John Burroughs, poetica voce in ode a Madre Natura
Saggista, poeta e naturalista, John Burroughs dedicò esistenza al movimento conservazionista statunitense, innamorandosi del creato e tatuandosene sacra beltà sull’animo, traslando a scritti i propri pensieri nell’immenso valore storico ed etico delle opere da lui lasciate in dono all’umanità.
La scienza uccide la credulità e la superstizione, ma per una mente equilibrata accresce il sentimento di meraviglia, venerazione e affinità che proviamo in presenza dell’universo miracoloso.
John Burroughs
Colui che il biografo americano, nonché scrittore, editore, consulente e musicista, Edward J. Renehan Jr. ebbe nel suo libro John Burroughs: An American Naturalist a definire «un letterato naturalista con la missione di testimoniare le proprie ineguagliabili percezioni del mondo della natura», schiuse per la prima volta innocenti palpebre, nel terzo giorno d’aprile del 1837, adagiandosi sulla Old Clump Mountain, vetta delle Catskills, altopiano incluso nell’immenso sistema montuoso degli Appalachi e situato nella zona sud-orientale dello Stato di New York, tra Stamford e Roxbury, cittadine facenti parte della contea di Delaware.
In rurali mura accolsero la sua venuta al mondo il padre Chauncy Burroughs (1803-1883) e la madre Amy Kelly (1808-1880), catapultandolo sul mondo all’interno d’una figliolanza composta da una decade di pargoli, rispettivamente Hiram (1827-1902), Olive ‘Polly’ Ann (1829-1856), Wilson (1831-1865), Curtis (1832-1912), Edmund (1834), Mary Jane (1836-1912), Eden (1839-1919), Eliza Eveline (1840-1852), calando sipario sul drappello di nascite Abigail ‘Galla’ (1843-1901).
Fattoria di famiglia fu l’ovattante luogo nel quale, fra cielo e terra, infanzia ed adolescenza di John Burroughs si contesero gli anni tra vicissitudini di bimbo e giovanili bracciate da mezzadro, frattanto posando inebriato passo tra vette e versanti, infinitamente infatuandosi delle altitudini più estreme ed agganciandole a fil di pathos – in futuro ne avrebbe marchiato la meraviglia nelle sue narrazioni – oltre che lasciandosi ammaliare dalla selvatica fauna di campagna e dal fascinoso migrar di volatili in fuga dal gelo, dei quali rimanere in attesa d’estaticamente rimirarne primaverili volteggi nel successivo e ciclico intiepidirsi dell’etere.
Ad Amor di Madre Natura s’affiancò nascente desiderio d’approfondire le proprie conoscenze, tuttavia non trovandosi il ragazzo sulla medesima linea d’onda del padre il quale, ritenendo la basilare cultura scolastica sufficiente all’istruzione del figlio, non volle farsi carico economicamente d’una sua eventuale carriera scolastica superiore, inconsciamente innescando meditabonda marcia in Burroughs che, appena diciassettenne, convalidò la propria indipendenza affrancandosi dalla natia dimora in partenza per la newyorkese contea di Ulster ove, all’interno del comune di Olive, ad una quarantina abbondante di miglia da Roxbury, il settimo figlio di Chauncy avrebbe cavalcato la propria determinazione, dedicandosi ad attività d’insegnamento al fin di sostenere egli stesso il proprio percorso di studi, simultaneamente gettando fondamenta all’edificazione dei propri sogni.
John Burroughs: il giovane e l’uomo
Burroughs protrasse pratica di magistero fin all’età di ventisei anni, fra il 1854 ed il 1856 ad essa avvicendando zelanti fasi di studio allo scopo d’acuire le proprie conoscenze, l’anno successivo consolidando in sposalizio infatuazione nei confronti d’Ursula North (1836-1917), ventunenne figlia d’un abbiente agricoltore di New York, secondo la quale l’irrefrenabile aspirazione del marito ad affermarsi come scrittore sarebbe stata d’intralcio alla speranza di mantenere il lussuoso stile di vita sin ad allora condotto, inoltre indebolendo legame di coppia una carente intesa passionale e divenendo timori di moglie effettiva realtà nel tracollo economico di poco seguente al matrimonio, sennonché acerbo incipit carrieristico di John s’avviò, nel 1860, sulle pagine del The Atlantic Monthly, rivista mensile americana — dal 2007 rinominata semplicemente The Atlantic — fondata nel 1857 su iniziativa dell’editore, critico e diplomatico James Russel Lowell (1819-1891), poeta appartenente ad una rosea schiera di scrittori del New England, riuniti all’epiteto di Fireside Poets, la cui nomea concorse con i colleghi britannici.
Fortemente innovativo, intrepidamente sincero e francamente svincolato da qualsiasi partito, il periodico vantava autorevoli firme il cui inchiostro, squisitamente impregnato di convinzioni riformiste ed abolizioniste, fissava liberal anticonformismo al cartaceo, ospitando in aggiunta una stimolante varietà d’articoli di matrice or pedagogica, or scientifica, or culturale, or letteraria, non mancando sagaci analisi critiche della situazione politica vigente, comun denominatore ad ogni stampa l’incessante riferirsi a concezioni progressiste della società sull’intera nazione, in più ospitando divulgazione di racconti e poesie d’eccelsi autori, tra la moltitudine dei quali individualità del calibro di Ernest Hemingway (1899-1961) ed Emily Dickinson (1830-1886) ad impreziosirne i contenuti fra narrazioni e rime.
Fu dunque fra le mani di Lowell che il saggio Expression di Burroughs trovò possibilità di propaganda, sebben cotanta apparve all’editore l’analogia con le opere del poeta, saggista e filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson (1803-1882), saltuario protagonista sul rotocalco succitato, peraltro appartenente alla schiera dei Fireside (oltre che scrittore sulle cui righe il Burroughs ragazzo aveva forgiato i suoi primi sentori naturalistici), da instillar in lui inizial sospetto di plagio, tuttavia scemato all’atto della pubblicazione.
Nel 1863, ultimo anno che lo vide in veste d’insegnante, desiata e piacevole amicizia lo legò al giornalista, saggista e poeta Walt Whitman (1819-1892), uno fra i più ragguardevoli del paradigma americano, amabile celebratore della libera sovranità popolare, convinto sostenitore della centralità che l’uomo dovrebbe mantenere al di sopra d’ogni cosa e pioniere dei versi liberi, ovvero quel rimar non rigidamente soggetto a regole e metrica, bensì fedele ad un linguaggio ritmico naturale, il medesimo che Whitman cercò di trasmettere a Burroughs, con ardore spronandolo a non desistere dal nutrire la sua dote scrittoria.
Il seguente anno, simmetricamente ad amor di penna John Burroughs affiancò attività impiegatizia presso l’United States Department of the Treasury, lavorando come revisore dell’istituto finanziario federale fino al 1880, tuttavia durante quei sedici anni mai abbandonando la scrittura e condensando affetto e riconoscenza nella stesura in uscita nel 1867, di Walt Whitman, analisi critica dell’opere di Walt ed annessa biografia, a cui mano dello stesso Whitman appose anonima modifica prima della pubblicazione avvenuta nel 1867, di quattro anni precedendo quella di Wake-Robin, classico di letteratura naturalistica che racchiude quella che ufficialmente fu la sua prima antologia saggistica di Burroughs.
Di lì ad un biennio, nel 1873 calamitica attrazione nei confronti della natura spinse Burroughs ad acquistare, migrando dimora da Washington a New York, un’immensa tenuta, denominata Riverby, completamente immersa nel verde di West Park, graziosa frazione della cittadina di Esopus, nella contea di Usler, sul lato ovest del fiume Hudson, a cui il selvoso terreno s’unisce discendendo in terrazzamenti sul più elevato dei quali Burroughs eresse il proprio alloggio disposto su tre piani e le cui mura, nel 1968 divenute monumento storico nazionale, sebben ancor di proprietà privata e non visitabili, ne accolsero amabile presenza, fine sentore e quell’insita propensione a decantar di Madre Natura che il magnanimo poeta effuse nel suo studio edificato in legno di castagno, allora ancor inconsapevole che generosa sorte, un quinquennio più avanti, lo avrebbe pregiato del più incantevole dei doni, ossia la nascita del figlio Julian (1878-1954), a cui genetica paterna avrebbe trasfuso attitudini e talenti, frattanto marciando il proprio arco vitale in fidente passo verso se stesso e trascorrendo un ventennio fra scritti e coltivazioni dei propri appezzamenti.
Amor di terra lo spronò ad ampliare la propria masseria annettendovi ulteriore porzion di suolo sul quale, intensa collaborazione fra le sue mani e quelle ormai diciassettenni del figlio, nel 1895 rese gratitudine alla nobiltà del lavoro manuale innalzando un capanno, nome in tetto Slabsides, nella cui interna atmosfera ritirarsi in completa ispirazione, dedicarsi a colture esterne ed addolcire la solitudine attraverso cortesi conversazioni con i numerosi ospiti in visita, studenti e rilevanti personalità, fra le quali il filantropo, ingegnere ed industriale Henry Ford (1863-1947), il grande inventore Thomas Alva Edison (1847-1931), l’uomo d’affari, in ambito di pneumatici automobilistici, Harvey Samuel Firestone (1868-1938), lo stesso Theodore Roosevelt Jr. (1858-1919), ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti, inoltre onorandosi della presenza del mirabile naturalista scozzese-americano, nonché zoologo, filosofo ambientale, glaciologo e botanico, John Muir (1838-1914), animoso ed avanguardista precursore del conservazionismo naturale statunitense e fondatore, nel 1892, dell’organizzazione ambientale correlata, ossia il Sierra Club, le cui attuali sedi, presenti in ogni stato degli USA, si spendono attivamente a favore dell’energie sostenibili ed in aperta antitesi all’utilizzo del carbone, nella speranza che le politiche mondiali possano collimarsi nella convinzione che solamente questa direzione possa costituire freno al devastante fenomeno del riscaldamento globale.
Responsabilmente confrontandosi su comuni tematiche rivolte all’ambiente, con alcuni di loro John Burroughs avrebbe intrapreso innumerevoli ed avventurosi viaggi, oltre a ciò partecipando ad una grandiosa spedizione indelebile alla mente, come all’interno del petto gli si sarebbe poco tempo dopo aggrovigliata, in maniera indistricabile, una sedicente, quanto deflagrante, presenza femminile.
Se dovessi nominare le tre risorse più preziose della vita, dovrei dire libri, amici e natura; e il più grande di questi, almeno il più costante e sempre a portata di mano, è la natura.
John Burroughs
“The Grand Old Man of Nature”
Nel 1881, il facoltoso, perspicace, intraprendente e lungimirante trentatreenne Edward Henry Harriman (1848/9-1909), originario di Hempstead, newyorkese contea di Nassau, in seguito autorevole dirigente delle ferrovie americane e da due anni genero di Williams John Averell (1821-1897), a sua volta presidente della Ogdensburg and Lake Champlain Railroad (tratto ferroviario, di circa centoventi miglia, collegante la stessa Ogdensburg a Rouses Point, mosso dall’intenzione di riorganizzare il tracollo del trasporto ferroviario), acquistò una piccola ferrovia situata nella zona meridionale d’uno dei cinque grandi laghi del Nordamerica, l’Ontario, ripristinandola, quindi concludendone vendita con la Pennsylvania Railroad, compagnia di Classe I che l’acquisì dietro cospicuo compenso, in tal modo divenendo blocco di partenza dal quale la carriera di Harriman sarebbe partita sbuffando in piena corsa.
Diciotto anni dopo, indi nel 1899, il quasi cinquantenne Edward, nel frattempo divenuto anche direttore e presidente del comitato esecutivo della Union Pacific Railroad, ferrovia di trasporto merci fra le più grandi a livello mondiale, si spese personalmente per organizzare e sostenere una spedizione scientifica in Alaska (Harriman Alaska Expedition), il cui scopo sarebbe stato quello di porre a catalogazione fauna e flora popolanti le coste del glaciale stato federato, per raggiunger le quali restaurò completamente un mastodontico piroscafo, il SS George W. Elder, dotandolo d’ogni comodità ed attrezzandolo d’ambienti bibliotecari con centinaia di volumi informativi sul glaciale stato federato, zone atte alla custodia d’animali e stanze adibite alle varie discipline, poi selezionando accuratamente una vasta rosa di studiosi fra i più esperti e raccogliendo una variegata squadra comprendente scienziati di differenti branche, artisti, fotografi e scrittori per una trentina di partecipanti, oltre al corposo equipaggiamento di cui fecero parte, insieme ai marinai, medici e lavoratori a servizio su più mansioni e nei settantasei metri di lunghezza che li ospitarono posero passo anche Burroughs e l’omonimo amico Muir, quest’ultimo già sodato conoscitore dei territori d’approdo per precedenti spedizioni effettuate a cavallo fra il 1879 ed il 1880, dapprima, poi nel 1990, convocato per l’indubbia e vasta padronanza naturalistica, in particolar modo in ambito di glaciologia, John in qualità d’autore, per le centinaia di pubblicazioni alle spalle sulle bellezze della natura, in più ai testi da lui redatti e già venduti in circa due milioni di copie.
Il viaggio si srotolò nella durata temporale di un bimestre, da fine maggio a fine luglio, con partenza e rientro in Seattle, impegnandosi Harriman a finanziare la produzione letteraria di variegati tomi che donassero immortalità scritta agli avvenimenti della maestosa esplorazione — durante la quale vennero scoperte all’incirca seicento nuove specie — intento che dopo la sua dipartita venne proseguito dalla moglie Mary Williamson Averell Harriman (1851-1932), dedita ed immane filantropa, divenendo i contenuti delle pubblicazioni una sorta di staffetta fra la metodologia scientifica del diciannovesimo secolo e la nascente del successivo, con interrogativo comune sull’impatto che il progresso avrebbe potuto nel corso del tempo avere sulle popolazioni indigene incontrate durante quelle quasi nove settimane di viaggio.
A quei tempi la scrittrice e dottoressa Clara Barrus (1864-1931), nativa di Port Byron, dopo essere stata una fra le pochissime donne ad esser riuscita a laurearsi in medicina, nel 1888, alla Boston University, svolgeva professione presso il Middletown State Hospital of Homeopathy, alternando mansione come docente di psichiatra al Women’s College di New York e piacevole conoscenza con Burroughs, caro amico del di lei consorte, deliziando la sua vita nel 1902, inaspettatamente e con lentezza germinando fra i due quel tipo d’affinità elettiva che combacia gli intelletti esondando con dolce prepotenza sull’anime e legandole indissolubilmente, fra palpiti e parole, come fossero state separate all’origine e ricucite fra loro a colpi di destino ed a sopraggiunta vedovanza di John, nel 1917, la coppia continuò la propria esistenza scambiandosi sguardi, respiri, pensieri ed emozioni riunendo cuori ad unica capanna.
In quel periodo era sorto un dibattito letterario, tutto americano, noto come The Nature Fakers controversy, che poneva agli antipodi la visione della natura riportata in scrittura con idillica sfumatura, rispetto ad un approccio maggiormente scientifico ed a quella che il New York Times ebbe a definire War of the Naturalists partecipò attivamente anche Burroughs il quale, assiduamente convinto che le rappresentazioni superficialmente chimeriche della natura — derivanti da un nuovo movimento letterario che, sul finire del diciannovesimo secolo, declamava un personale visione del creato in maniera talvolta astratta e poco attendibile — fossero poco realistiche, nel 1903 formalizzò e diffuse la propria opinione dalle pagine dell’ormai familiare The Atlantic Monthly e dalle medesime accusando, nell’articolo Real and Sham Natural History, molteplici e celebri scrittori del genere, all’epoca in forte ascesa, ch’egli rinominò sarcasticamente «yellow journalism of the woods», di fatto accendendo un miccia che detonò polemiche, a colpi di carta stampata, per circa un sessennio, ulteriormente allungando oltre misura la distanza fra scienziati e scrittori popolari, sebben prima acqua su fuoco venne gettata dal pubblico allineamento d’opinione di Roosevelt a John, manifestato, nel 1907, tramite pubblicazione del di lui articolo Nature Fakers su Everybody’s Magazine, la rivista promulgante narrativa e saggistica, attiva fra il 1899 ed il 1929.
Al termine di quella focosa diatriba, l’ormai settantenne Burroughs macinava pensieri e scrittura come se la veneranda età nulla potesse sulle sue facoltà psicofisiche, in effetti saltellando la sua esistenza, con l’animo d’un giovine assetato di vita e conoscenza, per oltre tredici anni, fino a che suo primo lupus in fabula iniziò a divorare frammenti di memoria nei mesi che precedettero la sua discesa dal pianeta, inoltre iniziando il suo muscolo cardiaco a percepire gli effetti del tempo che inesorabile trascorre su ogni uomo, per effetto dei quali John venne operato nel febbraio del 1921, il mese successivo esaurendo definitivamente il bagaglio di battiti e respiri che la sorte gli aveva generosamente concesso in dote, di soli cinque giorni mancando, mentre si trovava a bordo di un treno nei pressi di Kingsville, nello stato dell’Ohio, il traguardo dell’ottantaquattresimo anno di vita compiuto.
In sopraggiunto e devastante furto amoroso, la sua adorata Clara Barrus dedicò la sua esistenza alla memoria dell’amato, nostalgicamente ricamandolo nella biografia, datata 1920, John Burroughs: Boy and Man, rivedendo alcune sue opere postume, infine pubblicando i libri Life and Letters of John Burroughs (1928), The life and letters of John Burroughs (1925), Whitman and Burroughs Comrades (1931).
In corrispondenza temporale al genetliaco, venne sepolto nei pressi d’una pietra alla quale era legato per musicali ricordi d’infanzia, essendo che sulla stessa il Burroughs fanciullo si dilettava a suonare, per l’appunto affibbiando al possente macigno l’epiteto Boyhood Rock ed ora soggiacendo sotto la targa commemorativa che riporta una sua frase, «I stand amid the eternal ways», effondendo nell’aria quell’amabile, dissetante, eccelso, fascinoso ed inebriante profumo di libertà ch’è proprio solamente a coloro che s’impuntino nel trovare il coraggio di vivere in fede a se stessi, mai obliando d’ascoltarsi come l’incantevole saggista seppe fare, incessantemente sconoscendosi nel carpir dal creato il più raffinato, autentico, edificante e soave degli insegnamenti.
La natura insegna più di quanto predichi. Non ci sono sermoni nelle pietre. È più facile ottenere una scintilla da una pietra che non una morale.
John Burroughs
L’Amore e l’eredità
La penna di John Burroughs ebbe ampio grembo, accogliendo in sé disparate argomentazioni finemente filtrate da un sottile intelletto ed un animo accorto nel suo riferirsi alle sacrali origini umane in imprescindibile riferimento a Madre Natura, ch’egli in gioventù fecondò sulle letture del carissimo amico Whitman, colui che nei confronti del quale il naturalista fu immensamente grato per esser stato indimenticabile e caritatevole modello di generosità e continuo sprone alla riflessione, a quattro anni dalla sua compianta dipartita dedicandogli ulteriore omaggio in Whitman; a study, inoltre su quelle del saggista, poeta, filosofo e docente Ralph Waldo Emerson (1803-1882), quest’ultimo convinta guida del movimento trascendentalista, sorto nella parte orientale degli Stati Uniti fra il 1820 ed il 1830, secondo la qual filosofia la connaturata bontà dell’uomo e della natura subisce deleteria contaminazione da parte della società e delle sue istituzioni, di conseguenza Emerson sostenendo con tutto se stesso una concezione assolutamente individualista della persona, alla quale riferirsi in pura e primigenia purezza morale, presa di posizione che i suoi innumerevoli saggi riportarono con inequivocabile chiarezza e che lo allontanarono gradualmente da qualsiasi credo religioso, immaginando l’individuo al centro in esclusivo rapporto fra la sua anima e quella del cosmo, tuttavia percependo una presenza divina inscindibilmente avvinta all’universo.
Orientamento panteista verso il quale intimamente confluirono le certezze di Burroughs, calcando fedelmente principi secondo cui non esista un Dio antropomorfo e separato dalla realtà, ma che rappresentazione divina sia esclusivamente rappresentata all’interno della natura.
Filo rosso che varcò ogni cruna dell’ago scrittorio di John Burroughs il quale, con costante ed ardente partecipazione emotiva, egualmente cantò fauna, flora, letteratura, scienza, religione, filosofia e tutto quanto gli elargisse possibilità d’esprimersi attraverso vocaboli ubriacati d’illibato sentore e genuino sciogliersi nella tangibilità a lui limitrofa, mai destinando oblio alle pietrose alture che ne accolsero fantasticherie d’infanzia e propositi di giovinezza, ai suoi beneamati monti dedicando il saggio Riverby del 1894, di cui impresso su lamina incastonata in sua memoria sulla sommità più elevata della catena montuosa, la Slide Mountain, è nucleo di riflessione a sconfinata vista: «[Qui] Le opere dell’uomo si attenuano ed erompono le originarie peculiarità del vasto globo terrestre. Ogni singolo oggetto o qualsiasi punto è reso insignificante; la valle dell’Hudson è solo una ruga sul volto terrestre. Scoprirete, percependo sorpresa che la magnificenza è la terra stessa, la quale si estende in ogni dove superando la vostra comprensione».
Fra la moltitudine di libri dal saggista redatti, tratto e colore dell’amato figlio Julian impreziosirono l’opera paterna concludendo ed illustrando My Boyood, dimostrando intrinseco talento di setola ed estro artistico ad ampio spettro, essendo il ragazzo, oltre che pittore paesaggista, detentore di varie doti espresse in ambito fotografico e architettonico, in più accomunandolo al padre l’attitudine alla scrittura e l’amore per l’agricoltura, qualità geneticamente trasfuse e poi coltivate con la dedizione del rapporto che lega genitori ed eredi nel condividere interessi e vissuti, nello specifico lunghissime passeggiate in cui impararsi l’un l’altro, intrider anima e corpo d’ogni spettacolo visivo della creazione, fra le cui acque fluviali John aveva accesa passione per la pesca fin da ragazzo, alla pratica sportiva dedicandosi in prosa, richiamo dei luoghi natali lo sospinse a respirar legna della Woodchuck Lodge, dimora costruita nel 1862 a un miglio dalla casa natale, ove riposano le sue spoglie, dal 1908 suo ovattato riparo, custodito nell’abbraccio d’un’incantevole area boschiva, dal 1862 monumento storico nazionale, il John Burroughs Memorial State Historic Site (insieme a Riverby e Slabsides inserito nel National Register of Historic Planes), la cui gestione, attualmente statale, apre alla possibilità di toccar con mano e respirar con emozione la mirabile e rara intesa che Burroughs fu in grado di stabilire con il suo ambiente circostante, mai obliando d’esservi ospite, pertanto tracciando propria presenza sul globo terrestre in caparbio, persistente e speranzoso patrocinio della corrente di pensiero conservazionista, scaturita a metà del diciannovesimo secolo a responsabile tutela della biodiversità e degli ecosistemi.
Queste colline mi sono state padre e madre. Io sono sangue del loro sangue e ossa delle loro ossa; perché non dovrei tornare da loro nei miei ultimi anni?
John Burroughs
Al fine di salvaguardare le risorse naturali, i conservazionisti s’adoperarono per favorire nell’umanità una cosciente e gentile consapevolezza nell’attingerne con delicata parsimonia, smisuratamente contrapponendosi agli sfruttamenti intensivi dei territori, in tal maniera instaurando con gli stessi un grato ed onesto rapporto di condivisione.
Finezza intellettiva, magnificenza d’ideali e garbo di condotta che in Burroughs spezzarono ogni vena in virtù d’un esemplare agire che gli rese onore in vita e immensa lode ancora lo glorifica, a quasi un secolo esatto dalla sua scomparsa, resuscitandolo ogniqualvolta si discorra di possibili cure agli sconsiderati malanni di cui l’umanità s’è resa artefice nei confronti della sfera terrestre e della vitale aria che l’avvolge in sospensione nello spazio, risuonando il suo melodico canto in eco fra promontori, mestamente rievocandone la presenza i suoi alloggi e malinconicamente sussurrando i suoi densi inchiostri la retta via da seguire.
Waiting
Serene, I fold my hands and wait,
Nor care for wind, nor tide, nor sea;
I rave no more ‘gainst time or fate,
For lo! my own shall come to me.
I stay my haste, I make delays,
For what avails this eager pace?
I stand amid the eternal ways,
And what is mine shall know my face.
Asleep, awake, by night or day,
The friends I seek are seeking me;
No wind can drive my bark astray,
Nor change the tide of destiny.
What matter if I stand alone?
I wait with joy the coming years;
My heart shall reap where it hath sown,
And garner up its fruit of tears.
The waters know their own and draw
The brook that springs in yonder height;
So flows the good with equal law
Unto the soul of pure delight.
The stars come nightly to the sky;
The tidal wave unto the sea;
Nor time, nor space, nor deep, nor high,
Can keep my own away from me.
The Bobolink
Daisies, clover, buttercup,
Redtop, trefoil, meadowsweet,
Ecstatic pinions, soaring up,
Then gliding down to grassy seat.
Sunshine, laughter, mad desires,
May day, June day, lucid skies,
All reckless moods that love inspires-
The gladdest bird that sings and flies.
Meadows, orchards, bending sprays,
Rushes, lilies, billowy wheat,
Song and frolic fill his days,
A feathered rondeau all complete.
Pink bloom, gold bloom, fleabane white,
Dewdrop, raindrop, cooling shade,
Bubbling throat and hovering flight,
And jocund heart as e’er was made.
The Coming Of Phoebe
When buckets shine ‘gainst maple trees
And dropp by dropp the sap doth flow,
When days are warm, but still nights freeze,
And deep in woods lie drifts of snow,
When cattle low and fret in stall,
Then morning brings the phoebe’s call,
‘phoebe,
phoebe, phoebe,’ a cheery note,
While cackling hens make such a rout.
When snowbanks run, and hills are bare,
And early bees hum round the hive,
When woodchucks creep from out their lair
Right glad to find themselves alive,
When sheep go nibbling through the fields,
Then phoebe oft her name reveals,
‘phoebe,
phoebe, phoebe,’ a plaintive cry,
While jack-snipes call in morning sky.
When wild ducks quack in creek and pond
And bluebirds perch on mullein-stalks,
When spring has burst her icy bond
And in brown fields the sleek crow walks,
When chipmunks court in roadside walls,
Then phoebe from the ridgeboard calls,
‘phoebe,
phoebe, phoebe,’ and lifts her cap,
While smoking Dick doth boil the sap.
Midsummer in the Catskills
The strident hum of sickle-bar,
Like giant insect heard afar,
Is on the air again;
I see the mower where he rides
Above the level grassy tides
That flood the meadow plain.
The barns are fragrant with new hay,
Through open doors the swallows play
On wayward, glancing wing;
The bobolinks are on the oats,
And gorging stills the jocund throats
That made the meadows ring.
The cradlers twain, with right good-will,
Leave golden lines across the hill
Beneath the midday sun.
The cattle dream ‘neath leafy tent,
Or chew the cud of sweet content
Knee-deep in pond or run.
July is on her burning throne,
And binds the land with torrid zone,
That hastes the ripening grain;
While sleepers swelter in the night,
The lusty corn is gaining might
And darkening on the plain.
The butterflies sip nectar sweet
Where gummy milkweeds offer treat
Or catnip bids them stay.
On banded wing grasshoppers poise,
With hovering flight and shuffling noise,
Above the dusty way.
The thistle-bird, midsummer’s pet,
In billowy flight on wings of jet,
Is circling near his mate.
The silent waxwing’s pointed crest
Is seen above her orchard nest,
Where cherries linger late.
The dome of day o’erbrims with sound
From humming wings on errands bound
Above the sleeping fields;
The linden’s bloom faint scents the breeze,
And, sole and blessed ‘mid forest trees,
A honeyed harvest yields.
Poisèd and full is summer’s tide,
Brimming all the horizon wide,
In varied verdure dressed;
Its viewless currents surge and beat
In airy billows at my feet
Here on the mountain’s crest.
Through pearly depths I see the farms,
Where sweating forms and bronzèd arms
Reap in the land’s increase;
In ripe repose the forests stand,
And veilèd heights on every hand
Swim in a sea of peace.
The Partridge
List the booming from afar,
Soft as hum of roving bee,
Vague as when on distant bar
Fall the cataracts of the sea.
Yet again, a sound astray,
Was it the humming of the mill?
Was it cannon leagues away?
Or dynamite beyond the hill?
‘T is the grouse with kindled soul,
Wistful of his mate and nest,
Sounding forth his vernal roll
On his love-enkindled breast.
List his fervid morning drum,
List his summons soft and deep,
Calling Spice-bush till she come,
Waking Bloodroot from her sleep.
Ah! ruffled drummer, let thy wing
Beat a march the days will heed,
Wake and spur the tardy spring,
Till minstrel voices jocund ring,
And spring is spring in very deed.
The Downy Woodpecker
Downy came and dwelt with me,
Taught me hermit lore;
Drilled his cell in oaken tree
Near my cabin door.
Architect of his own home
In the forest dim,
Carving its inverted dome
In a dozy limb.
Carved it deep and shaped it true
With his little bill;
Took no thought about the view,
Whether dale or hill.
Shook the chips upon the ground,
Careless who might see.
Hark! his hatchet’s muffled sound
Hewing in the tree.
Round his door as compass-mark,
True and smooth his wall;
Just a shadow on the bark
Points you to his hall.
Downy leads a hermit life
All the winter through;
Free his days from jar and strife,
And his cares are few.
Waking up the frozen woods,
Shaking down the snows;
Many trees of many moods
Echo to his blows.
When the storms of winter rage,
Be it night or day,
Then I know my little page
Sleeps the time away.
Downy’s stores are in the trees,
Egg and ant and grub;
Juicy tidbits, rich as cheese,
Hid in stump and stub.
Rat-tat-tat his chisel goes,
Cutting out his prey;
Every boring insect knows
When he comes its way.
Always rapping at their doors,
Never welcome he;
All his kind, they vote, are bores,
Whom they dread to see.
Why does Downy live alone
In his snug retreat?
Has he found that near the bone
Is the sweetest meat?
Birdie craved another fate
When the spring had come;
Advertised him for a mate
On his dry-limb drum.
Drummed her up and drew her near,
In the April morn,
Till she owned him for her dear
In his state forlorn.
Now he shirks all family cares,
This I must confess;
Quite absorbed in self affairs
In the season’s stress.
We are neighbors well agreed
Of a common lot;
Peace and love our only creed
In this charmed spot.
In October
Now comes the sunset of the verdant year,
Chemic fires, still and slow,
Burn in the leaves, till trees and groves appear
Dipped in the sunset’s glow.
Through many-stained windows of the wood
The day sends down its beams,
Till all the acorn-punctured solitude
Of sunshine softly dreams.
I take my way where sentry cedars stand
Along the bushy lane,
And whitethroats stir and call on every hand,
Or lift their wavering strain;
The hazel-bush holds up its crinkled gold
And scents the loit’ring breeze
A nuptial wreath amid its leafage old
That laughs at frost’s decrees.
A purple bloom is creeping o’er the ash
Dull wine against the day,
While dusky cedars wear a crimson sash
Of woodbine’s kindled spray.
I see the stolid oak tree’s smould’ring fire
Sullen against emerald rye;
And yonder sugar maple’s wild desire
To match the sunset sky.
On hedge and tree the bittersweet has hung
Its fruit that looks a flower;
While alder spray with coral berries strung
Is part of autumn’s dower.
The plaintive calls of bluebirds fill the air,
Wand’ring voices in the morn;
The ruby kinglet, flitting here and there,
Winds again his elfin horn.
Now Downy shyly drills his winter cell,
His white chips strew the ground;
While squirrels bark from hill or acorned dell
A true autumnal sound.
I hear the feathered thunder of the grouse
Soft rolling through the wood,
Or pause to note where hurrying mole or mouse
Just stirs the solitude.
A non the furtive flock-call of the quail
Comes up from weedy fields;
Afar the mellow thud of lonely flail
Its homely music yields.
Behold the orchards piled with painted spheres
New plucked from bending trees;
And bronzèd huskers tossing golden ears
In genial sun and breeze.
Once more the tranquil days brood o’er the hills,
And soothe earth’s toiling breast;
A benediction all the landscape fills
That breathes of peace and rest.
The Cardinal Flower
Like peal of a bugle
Upon the still night,
So flames her deep scarlet
In dim forest light.
A heart-throb of color
Lit up the dim nook,
A dash of deep scarlet
The dark shadows shook.
Thou darling of August,
Thou flame of her flame,
‘T is only bold Autumn
Thy ardor can tame.
Bluebird
A wistful note from out the sky,
‘Pure, pure, pure,’ in plaintive tone,
As if the wand’rer were alone,
And hardly knew to sing or cry.
But now a flash of eager wing,
Flitting, twinkling by the wall,
And pleadings sweet and am’rous call,-
Ah, now I know his heart doth sing!
O bluebird, welcome back again,
Thy azure coat and ruddy vest
Are hues that April loveth best,-
Warm skies above the furrowed plain.
The farm boy hears thy tender voice,
And visions come of crystal days,
With sugar-camps in maple ways,
And scenes that make his heart rejoice.
The lucid smoke drifts on the breeze,
The steaming pans are mantling white,
And thy blue wing’s a joyous sight,
Among the brown and leafless trees.
Now loosened currents glance and run,
And buckets shine on sturdy boles,
The forest folk peep from their holes,
And work is play from sun to sun.
The downy beats his sounding limb,
The nuthatch pipes his nasal call,
And Robin perched on tree-top tall
Heavenward lifts his evening hymn.
Now go and bring thy homesick bride,
Persuade her here is just the place
To build a home and found a race
In Downy’s cell, my lodge beside.
Early May
The time that hints the coming leaf,
When buds are dropping chaff and scale,
And, wafted from the greening vale,
Are pungent odors, keen as grief.
Now shad-bush wears a robe of white,
And orchards hint a leafy screen;
While willows drop their veils of green
Above the limpid waters bright.
New songsters come with every morn,
And whippoorwill is overdue,
While spice-bush gold is coined anew
Before her tardy leaves are born.
The cowslip now with radiant face
Makes mimic sunshine in the shade,
Anemone is not afraid,
Although she trembles in her place.
Now adder’s-tongue new gilds the mould,
The ferns unroll their woolly coils,
And honey-bee begins her toils
Where maple trees their fringe unfold.
The goldfinch dons his summer coat,
The wild bee drones her mellow bass,
And butterflies of hardy race
In genial sunshine bask and float.
The Artist now is sketching in
The outlines of his broad design
So soon to deepen line on line,
Till June and summer days begin.
Now Shadow soon will pitch her tent
Beneath the trees in grove and field,
And all the wounds of life be healed,
By orchard bloom and lilac scent.
The Crow
I
My friend and neighbor through the year,
Self-appointed overseer
Of my crops of fruit and grain,
Of my woods and furrowed plain,
Claim thy tithings right and left,
I shall never call it theft.
Nature wisely made the law,
And I fail to find a flaw
In thy title to the earth,
And all it holds of any worth.
I like thy self-complacent air,
I like thy ways so free from care,
Thy landlord stroll about my fields,
Quickly noting what each yields;
Thy courtly mien and bearing bold,
As if thy claim were bought with gold;
Thy floating shape against the sky,
When days are calm and clouds are high;
Thy thrifty flight ere rise of sun,
Thy homing clans when day is done.
Hues protective are not thine,
So sleek thy coat each quill doth shine.
Diamond black to end of toe,
Thy counterpoint the crystal snow.
II
Never plaintive nor appealing,
Quite at home when thou art stealing,
Always groomed to tip of feather,
Calm and trim in every weather,
Morn till night my woods policing,
Every sound thy watch increasing.
Hawk and owl in tree-top hiding
Feel the shame of thy deriding.
Naught escapes thy observation,
None but dread thy accusation.
III
Hunters, prowlers, woodland lovers
Vainly seek the leafy covers.
Noisy, scheming, and predacious,
With demeanor almost gracious,
Dowered with leisure, void of hurry,
Void of fuss and void of worry,
Friendly bandit, Robin Hood,
Judge and jury of the wood,
Or Captain Kidd of sable quill,
Hiding treasures in the hill,
Nature made thee for each season,
Gave thee wit for ample reason,
Good crow wit that’s always burnished
Like the coat her care has furnished.
May thy numbers ne’er diminish!
I’ll befriend thee till life’s finish.
May I never cease to meet thee!
May I never have to eat thee!
And mayest thou never have to fare so
That thou playest the part of scarecrow!
A March Glee
I hear the wild geese honking
From out the misty night,
A sound of moving armies
On-sweeping in their might;
The river ice is drifting
Beneath their northward flight.
I hear the bluebird plaintive
From out the morning sky,
Or see his wings a-twinkle
That with the azure vie;
No other bird more welcome,
No more prophetic cry.
I hear the sparrow’s ditty
A near my study door;
A simple song of gladness
That winter days are o’er;
My heart is singing with him,
I love him more and more.
I hear the starling fluting
His liquid “O-ka-lee;”
I hear the downy drumming,
His vernal reveillé;
From out the maple orchard
The nuthatch calls to me.
Oh, spring is surely coming,
Her couriers fill the air;
Each morn are new arrivals,
Each night her ways prepare;
I scent her fragrant garments,
Her foot is on the stair.
The Song of the Toad
Have you heard the blinking toad
Sing his solo by the river
When April nights are soft and warm,
And spring is all a-quiver?
If there are jewels in his head,
His wits they often muddle,
His mate full often lays her eggs
Into a drying puddle.
The jewel’s in his throat, I ween,
And song in ample measure,
For he can make the welkin ring,
And do it at his leisure.
At ease he sits upon the pool,
And, void of fuss or trouble,
Makes vesper music fit for kings
From out an empty bubble:
A long-drawn-out and tolling cry,
That drifts above the chorus
Of shriller voices from the marsh
That April nights send o’er us;
A tender monotone of song
With vernal longings blending,
That rises from the ponds and pools,
And seems at times unending;
A linkèd chain of bubbling notes,
When birds have ceased their calling,
That lulls the ear with soothing sound
Like voice of water falling.
It is the knell of Winter dead;
Good-by, his icy fetter.
Blessings on thy warty head:
No bird could do it better.
The Return
He sought the old scenes with eager feet
The scenes he had known as a boy;
“Oh, for a draught of those fountains sweet,
And a taste of that vanished joy!”
He roamed the fields, he wooed the streams,
His schoolboy paths essayed to trace;
The orchard ways recalled his dreams,
The hills were like his mother’s face.
O sad, sad hills! O cold, cold hearth!
In sorrow he learned this truth
One may return to the place of his birth,
He cannot go back to his youth.
The Indigo-Bird
Oh, late to come but long to sing,
My little finch of deep-dyed wing,
I welcome thee this day!
Thou comest with the orchard bloom,
The azure days, the sweet perfume
That fills the breath of May.
A wingèd gem amid the trees,
A cheery strain upon the breeze
From treetop sifting down;
A leafy nest in covert low,
When daisies come and brambles blow,
A mate in Quaker brown.
But most I prize, past summer’s prime,
When other throats have ceased to chime,
Thy faithful treetop strain;
No brilliant bursts our ears enthrall
A prelude with a “dying fall”
That soothes the summer’s pain.
Where blackcaps sweeten in the shade,
And clematis a bower hath made,
Or in the bushy fields,
On breezy slopes where cattle graze,
At noon on dreamy August days,
Thy strain its solace yields.
Oh, bird inured to sun and heat,
And steeped in summer languor sweet,
The tranquil days are thine.
The season’s fret and urge are o’er,
Its tide is loitering on the shore;
Make thy contentment mine!
Snow-Birds
From out the white and pulsing storm
I hear the snow-birds calling;
The sheeted winds stalk o’er the hills,
And fast the snow is falling.
Like children laughing at their play
I hear the birds a-twitter,
What care they that the skies are dim
Or that the cold is bitter?
On twinkling wings they eddy past,
At home amid the drifting,
Or seek the hills and weedy fields
Where fast the snow is sifting.
Their coats are dappled white and brown
Like fields in winter weather,
But on the azure sky they float
Like snowflakes knit together.
I’ve heard them on the spotless hills
Where fox and hound were playing,
The while I stood with eager ear
Bent on the distant baying.
The unmown fields are their preserves,
Where weeds and grass are seeding;
They know the lure of distant stacks
Where houseless herds are feeding.
O cheery bird of winter cold,
I bless thy every feather;
Thy voice brings back dear boyhood days
When we were gay together.
Hepatica
When April’s in her genial mood,
And leafy smells are in the wood,
In sunny nook, by bank or brook,
Behold this lovely sisterhood.
A spirit sleeping in the mould,
And tucked about by leafage old,
Opens an eye blue as the sky,
And trusting takes the sun or cold.
Before a leaf is on the tree,
Or booms the roving bumblebee,
She hears a voice, “Arise, rejoice!”
In furry vestments cometh she.
Before the oven-bird has sung,
Or thrush or chewink found a tongue,
She ventures out and looks about,
And once again the world is young.
Sometimes she stands in white array,
Sometimes as pink as dawning day,
Or every shade of azure made,
And oft with breath as sweet as May.
Sometimes she bideth all alone,
And lifts her face beside a stone,
A child at play along the way,
When all her happy mates have flown.
Again in bands she beams around,
And brightens all the littered ground,
And holds the gaze in leafless ways
A concert sweet without a sound.
Like robin’s song or bluebird’s wing,
Or throats that make the marshes ring,
Her beaming face and winsome grace
Are greetings from the heart of spring.
Columbine
I strolled along the beaten way,
Where hoary cliffs uprear their heads,
And all the firstlings of the May
Were peeping from their leafy beds,
When, dancing in its rocky frame,
I saw th’ columbine’s flower of flame.
Above a lichened niche it clung,
Or did it leap from out a seam?
Some hidden fire had found a tongue
And burst to light with vivid gleam.
It thrilled the eye, it cheered the place,
And gave the ledge a living grace.
The redstart flashing up and down,
The oriole whistling in the elm,
The kinglet with his ruby crown
All wear the colors of thy realm;
And starling, too, with glowing coals
So shine thy lamps by oak-tree boles.
I saw them a-flaming
Against the gray rocks;
I saw them in couples,
I saw them in flocks.
They danced in the breezes,
They glowed in the sun,
They nodded and beckoned,
Rejoiced every one.
Some grew by the wayside,
Some peered from the ledge,
Some flamed from a crevice,
And clung like a wedge;
Some rooted in débris
Of rocks and of trees,
And all were inviting
The wild banded bees.
Nature knows well the use of foils,
And knoweth how to recompense;
There lurks a grace in all her toils
And in her ruder elements;
And oft doth gleam a tenderness
The eye to charm, the ear to bless.
Ma dobbiamo impararlo prima o poi. Arriverà sicuramente un momento in cui la mente percepisce che anche questo mondo è opera di Dio e non dei diavoli, e che nell’ordine della natura possiamo vedere le vie dell’Eterno; in effetti, quel Dio è qui e ora nel fatto più umile e familiare, più insonne e attivo che mai nella vecchia Giudea. Questa percezione è venuta e sta tornando alla mente oggi più che mai, questa percezione della modernità di Dio, della modernità dell’ispirazione, della modernità della religione; che non c’è mai stata più rivelazione di quella che c’è ora, mai più conversazioni di Dio con l’uomo, mai più Giardino di Eden, o caduta di Adamo, o tuono del Sinai, o angeli ministri, di quanto ci sia ora; infatti, che queste cose non sono eventi storici, ma esperienze e percezioni interiori perennemente rinnovate o caratterizzate dalla crescita della razza. Questo è il vangelo moderno; questo è l’unico pensiero religioso vitale e formativo dei tempi moderni.
John Burroughs
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