno lascio augurio di lunga vita.

 
 
 
 

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