Guido Gozzano, vita e poesie, sulla via del rifugio
Innovativo giocolier di metrica e parole, Guido Gozzano, soave romanticismo e sottil ironia dipinse, in rime e prosa, dedicati a territori, persone ed esperienze, lasciando indelebile traccia di sé, del proprio pensiero e sentire — sul finemente tratteggiato confine tra amor di Vita ed echi della «Signora vestita di nulla» — con indelebile maestria e dosato distacco vestendo il ruolo di scrittore, or incantato or disilluso, all’umanità elargendosi nell’ammaliante meraviglia d’una colta, profonda ed incasellabile evoluzione letteraria.
Ma dunque esisto! O strano! Vive tra il Tutto ed il Niente
questa cosa vivente, detta guidogozzano
In fugace e fulgida esistenza, Guido Davide Gustavo Riccardo Gozzano — nato al civico 2 di via Davide Bertolotti in Torino il 19 dicembre 1883 e nel capoluogo piemontese, per sopraggiunte complicanze di datata affezione tubercolare, scomparso il 9 agosto del 1916 — fu intenso poeta, all’alba di verso plasmatosi all’opera dannunziana, propensione alla scrittura precocemente manifestatasi in tenera età, anzitutto fra le ottocentesche e predilette mura — dono nuziale del nonno materno e senatore Massimo Secondo Mautino (1816-1873) alla figlia — di villa Il Meleto, residenza estiva della famiglia, in tal modo nominata per i meli costeggianti il viale d’accesso, a circa un chilometro da Agliè, nonché significativo luogo in cui Gozzano s’innamorò dell’incantevole paesaggio — ai piedi del Colle di Macugnano — giacché costante rifugio nel quale pacificamente meditare e scrivere, rifocillandosi animo fra un ispirato getto d’inchiostro e una nostalgica riflessione, inoltre premurosamente dedicandosi ad allevamento di farfalle e di tanto in tanto, con infatuato sguardo, dai giardini dell’adorata dimora abbracciando il circostante panorama: «Il mio Canavese privo di fulgidi passati, ma verde di riposi ristoratori, dove l’anima si adagia come una buona borghese».
Al profumo di natura, il fanciullo crebbe giovando d’amicizie, familiari affetti ed inestimabili insegnamenti carpiti dalla concreta e pura genuinità dell’illetterato Bartolomeo Tarella, anziano fattore e custode, in servizio al Meleto dal 1907 al 1911, alla cui filosofica saggezza e smisurata bontà — assaporate nell’estasiato ascoltarne insegnamenti di vita appresi ed interiorizzati nell’infinito ed eclettico manifestarsi del Creato — Guido Gozzano rivolgerà ode L’analfabeta, nel d’egli animo lentamente delineandosi distintiva indole artistica plausibilmente ereditata dalla madre Diodata Mautino (1858-1847), avvenente, solare, sportiva, intraprendente ed acculturata donna d’alladiesi origini, soprannominata “la piccola Duse del Canavese” in riferimento alle peculiari doti recitative espresse nella locale ed amatoriale compagnia teatrale, Società degli amici del teatro, e seconda moglie, dal 10 gennaio del 1877, dell’affascinante ingegnere — vedovo con cinque figlie di prime nozze — Fausto Gozzano (1839-1900).
Se dapprincipio il poeta — quartogenito della coppia — si differenziò come studente modello dagli encomiabili risultati conseguiti durante la frequenza svoltasi fra il 1891 ed il 1895, in via Cittadella 3, presso l’allora scuola elementare Moncenisio — peraltro storico scenario del romanzo Cuore, dello scrittore, giornalista e militare Edmondo Mario Alberto de Amicis (1846-1908) — successivi percorsi di studi non furono, malgrado l’indubbio acume intellettivo, particolarmente brillanti e nell’unico anno passato al Regio Ginnasio di Chivasso, Gozzano rafforzò conoscenza d’infanzia con Ettore Colla, affiatata fratellanza proseguendo in fitto scambio epistolare allorquando, l’anno seguente, differenti strade e distanti domicili, l’uno rientrando al liceo classico Cavour di Torino e l’altro traslocando a Pinerolo, ne impedirono fisica frequentazione, i fidati amici iniziando dunque a scambiarsi quotidiani vissuti tramite loquaci missive e di lì a poco Guido Gozzano non soltanto sfogando estrema sofferenza per l’improvvisa perdita del padre a causa di polmonite, ma in corrispondenza palesando ulteriore scoraggiamento riguardo al proprio futuro — in quanto non di rado indebolito da uno stato di salute cagionevole oberato da un’incessante tosse — nondimeno, in attimi maggiormente spensierati, adombrando tristezza da gioia nel rimembrar dilettevoli esperienze di gioventù condivisa; esistenziali frammenti marciati a mnemonico ritroso nell’appagante ristoro reso dalla bellezza dell’emozioni rievocate.
Dimmi, ti ricordi quando ritornavamo, impolverati dalla lunga passeggiata crepuscolare, nella calde, afose sere estive e prendevamo d’assalto la pompa del cortile? E quando su per le colline ridenti parlavamo a lungo assieme, intimamente e la nostra amicizia cresceva, si cimentava sempre più? Rammenti le lunghe ore di studio, quelle di ricreazione nel limitato cortile, ch’era però per noi il nostro piccolo mondo?
Dopo un tragitto alquanto travagliato per inadeguato impegno, in ambito scolastico il ragazzo, riuscì a guadagnar traguardo, nel 1903, tramite ottenimento del diploma di maturità al cuneese Collegio Nazionale di Savigliano — annata corrispondente a prima pubblicazione di un racconto e varie poesie — durante permanenza nell’istituto Gozzano, probabilmente eludendone con facilità controlli, trascorrendo notti in malfamate zone — «per provare un po’ di tutto e d’altra parte questo ambiente, così inferiore al mio di Torino, lo trovo originale» — e vivendo all’insegna di lussurioso libertinaggio, nel dispensar passione fra una donna e l’altra, viceversa autentico innamoramento avendolo colpito in gioventù nel calamitarlo verso Cecilia Marano, amabile ragazza dal candido incarnato e dai lineamenti ben disegnati a profilare un volto contornato dalla castana chioma racchiusa da trecce, in compagnia della quale Guido recitò in una commedia francese ad Agliè, a lei — grande estimatrice di Giacomo Leopardi (1798-1837) — accomunandolo amor per la poesia e i due piacevolmente sfiatandosi versi in affettuose letture, nel mentre in lui sgorgando ardente desiderio di sposarla non appena compiuti i vent’anni, ma sgambetto del fato unendola in matrimonio ad altro uomo, indigesta amarezza posandosi sull’invaghito ed affranto Gozzano.
Sebben iscrittosi alla Facoltà di giurisprudenza del capoluogo piemontese— senza però mai laurearsi — Guido Gozzano perseverò nel prediligere partecipazione a quella di lettere, in tempi di cattedra nella persona dell’aforista, poeta e critico letterario, Arturo Graf (1848-1913), che fra lezioni accademiche e “Sabati letterari” da lui condotti — pullulanti d’elegantissime signore della borghesia torinese e futuri insigni poeti allora studenti in erba — discorreva di letteratura contemporanea, allo stesso tempo Gozzano gradualmente affrancandosi dall’esclusiva influenza dannunziana, coccolandosi d’innovazione di poeti belgi e francesi, subendo il carisma della rivoluzione poetica pascoliana ed ampliando sapere nel partecipare ad ulteriori e variegate conferenze, al contempo tessendo relazioni occasion d’intellettual confronto, baratto d’inquietudini e nottate spese in scantinati adibiti a locali e strade, consumate — fra un salotto e l’altro — a nobil passo: ossutto, raffinato nelle vesti, biondo e diafano in volto, Gozzano abbandonandosi a corteggiamenti — sunteggiando — riservati alle celebri interpreti teatrali e cinematografiche, Emma Gramatica (1874-1965) e Lyda Borelli (1887-1959), seppur sia stata la Società di Cultura, organizzazione multidisciplinare sorta nel 1898 e dal presidente, astronomo, Francesco Porro de’ Somenzi (1861-1937), descritta «biblioteca circolante adatta a fornire ai soci le ultime pubblicazioni letterarie e di argomenti che tocchino la cultura generale; sala di lettura dei grandi giornali italiani ed esteri e delle maggiori riviste generali, e sala di conversazione per passare qualche ora in geniale ritrovo», complice d’incontro, nel 1906, quindi di duraturo, nonché complicato sentimental legame, con la poetessa e scrittrice Amalia Guglielminetti (1881-1941).
Nell’aprile del 1907 si era intanto concretizzata pubblicazione de La via del rifugio, prima ed acclamata raccolta di trenta poesie fin ad allora apparse separatamente su riviste locali e nell’antologia d’esordio fra loro legate da un sottile e filosofeggiante umorismo, a tratti intriso di nostalgia, susseguente plauso di critica non concedendo allo sventurato Guido possibilità d’appagarsene in compiuta letizia, dacché fulmineo aggravamento dello stato di salute — da sempre alquanto gracile — graffiandone la quiete come un’estemporanea tempesta ed in quel frangente egli rivelando serietà di malanno in calce ad una lettera inviata alla Guglielminetti, sul nascere del tormentato legame che li avrebbe avvicinati: «Sto molto poco bene: e ho anche qualche sintomo lieve di un male grave», trasmutando a grafia tali parole nell’indebolito uomo facendo capolino un sempre più nitido presentimento di morte precoce, molteplici tentativi di risanarsi conducendolo — nel tentativo di giovarsi delle rispettive condizioni climatiche — in diverse località, all’Amalia restando in contatto attraverso densa, struggente e tenera corrispondenza — alternata a saltuari incontri — e ad un solo biennio infausta ventura paralizzandone l’appena cinquantenne madre Diodata ed i Cieli a lor richiamando la di lui sorella Emma, il bistrattato Gozzano potendo riappropriarsi d’amor di penna nel 1910, in uno dei momenti d’armistizio con la sorte, il seguente anno vedendo la luce celebre silloge I colloqui, contenente La signorina Felicita, ovvero La felicità, immaginario personaggio protagonista di uno dei tanti capolavori dell’autore.
Nel febbraio del 1912, ulteriormente messo alla prova dal meschino avanzar del morbo ormai tanto familiare, Guido s’avventurò in partenza per l’India, rimanendovi fino al maggio del 1913 nella speranza che temperature maggiormente elevate potessero risultargli benevole e ciò purtroppo non avvenendo secondo disperato auspicio, egli rientrando in patria e trovandosi ad accogliere sia le problematiche psico-fisiche della madre — derivanti da paralisi — sia la complicata indole del fratello Renato, fra un pressante ed avvolgente groviglio di preoccupazioni Gozzano riuscendo comunque mantener intatto mordente poetica, ad essa saggiandosi in narrative composizioni di racconti del vissuto, fiabe, lavorando a poemetti e novelle, partecipando con zelante solerzia alla sceneggiatura di un film su Francesco D’Assisi (1181/82-1126) — che non vide messa in scena — e purtroppo non avverandosi quanto fortemente desiderato da sempre, ossia un poema sulle crisalidi a lui tanto care, gli ultimissimi anni della sua vita egli sopravvivendo fra i tediosi acciacchi della patologia tisica e l’oppressione delle difficoltà economiche il cui acuirsi fu ragione di vendita del Meleto, antico eremo di passati gaudi ove il «Mon petit cheri» — com’era solita maternamente chiamarlo una donna francese, residente nella casa affittata in estate a Cornigliano Ligure dalla famiglia di Guido — crebbe macinando arte e poesia, di quest’ultima facendone imbarcazione con la qual solcare l’immensa mareggiata a lui offerta in dote come vita, nel giugno del 1914 dimorando lo spossato fisico, in compagnia di madre e fratello, in villa Bigatti, a Bogliasco, vicinanza d’abitazione con Amalia permettendole di fargli visita con frequenza, l’uomo irreversibilmente consumandosi in mente e corpo, lento e doloroso declino confermato nell’inevitabile decadenza dal diniego militare che ne certificò inabilità alla leva, ad alleviar senso d’impotenza e solitudine del poeta la rassicurante amica Silvia Zanardelli, alla cui generosa clemenza egli attinse, con lei scrivendosi in prorompente ed angosciante desolazione fino al 19 maggio del 1916, un’ottantina di giorni prima d’accomiatarsi definitivamente dal mondo, battito cessando mentre la sfera solare tingeva d’arancio il cielo della sua amata Torino, nell’etere riecheggiando indomabili versetti dedicati, in definizione dell’aulico vate in melanconica e dileggiante musica in petto, alle «piccole cose di pessimo gusto».
Guido Gozzano, poesie:
- La via del rifugio
- L’analfabeta
- I sonetti del ritorno
- La differenza
- Speranza
- L’inganno
- Ignorabimus
- L’intruso
- La forza
- La medicina
- Il sogno cattivo
- In morte di Giulio Verne
- Nemesi
- L’ultima infedeltà
- Le due strade
- Elogio degli amori ancillari
- Il gioco del silenzio
- Invernale
- L’assenza
- Alle soglie
- Il più atto
- Salvezza
- Una risorta
- L’onesto rifiuto
- I colloqui
- Primavere romantiche
- La preraffaelita
- Vas voluptatis
- L’incrinatura
- La falce
- Suprema quies
- Domani
- I Fratelli
- L’esilio
- L’invito
- Elogio del sonetto
- Non radice, sed vertice
- Nell’Abazia di San Giuliano
- L’ipotesi
- Historia
- Congedo
- Dante
- La statua e il ragno crociato
- Ad un’ignota
- Ketty
- Risveglio sul Picco d’Adamo
- La ballata dell’Uno
- Ai soldati alladiesi combattenti
- Prologo
- Dolci rime
- La Notte Santa
Trenta quaranta,
tutto il Mondo canta
canta lo gallo
risponde la gallina…
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio,
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
Madama Colombina
s’affaccia alla finestra
con tre colombe in testa:
passan tre fanti…
Belle come la bella
vostra mammina, come
il vostro caro nome,
bimbe di mia sorella!
…su tre cavalli bianchi:
bianca la sella
bianca la donzella
bianco il palafreno…
Ne fare il giro a tondo
estraggono le sorti.
(I bei capelli corti
come caschetto biondo
rifulgono nel sole.)
Estraggono a chi tocca
la sorte, in filastrocca
segnado le parole.
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita.
Sento fra le mie dita
la forma del mio cranio…
Ma dunque esisto! O Strano!
vive tra il Tutto e il Niente
questa cosa vivente
detta guidogozzano!
Resupino sull’erba
(ho detto che non voglio
raccorti, o quatrifoglio)
non penso a che mi serba
la Vita. Oh la carezza
dell’erba! Non agogno
cha la virtù del sogno:
l’inconsapevolezza.
Bimbe di mia sorella,
e voi, senza sapere
cantate al mio piacere
la sua favola bella.
Sognare! Oh quella dolce
Madama Colombina
protesa alla finestra
con tre colombe in testa!
Sognare. Oh quei tre fanti
su tre cavalli bianchi:
bianca la sella,
bianca la donzella!
Chi fu l’anima sazia
che tolse da un affresco
o da un missale il fresco
sogno di tanta grazia?
A quanti bimbi morti
passò di bocca in bocca
la bella filastrocca
signora delle sorti?
Da trecent’anni, forse,
da quattrocento e più
si canta questo canto
al gioco del cucù.
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio,
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
L’aruspice mi segue
con l’occhio d’una donna…
Ancora si prosegue
il canto che m’assonna.
Colomba colombita
Madama non resiste,
discende giù seguita
da venti cameriste,
fior d’aglio e fior d’aliso,
chi tocca e chi non tocca…
La bella filastrocca
si spezza d’improvviso.
“Una farfalla!” “Dài!
Dài!” — Scendon pel sentiere
le tre bimbe leggere
come paggetti gai.
Una Vanessa Io
nera come il carbone
aleggia in larghe rote
sul prato solatio,
ed ebra par che vada.
Poi — ecco — si risolve
e ratta sulla polvere
si posa della strada.
Sandra, Simona, Pina
silenziose a lato
mettonsile in agguato
lungh’essa la cortina.
Belle come la bella
vostra mammina, come
il vostro caro nome
bimbe di mia sorella!
Or la Vanessa aperta
indugia e abbassa l’ali
volgendo le sue frali
piccole antenne all’erta.
Ma prima la Simona
avanza, ed il cappello
toglie ed il braccio snello
protende e la persona.
Poi con pupille intente
il colpo che non falla
cala sulla farfalla
rapidissimamente.
“Presa!” Ecco lo squillo
della vittoria. “Aiuto!
È tutta di velluto:
Oh datemi uno spillo!”
“Che non ti sfugga, zitta!”
S’adempie la condanna
terribile; s’affanna
la vittima trafitta.
Bellissima. D’inchiostro
l’ali, senza rintocchi,
avvivate dagli occhi
d’un favoloso mostro.
“Non vuol morire!” “Lesta!
ché soffre ed ho rimorso!
Trapassale la testa!
Ripungila sul dorso!”
Non vuol morire! Oh strazio
d’insetto! Oh mole immensa
di dolore che addensa
il Tempo nello Spazio!
A che destino ignoto
si soffre? Va dispersa
la lacrima che versa
l’Umanità nel vuoto?
Colombina colombita
Madama non resiste:
discende giù seguita
da venti cameriste…
Sognare! Il sogno allenta
la mente che prosegue:
s’adagia nelle tregue
l’anima sonnolenta,
siccome quell’antico
brahamino del Pattarsy
che per racconsolarsi
si fissa l’umbilico.
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita;
sento fra le mie dita
la forma del mio cranio.
Verrà da sé la cosa
vera chiamata Morte:
che giova ansimar forte
per l’erta faticosa?
Trenta quaranta
tutto il Mondo canta
canta lo gallo
canta la gallina…
La Vita? Un gioco affatto
degno di vituperio,
se si mantenga intatto
un qualche desiderio.
Un desiderio? sto
supino nel trifoglio
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
Nascere vide tutto ciò che nasce
in una casa, in cinquant’anni. Sposi
novelli, bimbi… I bimbi già corrosi
oggi dagli anni, vide nella fasce.
Passare vide tutto ciò che passa
in una casa, in cinquant’anni. I morti
tutti, egli solo, con le braccia forti
compose lacrimando nella cassa.
Tramonta il giorno, fra le stelle chiare,
placido come l’agonia del giusto.
L’ottuagenario candido e robusto
viene alla soglia, con il suo mangiare.
Sorride un poco, siede sulla rotta
panca di quercia; serra per sostegno
fra i ginocchi la ciotola di legno;
mangia in pace così, mentre che annotta.
Con la barba prolissa come un santo
arissecchito, calvo, con gli orecchi
la fronte coronati di cernecchi
il buon servo somiglia il Tempo… Tanto,
tanto simile al Nume pellegrino,
ch’io lo vedo recante nella destra
non la ciotola colma di minestra,
ma la falce corrusca e il polverino.
Biancheggia tra le glicini leggiadre
l’umile casa ove ritorno solo.
Il buon custode parla: “O figliuolo,
come somigli al padre di tuo padre!
Ma non amava le città lontane
egli che amò la terra e i buoni studi
della terra e la casa che tu schiudi
alla vita per poche settimane…”.
Dolce restare! E forza è che prosegua
pel mondo nella sua torbida cura
quei che ritorna a questa casa pura
soltanto per concedersi una tregua;
per lungi, lungi riposare gli occhi
(di che riposi parlano le stelle!)
da tutte quelle sciocche donne belle,
da tutti quelli cari amici sciocchi…
Oh! il piccolo giardino ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto…
Ascolto il buon silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d’un frutto.
Si rispecchia nel gran Libro sublime
la mente faticata dalle pagine,
il cuore devastato dall’indagine
sente la voce delle cose prime.
Tramonta il giorno. Un vespero d’oblio
riconsola quest’anima bambina;
giunge un riso, laggiù dalla cucina
e il ritmo eguale dell’acciottolio.
In che cortile si lavora il grano?
Sul rombo cupo della trebbiatrice
s’innalza un canto giovine che dice:
anche il buon pane — senza sogni — è vano!
Poi tace il grano e la canzone. I greggi
dormono al chiuso. Nella sera pura
indugia il sole: “Or fammi un po’ lettura:
te beato che sai leggere! Leggi!”.
Me beato! Ah! Vorrei ben non sapere
leggere, o Vecchio, le parole d’altri!
Berrei, inconscio di sapori scaltri,
un puro vino dentro il mio bicchiere.
E la gioia del canto a me randagio
scintillerebbe come ti scintilla
nella profondità della pupilla
il buon sorriso immune dal contagio.
Gli leggo le notizie del giornale:
i casi della guerra non mai sazia
e l’orrore dei popoli che strazia
la gran necessità di farsi male.
Ripensa i giorni dell’armata Sarda,
la guerra di Crimea, egli che seppe
la tristezza ai confini delle steppe
e l’assedio nemico che s’attarda.
Poi cade il giorno col silenzio. Poi
rompe il silenzio immobile di tutto
il tonfo malinconico d’un frutto
che giunge rotolando sino a noi.
E m’inchino e raccolgo e addento il pomo…
Serenità!… L’orrore della guerra
scende in me: cittadino della Terra,
in me: concittadino d’ogni uomo.
Ora il vecchio mi parla d’altre rive
d’altri tempi, di sogni… E più m’alletta
di tutte, la parola non costretta
di quegli che non sa leggere e scrivere.
Sereno è quando parla e non disprezza
il presente pel meglio d’altri tempi:
“O figliuolo il meglio d’altri tempi
non era che la nostra giovinezza!”.
Anche dice talvolta, se mi mostro
taciturno: “Tu hai l’anima ingombra.
Tutto è fittizio in noi: e Luce ed Ombra:
giova molto foggiarci a modo nostro!
E se l’ombra s’indugia e tu rimuovine
la tristezza. Il dolore non esiste
per chi s’innalza verso l’ora triste
con la forza d’un cuore sempre giovine.
Fissa il dolore e armati di lungi,
ché la malinconia, la gran nemica,
si piega inerme, come fa l’ortica
che più forte l’acciuffi e men ti pungi”.
E viene allo scrittoio, se m’indugio:
“Ah! Già i capelli ti si fan più radi,
sei pallido… Da tempo è che non badi
per queste carte al remo e all’archibugio.
Chi troppo studia e poi matto diventa!
Giova il saper al corpo che ti langue?
Vale ben meglio un’oncia di buon sangue
che tutta la saggezza sonnolenta”.
Così ragiona quegli che non crede
la troppo umana favola d’un Dio,
che rinnegò la chiesa dell’oblio
per la necessità d’un’altra fede.
Dice: “Ritorna il fiore e la bisavola.
Tutto ritorna vita e vita in polve:
ritorneremo, poiché tutto evolve
nella vicenda d’un’eterna favola”.
Ma come, o Vecchio, un giorno fu distrutto
il sogno della tua mente fanciulla?
E chi ti apprese la parola nulla,
e chi ti apprese la parola tutto?
Certo, fissando un cielo puro, un fiume
antico, meditando nello specchio
dell’acque e delle nubi erranti, il Vecchio
lesse i misteri, come in un volume.
Come dal tutto si rinnovi in cellula
tutto; e la vita spenta dei cadaveri
resusciti le selve ed i papaveri
e l’ingegno dell’uomo e la libellula.
Come una legge senza fine domini
le cose nate per se stesse, eterne…
Tanto discerne quei che non discerne
i segni convenuti dagli uomini.
Ma come cadde la tua fede illesa:
fede ristoratrice d’ogni piaga
per l’anima fanciulla che s’appaga
nei simulacri della Santa Chiesa?
Come vedi le cose? Senza fedi,
stanco, sul limitare della morte,
sai vivere sereno, o vecchio forte,
sorridere pacato… Come vedi?
Guardi le stelle attingere i fastigi
dell’abetaia, contro il cielo, e l’orsa
volger le sette gemme alla sua corsa:
senti il ritmo macàbro delle strigi
e il frullo della nottola ed il frullo
della falena… Pel sereno illune
spazi tranquillo, vecchio saggio immune.
La tua pupilla è quella d’un fanciullo.
Qualche cosa tu vedi che non vedo
in quell’immensità, con gli occhi puri:
“Buona è la morte” dici e t’avventuri
serenamente al prossimo congedo.
Ancora sento al tuo cospetto il simbolo
d’una saggezza mistica e solenne;
quello mi tiene ancora che mi tenne
strano mistero, di quand’ero bimbo.
Allora che su questa soglia stessa
mi narravi di guerre e d’altri popoli,
dicevi del Mar Nero e Sebastopoli,
dei Turchi, di Lamarmora, d’Odessa.
E nel mio sogno s’accendean le vampe
sopra le mura. Entrava la milizia
nella città: una città fittizia
quali si vedono nelle vecchie stampe,
le vecchie stampe incorniciate in nero:
…i panorami di Gerusalemme,
il Gran Sultano, carico di gemme…:
artificiose, belle più del vero;
le vecchie stampe, care ai nostri nonni
…il minareto e tre colonne infrante,
il mare, la galea, il mercatante…
città vedute nei miei primi sonni.
Ed ora, o vecchio, e sazi la tua fame
sulla panca di quercia, ove m’indugio;
altro sentiero tenta al suo rifugio
il bimbo illuso dalle stampe in rame.
I
Sui gradini consunti, come un povero
mendicante mi seggo, umilicorde:
o Casa, perché sbarri con le corde
di glicine la porta del ricovero?
La clausura dei tralci mi rimorde
l’anima come un gesto di rimprovero:
da quanto tempo non dischiudo il rovero
di quei battenti sulle stanze sorde!
Sorde e gelide e buie… Un odor triste
è nell’umile casa centenaria
di cotogna, di muffa, di campestre…
Dalle panciute grate secentiste
il cemento si sgretola se all’aria
rinnovatrice schiudo le finestre.
II
Il profumo di glicine dissìpi
l’odor di muffa e di cotogna. Sotto
la viva luce palpiti il salotto!
E il mio sogno riveda i suoi princìpi
nei frutti d’alabastro sugli stipi —
martirio un tempo del fanciullo ghiotto —
nei fiori finti, nello specchio rotto,
nelle sembianze dei dagherottipi.
O casa fra l’agreste e il gentilizio,
coronata di glicini leggiadre,
o in mezzo ai campi dolce romitaggio!
Fu bene in te, che, immune d’artifizio,
serenamente il padre di mio padre
visse la vita d’un antico saggio!
III
O Nonno! E tu non mi perdoneresti
ozi vani di sillabe sublimi,
tu che amasti la scienza dei concimi
dell’api delle viti degli innesti!
Eppur la fonte troverò di questi
sogni nei tuoi ammonimenti primi,
quando, contento dei raccolti opimi,
ti compiacevi dei tuoi libri onesti:
il tuo Manzoni… Prati… Metastasio…
Le sere lunghe! E quelle tue malferme
dita sui libri che leggevi! E il tedio,
il sonno… il Lago… Errina… ed il Parrasio…
E in me cadeva forse il primo germe
di questo male che non ha rimedio.
IV
Nonno, l’argento della tua canizie
rifulge nella luce dei sentieri:
passi tra i fichi, tra i susini e i peri
con nelle mani un cesto di primizie:
“Le piogge di Settembre già propizie
gonfian sul ramo fichi bianchi e neri,
susine claudie… A chi lavori e speri
Gesù concede tutte le delizie!”.
Dopo vent’anni, oggi, nel salotto
rivivo col profumo di mentastro
e di cotogna tutto ciò che fu.
Mi specchio ancora nello specchio rotto,
rivedo i finti frutti d’alabastro…
Ma tu sei morto e non c’è più Gesù.
V
O tu che invoco, se non fosse l’io
una sola virtù dell’Apparenza,
ritorneresti dopo tanta assenza
tra i frutti del frutteto solatio.
Verresti dal frutteto dell’oblio,
d’oltre i confini della conoscenza,
a me che vivo senza fedi, senza
l’immaginosa favola d’un Dio…
Ma non ritorni! Sei come chi sia
non stato mai, o tu che vai disperso
nel tutto della gran Madre Natura.
Ohimè! Sul pianto pianto nella via
l’implacabilità dell’Universo
ride d’un riso che mi fa paura.
VI
“Beati mortui qui in domino moriuntur”
(Cartiglio dell’orologio solare)
Avventurato se colui che visse
pellegrinando, eppure così v’agogna,
o vecchie stanze, aulenti di cotogna,
o tetto dalle glicini prolisse,
avventurato se colui morisse
in voi! E in Te, Gesù, nella menzogna
dolce, rendesse l’anima che sogna
alle tue buone mani crocefisse!
Questo è nei voti del perduto alunno,
o Gesù Cristo! Un letto centenario
m’accolga sotto il monito dell’Ore.
Ritorna la viola a tardo autunno:
non morirò premendomi il rosario
contro la bocca, in grazia del Signore?
Penso e ripenso: — Che mai pensa l’oca
gracidante alla riva del canale?
Pare felice! Al vespero invernale
protende il collo, giubilando roca.
Salta starnazza si rituffa gioca:
né certo sogna d’essere mortale
né certo sogna il prossimo Natale
né l’armi corruscanti della cuoca.
— O pàpera, mia candida sorella,
tu insegni che la Morte non esiste:
solo si muore da che s’è pensato.
Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!
Ché l’esser cucinato non è triste,
triste è il pensare d’esser cucinato.
Il gigantesco rovere abbattuto
l’intero inverno giacque sulla zolla,
mostrando, in cerchi, nelle sue midolla
i centonovant’anni che ha vissuto.
Ma poi che Primavera ogni corolla
dischiuse con le mani di velluto,
dai monchi nodi qua e là rampolla
e sogna ancora d’essere fronzuto.
Rampolla e sogna — immemore di scuri —
l’eterna volta cerula e serena
e gli ospiti canori e i frutti e l’ire
aquilonari e i secoli futuri…
Non so perché mi faccia tanta pena
quel moribondo che non vuol morire!
Primavera non è che s’avventuri
un’altra volta e cinga di tripudi
un’altra volta i rami seminudi,
tutti raggiando questi cieli puri?
Madre Terra, sei tu che trasfiguri
la vigilia dei giorni foschi e crudi?
O Madre Terra buona, tu che illudi
fino all’ultimo giorno i morituri!
Essi non piangono la sentenza amara.
Domani si morrà. Che importa? Oggi
sorride il colco tra le stoppie invalide…
Tutto muore con gioia (Impara! Impara!)
E forse ancora s’apre contro i poggi
l’ultimo fiore e l’ultima crisalide.
Certo un mistero altissimo e più forte
dei nostri umani sogni gemebondi
governa il ritmo d’infiniti mondi
gli enimmi della Vita e della Morte.
Ma ohimè, fratelli, giova che s’affondi
lo sguardo nella notte della sorte?
Volere un Dio? Irrompere alle porte
siccome prigionieri furibondi?
Amare giova! Sulle nostre teste
par che la falce sibilando avverta
d’una legge di pace e di perdono:
«Non fate agli altri ciò che non vorreste
fosse a voi fatto!». Nella notte incerta
ben questo è certo: che l’amarsi è buono!
Le tre sorelle dalla tela rozza
levano gli occhi sbigottite, poi
che una voce pervade i corridoi
come d’uno che irride o che singhiozza.
“Il vento in casa!” Il vento cresce, cozza,
sibila, mugge come cento buoi.
Ogni sorella pensa ai casi suoi,
l’altra chiamando con la voce mozza.
In breve dai soppalchi al limitare
discacciano il nemico, nell’assedio
invocando a gran voce tutti i santi.
Ognuna torna poi ad agucchiare,
ed accompagna il ritmo del suo tedio
all’orchestra dei tremoli svettanti.
La forza
A Mario B., lottatore
Bestialità divina, amico Mario,
quando affatichi i muscoli ben atti
e cingi e premi, ansando, e scuoti a tratti
il torso dell’atletico avversario!
Bene sai l’arte della forza. In vario
modo lo spossi e incalzi e pieghi e abbatti;
ti sussulta nei muscoli contratti
non so che desiderio sanguinario.
Gràvagli sopra, crudelmente bello,
con le scapole fa ch’egli riverso
tocchi la rena e “vinto” gli si gridi!
Ridevole miseria d’un cervello
quando il proteso già pollice verso
“Uccidi — griderei — Uccidi! Uccidi!”
La medicina
Alla signora C. R. dalla bella voce
Non so che triste affanno mi consumi:
sono malato e nei miei dì peggiori…
Tra i balaustri il mar scintilla fuori
la zona dei palmeti e degli agrumi.
Ah! Se voi foste qui, tra questi fiori,
amica! O bella voce tra i profumi!
Se recaste con voi tutti i volumi
di tutti i nostri dolci ingannatori!
Mi direste il Congedo, oppur la Morte
del cervo, oppure la Sementa… E queste
bellezze, più che l’aria e più che il sole,
mi farebbero ancora sano e forte!
E guarirei: Voi mi risanereste
con la grande virtù delle parole!
Se guardo questo pettine sottile
di tartaruga e d’oro, che affigura —
opera egregia di cesellatura —
un germoglio di vischio in novo stile,
risogno un sogno atroce. Dal monile
divampa quella gran capellatura
vostra, fiammante nella massa oscura.
E pur non vedo il volto giovenile.
Solo vedo che il pettino produce
sempre capelli biondo—bruni e scorgo
un cielo fatto delle loro trame:
un cielo senza vento e senza luce!
E poi un mare… e poi cado in un gorgo
tutto di bande di color di rame.
O che l’Eroe che non sa riposi
discenda nella Terra, o che si libri
per le virtù di cifre e d’equilibri
oltre gli spazi inesplorati ed osi
tentar le stelle, o il Nautilo rivibri
e s’inabissi in mari spaventosi:
Maestro, quanti sogni avventurosi
sognammo sulle trame dei tuoi libri!
La Terra il Mare il Cielo l’Universo
per te, con te, poeta dei prodigi,
varcammo in sogno oltre la scienza.
Pace al tuo grande spirito disperso,
tu che illudesti molti giorni grigi
della nostra pensosa adolescenza.
Tempo che i sogni umani
volgi sulla tua strada:
la chioma che dirada,
le case dei Titani,
o tu che tutte fai
vane le nostre tempre:
e vano dire sempre
e vano dire mai,
se dunque eternamente
tu fai lo stesso gioco
tu sei una ben poco
persona intelligente!
Cangiare i monti in piani
cangiare i piani in monti,
deviare dalle fonti
antiche i fiumi immani,
cangiar la terra in mare
e il mare in continente:
gran cosa non mi pare
per te, onnipossente!
Giocare con le cellule
al gioco dei cadaveri:
i rospi e le libellule
le rose ed i papaveri
rifare a tuo capriccio:
poi cucinare a strati
i tuoi pasticci andati
e il nuovo tuo pasticcio:
ma, scusa, ci vuol poca
intelligenza! Basta –
di’ non ti pare? – basta
il genio d’una cuoca.
Bada che non ti parlo
per acrimonia mia:
da tempo ho ucciso il tarlo
della malinconia.
Inganno la tristezza
con qualche bella favola.
Il saggio ride. Apprezza
le gioie della tavola
e i libri dei poeti.
La favola divina
m’è come ai nervi inqueti
un getto di morfina,
ma il canto più divino
sarebbe un sogno vano
senza un torace sano
e un ottimo intestino.
Amo le donne un poco –
o bei labbri vermigli! –
Tempo, ma so il tuo gioco:
non ti farò dei figli.
Ah! Se noi tutti fossimo
(Tempo, ma c’è chi crede
di darti ancora prede!)
d’intesa, o amato prossimo,
a non far bimbi (i dardi
d’amor… fasciare e i tirsi
di gioia; – premunirsi
coi debiti riguardi),
certo – se un dio ci dòmini —
n’avrebbe un po’ dispetto;
gli uomini l’han detto:
ma “chi” sono gli uomini?
Chi sono? È tanto strano
fra tante cose strambe
un coso con due gambe
detto guidogozzano!
Bada che non ti parlo
per acrimonia mia:
da tempo ho ucciso il tarlo
della malinconia.
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita:
sento fra le mie dita
la forma del mio cranio.
Rido nell’abbandono:
o Cielo o Terra o Mare,
comincio a dubitare
se sono o se non sono!
Ma ben verrà la cosa
“vera” chiamata Morte:
che giova ansimar forte
per l’erta faticosa?
Né voglio più, né posso.
Più scaltro degli scaltri
dal margine d’un fosso
guardo passare gli altri.
E mi fan pena tutti,
contenti e non contenti,
tutti pur che viventi,
in carnevali e in lutti.
Tempo, non entusiasma
saper che tutto ha il dopo:
o buffo senza scopo
malnato protoplasma!
E non l’Uomo Sapiente,
solo, ma se parlassero
la pietra, l’erba, il passero,
sarebbero pel Niente.
Tempo, se dalla guerra
restassi e dall’evolvere
in Acqua, Fuoco, Polvere
questa misera Terra?
E invece, o Vecchio pazzo,
dà fine ai giochi strani!
Sul ciel senza domani
farem l’ultimo razzo.
Sprofonderebbe in cenere
il povero glomerulo
dove tronfieggia il querulo
sciame dell’Uman Genere.
Cesserebbe la trista
vicenda della vita e in sogno.
Certo. Ma che bisogno
c’è mai che il mondo esista?
Dolce tristezza, pur t’aveva seco,
non è molt’anni, il pallido bambino
sbocconcellante la merenda, chino
sul tedioso compito di greco…
Più tardi seco t’ebbe in suo cammino
sentimentale, adolescente cieco
di desiderio, se giungeva l’eco
d’una voce, d’un passo femminino.
Oggi pur la tristezza si dilegua
per sempre da quest’anima corrosa
dove un riso amarissimo persiste,
un riso che mi torce senza tregua
la bocca… Ah! veramente non so cosa
più triste che non più essere triste!
I
Tra bande verdigialle d’innumeri ginestre
la bella strada alpestre scendeva nella valle.
Ecco, nel lento oblio, rapidamente in vista
apparve una ciclista a sommo del pendio.
Ci venne incontro: scese. “Signora: Sono Grazia!”
sorrise nella grazia dell’abito scozzese.
“Tu? Grazia? la bambina?” — “Mi riconosce ancora?”
“Ma certo!” E la Signora baciò la Signorina.
La bimba Graziella! Diciott’anni? Di già?
La Mamma come sta? E ti sei fatta bella!
“La bimba Graziella: così cattiva e ingorda!…”
“Signora, si ricorda quelli anni?” — “E così bella
vai senza cavalieri in bicicletta?…” — “Vede…”
“Ci segui un tratto a piede?” — “Signora, volentieri…”
“Ah! ti presento, aspetta, l’Avvocato: un amico
caro di mio marito. Dagli la bicicletta…”
Sorrise e non rispose. Condussi nell’ascesa
la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose.
E la Signora scaltra e la bambina ardita
si mossero: la vita una allacciò dell’altra.
II
Adolescente l’una nelle gonnelle corte,
eppur già donna: forte bella vivace bruna
e balda nel solino dritto, nella cravatta,
la gran chioma disfatta nel tocco da fantino.
Ed io godevo, senza parlare, con l’aroma
degli abeti l’aroma di quell’adolescenza.
— O via della salute, o vergine apparita,
o via tutta fiorita di gioie non mietute,
forse la buona via saresti al mio passaggio,
un dolce beveraggio alla malinconia!
O bimba nelle palme tu chiudi la mia sorte;
discendere alla Morte come per rive calme,
discendere al Niente pel mio sentiere umano,
ma avere te per mano, o dolcesorridente!
Così dicevo senza parola. E l’altra intanto
vedevo: triste accanto a quell’adolescenza!
Da troppo tempo bella, non più bella tra poco
colei che vide al gioco la bimba Graziella.
Belli i belli occhi strani della bellezza ancora
d’un fiore che disfiora, e non avrà domani.
Sotto l’aperto cielo, presso l’adolescente
come terribilmente m’apparve lo sfacelo!
Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia
troppo, le tinte ciglia e l’opera del bistro
intorno all’occhio stanco, la piega di quei labri,
l’inganno dei cinabri sul volto troppo bianco,
gli accesi dal veleno biondissimi capelli:
in altro tempo belli d’un bel biondo sereno.
Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,
colei che vide al gioco la bimba Graziella.
— O mio cuore che valse la luce mattutina
raggiante sulla china tutte le strade false?
Cuore che non fioristi, è vano che t’affretti
verso miraggi schietti in orti meno tristi;
tu senti che non giova all’uomo soffermarsi,
gettare i sogni sparsi, per una vita nuova.
Discenderai al niente pel tuo sentiere umano
e non avrai per mano la dolcesorridente,
ma l’altro beveraggio avrai fino alla morte:
il tempo è già più forte di tutto il tuo coraggio. —
Queste pensavo cose, guidando nell’ascesa
la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose.
III
Erano folti intorno gli abeti nell’assalto
dei greppi fino all’alto nevaio disadorno.
I greggi, sparsi a picco, in lenti beli e mugli
brucavano ai cespugli di menta il latte ricco;
e prossimi e lontani univan sonnolenti
al ritmo dei torrenti un ritmo di campani.
Lungi i pensieri foschi! Se non verrà l’amore
che importa? Giunge al cuore il buono odor dei boschi.
Di quali aromi opimo odore non si sa:
di resina? di timo? o di serenità?…
IV
Sostammo accanto a un prato e la Signora, china,
baciò la Signorina, ridendo nel commiato.
“Bada che aspetterò, che aspetteremo te;
si prenda un po’ di the, si cicaleccia un po’…”
“Verrò, Signora; grazie!” Dalle mie mani, in fretta,
tolse la bicicletta. E non mi disse grazie.
Non mi parlò. D’un balzo salì, prese l’avvio;
la macchina il fruscìo ebbe d’un piede scalzo,
d’un batter d’ali ignote, come seguita a lato
da un non so che d’alato volgente con le rote.
Restammo alle sue spalle. La strada, come un nastro
sottile d’alabastro, scendeva nella valle.
“Signora!… Arrivederla!…” gridò di lungi, ai venti.
Di lungi ebbero i denti un balenio di perla.
Tra la verzura folta disparve, apparve ancora.
Ancor s’udì: “…Signora!…”. E fu l’ultima volta.
Grazi è scomparsa. Vola — dove? — la bicicletta…
“Amica, e non m’ha detto una parola sola!”
“Te ne duole?” — “Chi sa!” — “Fu taciturna, amore,
per te, come il Dolore…” — “O la Felicità!…”
I
Allor che viene con novelle sue,
ghermir mi piace l’agile fantesca
che secretaria antica è fra noi due.
M’accende il riso della bocca fresca,
l’attesa vana, il motto arguto, l’ora,
e il profumo d’istoria boccaccesca…
Ella m’irride, si dibatte, implora,
invoca in nome della sua padrona:
“Ah! Che vergogna! Povera Signora!
Ah! Povera Signora!…” E s’abbandona.
II
Gaie figure di decamerone
le cameriste dan, senza tormento,
più sana voluttà che le padrone.
Non la scaltrezza del martirio lento,
non da morbosità polsi riarsi,
e non il tedioso sentimento
che fa le notti lunghe e i sonni scarsi,
non dopo voluttà l’anima triste:
ma un più sereno e maschio sollazzarsi.
Lodo l’amore delle cameriste!
Non so se veramente fu vissuto
quel giorno della prima primavera.
Ricordo — o sogno? — un prato di velluto,
ricordo — o sogno? — un cielo che s’annera,
e il tuo sgomento e i lampi e la bufera
livida sul paese sconosciuto…
Poi la cascina rustica sul colle
e la corsa e le grida e la massaia
e il rifugio notturno e l’ora folle
e te giuliva come una crestaia,
e l’aurora ed i canti in mezzo all’aia
e il ritorno in un velo di corolle…
— Parla! — Salivi per la bella strada
primaverile, tra pescheti rosa,
mandorli bianchi, molli di rugiada…
— Parla! — Tacevi, rigida pensosa
della cosa carpita, della cosa
che accade e non si sa mai come accada…
— Parla! — seguivo l’odorosa traccia
della tua gonna… Tutto rivedo
quel tuo sottile corpo di cinedo,
quella tua muta corrugata faccia
che par sogni l’inganno od il congedo
e che piacere a me par che le spiaccia…
E ancor mi negasti la tua voce
in treno. Supplicai, chino rimasi
su te, nel rombo ritmico e veloce…
Ti scossi, ti parlai con rudi frasi,
ti feci male, ti percossi quasi,
e ancora mi negasti la tua voce.
Giocosa amica, il Tempo vola, invola
ogni promessa. Dissipò coi baci
le tue parole tenere fugaci…
Non quel silenzio. Nel ricordo, sola
restò la bocca che non diè parola,
la bocca che tacendo disse: Taci!…
“..cri..i..i..i..icch..”
l’incrinatura
il ghiaccio rabescò, stridula e viva.
“A riva!” Ognuno guadagnò la riva
disertando la crosta malsicura.
“A riva! A riva!…” Un soffio di paura
disperse la brigata fuggitiva.
“Resta!” Ella chiuse il mio braccio conserto,
le sue dita intrecciò, vivi legami,
alle mie dita. “Resta, se tu m’ami!”
E sullo specchio subdolo e deserto
soli restammo, in largo volo aperto,
ebbri d’immensità, sordi ai richiami.
Fatto lieve così come uno spetro,
senza passato più, senza ricordo,
m’abbandonai con lei, nel folle accordo,
di larghe rote disegnando il vetro.
Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro…
dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo…
Rabbrividii così, come chi ascolti
lo stridulo sogghigno della Morte,
e mi chinai, con le pupille assorte,
e trasparire vidi i nostri volti
già risupini lividi sepolti…
Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più forte…
Oh! Come, come, a quelle dita avvinto,
rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!
O voce imperiosa dell’istinto!
O voluttà di vivere infinita!
Le dita liberai da quelle dita,
e guadagnai la ripa, ansante, vinto…
Ella solo restò, sorda al suo nome,
rotando a lungo, nel suo regno solo.
Le piacque, alfine, ritoccare il suolo;
e ridendo approdò, sfatta le chiome,
e bella ardita palpitante come
la procellaria che raccoglie il volo.
Non curante l’affanno e le riprese
dello stuolo gaietto femminile,
mi cercò, mi raggiunse tra le file
degli amici con ridere cortese:
“Signor mio caro grazie!” E mi protese
la mano breve, sibilando: “Vile!”.
Un bacio. Ed è lungi. Dispare
giù in fondo, là dove si perde
la strada boschiva, che pare
un gran corridoio nel verde.
Risalgo qui dove dianzi
vestiva il bell’abito grigio:
rivedo l’uncino, i romanzi
ed ogni sottile vestigio…
Mi piego al balcone. Abbandono
la gota sopra la ringhiera.
E non sono triste. Non sono
più triste. Ritorna stasera.
E intorno declina l’estate.
E sopra un geranio vermiglio,
fremendo le ali caudate
si libra un enorme Papilio…
L’azzurro infinito del giorno
è come seta ben tesa;
ma sulla serena distesa
la luna già pensa al ritorno.
Lo stagno risplende. Si tace
la rana. Ma guizza un bagliore
d’acceso smeraldo, di brace
azzurra: il martin pescatore…
E non son triste. Ma sono
stupito se guardo il giardino…
stupito di che? non mi sono
sentito mai tanto bambino…
Stupito di che? Delle cose.
I fiori mi paiono strani:
Ci sono pur sempre le rose,
ci sono pur sempre i gerani…
I
Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,
pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori
sovente qualcuno che picchia, che picchia… Sono i dottori.
Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,
m’auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.
E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli..
“Appena un lieve sussulto all’apice… qui… la clavicola…”
E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.
“Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne…
non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:
Nervi… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia…”
II
O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,
la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?
Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,
trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace
e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco
disegna il profilo d’un bosco, coi minimi intrichi dei rami.
E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.
III
Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,
mio cuore dubito forte — ma per te solo m’accora —
che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.
(Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo
le danno un nome, che, credo, esprima un cosa non tetra.)
È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.
Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.
Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;
ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.
Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;
né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.
Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,
sereno come uno sposo e placido come un novizio.
Adolescente forte, quadre le spalle e il busto,
irride al mio tramonto con chiari occhi sereni;
sdegna i pensieri torpidi, gli studi vani, i freni;
tempra in cimenti rudi il bel corpo robusto.
Il ramo è che rallevi già sullo stesso fusto
accanto al ramo spoglio, Morte che sopravvieni…
A lui vada la vita! A lui le rose, i beni,
le donne ed i piaceri! Madre Natura, è giusto.
Ed egli sia quell’uno felice ch’io non fui!
Questa speranza non m’addolcirà lo strazio
del Nulla…Sulle soglie del Tempo e dello Spazio
è pur dolce conforto rivivere in altrui.
Senza querele, o Morte, discendo ai regni bui;
di ciò che tu mi desti, o Vita, io ti ringrazio.
Sorrido al mio fratello… Poi, rassegnato e sazio,
a lui cedo la coppa. E già mi sento lui.
Vivere cinque ore?
Vivere cinque età?…
Benedetto il sopore
che m’addormenterà…
Ho goduto il risveglio
dell’anima leggiera:
meglio dormire, meglio
prima della mia sera.
Poi che non ha ritorno
il riso mattutino.
La bellezza del giorno
è tutta nel mattino.
I
“Chiesi di voi: nessuno
sa l’eremo profondo
di questo morto al mondo.
Son giunta! V’importuno?”
“No!… Sono un po’ smarrito
per vanità: non oso
dirvi: Son vergognoso
del mio rude vestito.
Trovate il buon compagno
molto mutato, molto
rozzo, barbuto, incolto,
in giubba di fustagno!…”
“Oh! Guido! Tra di noi!
Pel mio dolce passato,
in giubba o in isparato
Voi siete sempre Voi…”
Muta, come chi pensa
casi remoti e vani,
mi strinse le due mani
con tenerezza immensa.
E in quella famigliare
mitezza di sorella
forse intravidi quella
che avrei potuto amare.
II
“È come un sonno blando,
un ben senza tripudio;
leggo lavoro studio
ozio filosofando…
La mia vita è soave
oggi, senza perché;
levata s’è da me
non so qual cosa grave…”
“Il Desiderio! Amico
il Desiderio ucciso
vi dà questo sorriso
calmo di saggio antico…
Ah! Voi beato! Io
nel mio sogno errabondo
soffro di tutto il mondo
vasto che non è mio!
Ancor sogno un’aurora
che gli occhi miei non videro;
desidero, desidero
terribilmente ancora!…”
Guardava i libri, i fiori,
la mia stanza modesta:
“È la tua stanza questa?
Dov’è che tu lavori?”.
“Là, nel laboratorio
delle mie poche fedi…”
Passammo tra gli arredi
di quel mondo illusorio.
Frusciò nella cornice
severa la sottana,
passò quella mondana
grazia profanatrice…
“E questi sali gialli
in questo vetro nero??”
“Medito un gran mistero:
l’amore dei cristalli.”
“Amano?!…” — “A certi segni
pare. Già i saggi chini
cancellano i confini,
uniscono i Tre Regni.
Nel disco della lente
s’apre l’ignoto abisso,
già sotto l’occhio fisso
la pietra vive, sente…
Cadono i dogmi e l’uso
della Materia. In tutto
regna l’Essenza, in tutto
lo Spirito è diffuso…”
Mi stava ad ascoltare
con le due mani al mento
maschio, lo sguardo intento
tra il vasto arco cigliare,
così svelta di forme
nella guaina rosa,
la nera chioma ondosa
chiusa nel casco enorme.
“Ed in quell’urna appesa
con quella fitta rete?”
“Dormono cento quete
crisalidi in attesa…”
“Fammi vedere… Oh! Strane!
Son d’oro come bei
pendenti… Ed io vorrei
foggiarmene collane!
Gemme di stile egizio
sembrano…” — “O gnomi od anche
mute regine stanche
sopite in malefizio…”
“Le segui per vedere
lor fasi e lor costume?”
“Sì, medito un volume
su queste prigioniere.
Le seguo d’ora in ora
con pazienza estrema;
dirò su questo tema
cose non dette ancora.”
Chini su quelle vite
misteriose e belle,
ragionavamo delle
crisalidi sopite.
Ma come una sua ciocca
mi vellicò sul viso,
mi volsi d’improvviso
e le baciai la bocca.
Sentii l’urtare sordo
del cuore, e nei capelli
le gemme degli anelli,
l’ebbrezza del ricordo…
Vidi le nari fini,
riseppi le sagaci
labbra e commista ai baci
l’asprezza dei canini,
e quel s’abbandonare,
quel sogguardare blando,
simile a chi sognando
desidera sognare…
Un mio gioco di sillabe t’illuse.
Tu verrai nella mia casa deserta:
lo stuolo accrescerai delle deluse.
So che sei bella e folle nell’offerta
di te. Te stessa, bella preda certa,
già quasi m’offri nelle palme schiuse.
Ma prima di conoscerti, con gesto
franco t’arresto sulle soglie, amica,
e ti rifiuto come una mendica.
Non sono lui, non sono lui! Sì, questo
voglio gridarti nel rifiuto onesto,
perché più tardi tu non maledica.
Non sono lui! Non quello che t’appaio,
quello che sogni spirito fraterno!
Sotto il verso che sai, tenero e gaio,
arido è il cuore, stridulo di scherno
come siliqua stridula d’inverno,
vôta di semi, pendula al rovaio…
Per te serbare immune da pensieri
bassi, la coscienza ti congeda
onestamente, in versi più sinceri…
Ma (tu sei bella) fa ch’io non ti veda:
il desiderio della bella preda
mentirebbe l’amore che tu speri.
Non posso amare, Illusa! Non ho amato
mai! Questa è la sciagura che nascondo.
Triste cercai l’amore per il mondo,
triste pellegrinai pel mio passato,
vizioso fanciullo viziato,
sull’orme del piacere vagabondo…
Ah! Non volgere i tuoi piccoli piedi
verso l’anima buia di chi tace!
Non mi tentare, pallida seguace!…
Pel tuo sogno, pel sogno che ti diedi,
non son colui, non son colui che credi!
Curiosa di me, lasciami in pace!
I
“I colloqui”…Rifatto agile e sano
aduna i versi, rimaneggia, lima,
bilancia il manoscritto nella mano…
– Pochi giochi di sillaba e di rima:
questo rimane dell’età fugace?
È tutta qui la giovinezza prima?
Meglio tacere, dileguare in pace
or che fiorito ancora è il mio giardino,
or che non punta ancora invidia tace.
Meglio sostare a mezzo del cammino
or che il mondo alla mia Musa maldestra.
quasi a mima che canta il suo mattino,
soccorrevole ancor porge la destra.
II
Ma la mia Musa non sarà l’attrice
annosa che si trucca e pargoleggia,
e la folla deride l’infelice;
giovine tacerà nella sua reggia,
come quella Contessa Castiglione
bellissima, di cui si favoleggia.
Allo sfiorire della sua stagione,
disparve al mondo, sigillò le porte
della dimora, e ne restò prigione.
Sola col Tempo, tra le stoffe smorte,
attese gli anni, senz’amici, senza
specchi, celando al Popolo, alla Corte
l’onta suprema della decadenza.
III
L’immagine di me voglio che sia
sempre ventenne, come in un ritratto;
amici miei, non mi vedrete in via,
curvo dagli anni, tremulo, e disfatto!
Col mio silenzio resterò l’amico
che vi fu caro, un poco mentecatto;
il fanciullo sarò tenero e antico
che sospirava al raggio delle stelle,
che meditava Arturo e Federico,
ma lasciava la pagina ribelle
per seppellir le rondini insepolte,
per dare un’erba alle zampine delle
disperate cetonie capovolte…
Tu parlavi, Mamma: la melodia
della voce suscitava alla mia mente
la visione del tuo sogno perduto. Or
ecco: ho imprigionato il sogno con
una sottile malia di sillabe e di versi
e te lo rendo perché tu riviva le
gioie della giovinezza.
Non turbate il silenzio. Tutto tace
verso la donna rivestita a lutto:
la campagna, lo stagno, il cielo, tutto
illude la dolente… O pace! pace!
O pace, pace! Poiché nulla spera
ormai la donna declinante. Invano
fiorisce di viole il colle e il piano:
non ritorna per lei la primavera.
Oh antiche primavere! Oh i suoi vent’anni
oimè per sempre dileguati. Quanto,
oh quanto ella ha sofferto e come ha pianto!
Atroci sono stati i suoi affanni.
Nulla più spera ormai: però la bella
timida primavera che sorride
dilegua la mestizia che la uccide,
e un sogno antico in lei si rinnovella.
Non pure ieri il piede ella volgea
allo stagno che l’isola circonda?
Ella recava un libro ove la bionda
reina per il paggio si struggea:
(avea il volume incisioni rare
dove il bel paggio con la mano manca
alla donna offeria la rosa bianca
e s’inchinava in atto d’adorare).
O sogni d’altri tempi, o tanto buoni
sogni d’ingenuità e di candore,
non sapevate il vuoto e il vostro errore
o innocenti d’allor decameroni!
Ella col libro qui venia leggendo
e a quando a quando in terra s’inchinava
la mammola, l’anemone, e la flava
primula prestamente raccogliendo.
Oh tutto Ella ricorda: le turchine
rose trapunte della bianca veste,
la veste bianca in seta, e la celeste
fascia che le gonfiava il crinoline.
Poi apriva il cancello, e il ponte stesso
dove or riposa la persona stanca
allora trascorreva agile e franca
né s’indugiava come indugia adesso.
Poi entrava nell’isola, e furtiva
in fra il tronco del tremulo e del faggio
guatava se al boschivo romitaggio
l’amico del suo sogno conveniva.
Oh tutto Ella ricorda! Ecco apparire
l’Amato: giunge al margine del vallo
dell’acque, e raffrenato il suo cavallo
il cancello la supplica d’aprire.
“Non dunque accetta è l’umile dimanda
del vostro paggio, o bella castellana?
Combattuto ha per voi; fatto gualdana
egli ha per voi, magnifica Jolanda.”
Egli disse per gioco. D’un soave
sorriso ella rispose: assai le piacque
il madrigale, ed al di là dell’acque,
sorridendo d’amor, getta la chiave.
Oh tutto Ella rammemora. Non fu
ieri? No, non fu ieri. Il lungo affanno
ella dunque già scorda? O atroce inganno
quel dolce aprile non verrà mai più…
Non turbate il silenzio. Tutto tace
verso la donna rivestita a lutto,
la campagna, lo stagno, il cielo, tutto
illude la dolente… O pace, pace!
Sopra lo sfondo scialbo e scolorito
surge il profilo della donna intenta,
esile il collo; la pupilla spenta
pare che attinga il vuoto e l’infinito.
Avvolta d’ermesino e di sciamito
quasi una pompa religiosa ostenta;
niuna mollezza femminile allenta
l’esilità del busto irrigidito.
Tien fra le dita de la manca un giglio
d’antico stile, la sua destra posa
sopra il velluto d’un cuscin vermiglio.
Niuna dolcezza è ne l’aspetto fiero;
emana da la bocca lussuriosa
l’essenza del Silenzio e del Mistero.
Vas voluptatis
A Voi, casta P
Dal pavimento di musaico, snelli
colonnati surgevano a spirale
s’attorcevano in forma vegetale
li acanti d’oro sotto i capitelli.
Quivi posava un vaso — trionfale
sculptura greca — e ai dì lontani e belli
di Venere accorrean schiave a drappelli
per colmarlo di mirra e d’aromale.
E le turbe obliavano l’orrore
aspirando l’aulir dell’incensiere
lenitore d’affanni e di dolore.
Simile a l’urna Voi amo vedere,
dolce Signora, che col vostro amore,
m’offerite la coppa del Piacere.
Perché nel vetro di Boemia antica,
dopo un’ora, già langue l’aromale
fior che m’offerse la mia dolce Amica?
Ché la verbena vi languisce, quale
la Donna amante il biondo Garcilaso
già martoriata dal segreto male.
Io so quel male: il calice del vaso
la bella mano — o gran disavventura! —
col ventaglio d’avorio urtò per caso.
E pur bastò. La lieve incrinatura
è insanabile ormai; il morituro
fiore s’inchina, stanco, nell’arsura,
ché la ferita del cristallo duro
tacitamente compie tutto il giro
per cammino invisibile e sicuro.
Vanisce l’acqua e muore il fiore. Io miro
il calice mortifero che serba
quasi non traccia di ferita in giro,
e una assai trista simiglianza e acerba
sento fra il vetro e il calice d’un cuore
sfiorato a pena da una man superba.
La ferita da sé, senza romore,
il calice circonda nel rotondo
e il fior d’amore a poco a poco muore.
Il cuor che sano e forte pare al mondo
sèrpere senta la segreta pena
in cerchio inesorabile e profondo.
E pur la mano l’ha sfiorata a pena…
Perché nel vetro di Boemia antica,
dopo un’ora, già langue la verbena
che vi compose la mia dolce Amica?
I
Giugno. Per le finestre il sole inonda
la bella stanza d’una luce aurina:
freme la messe ai solchi della china,
la messe ormai matureggiante e bionda.
La bruna sposa sede alla vicina
cuna ancor vuota: pare ch’Ella asconda
un gran segreto quando l’occhio inchina
al seno stanco che l’amor feconda.
È la cuna ancor vuota, ma Ella sente
che l’ora dell’avvento è assai vicina
che ben presto il Messia sarà presente.
E a quel pensiero il bruno capo inchina
al lavoro sottil, le mani adopra
su le fasce su i lini su la trina.
II
Ottobre. Per i vetri Autunno inonda
la bella stanza delle luci estreme:
vanno i bifolchi cospargendo il seme
su per la china con canzon gioconda.
La sposa agonizzante in su la sponda
del letto sta riversa e più non geme
e accanto a lei nato e morto insieme
è il bambino difforme. Una profonda
quiete è d’intorno: sopra il lin vermiglio
tutto di sangue che un baglior rischiara
la sposa muore, bianca come un giglio.
La Morte, intanto, il feretro prepara:
e l’alba di diman la madre e il figlio
saran racchiusi nella stessa bara.
Serrati i pugni bianchi come cera
giace supino in terra arrovesciato
e la faccia pel rivo insanguinato
è quasi nera.
Con orrido rilievo l’apertura
della ferita tutto il sangue aduna
su la nuca, sul collo, su la bruna
capellatura.
Giace supino. E non sembra dolere
la bella bocca. Quasi ch’Egli avvinga
ancor la Donna e la sua bocca attinga
tutto il piacere.
Due lumi sopra un cofano. Quei lumi
rischiarano il silenzio sepolcrale:
allineati stan nello scaffale
mille volumi
che alluminava un mastro fiorentino
d’orifiamme e d’armille in cento nodi.
Aperti sul divano soni i “Modi”
dell’Aretino
e sul divano è un guanto che rimosse
qui, nell’entrar, la Donna del Convito
ed un mazzo sfasciato ed avvizzito
di rose rosse.
Guata con gli occhi di mestizia pieni
in capo al letto sull’arazzo infisso
dolentemente immoto il crocifisso
di Guido Reni.
Notte e silenzio intorno. Tutto tace.
Come in un sogno d’armonia perplessa
al Poeta ventenne è già concessa
l’ultima pace.
Domani
per l’amico Silla Martini de Valle Aperta
I
Il corruscante cielo d’Oriente
a gran distesa lodano gli uccelli,
Aurora arrossa i bianchi capitelli
sul tempietto di Leda, intensamente.
Tolgon commiato tra le faci spente
gli ospiti stanchi. Un servo aduna i belli
fiori che inghirlandano i capelli
e li gitta allo stagno, indifferente.
Le rose aulenti nella notte insonne,
le rose agonizzanti, morte ai baci
nelle capellature delle donne,
scendon piano con l’alighe tenaci,
in su la melma livida e profonda,
con le viscide larve dei batraci.
II
Pace alle rose in fondo dello stagno,
in loro fredda orrenda sepoltura;
pur anche la sua gran capellatura
dischioma l’olmo il pioppo ed il castagno.
Il cigno guata, mutolo e grifagno,
lo stagno ricolmarsi di frondura.
Silla, sognamo. Tutto ci assicura
l’ultima pace e l’ultimo guadagno.
Guarda, fratello: innumeri le foglie
attorte e rosse e gialle, senza strazio,
distaccansi dal ramo, lentamente;
la Madre antica in sé tutte le accoglie.
Sognamo, Silla, memori d’Orazio,
quel sogno confortante che non mente.
III
Perché morire? La città risplende
in Novembre di faci lusinghiere;
e molli chiome avrem per origliere,
bendati gli occhi dalle dolci bende.
Dopo la tregua è dolce risapere
coppe obliate e trepide vicende —
bendati gli occhi dalle dolci bende —
novellamente intessere al Piacere.
Ma pur cantando il canti di Mimnerno
sento che morta è l’Ellade serena
in questo giorno triste ed autunnale.
L’anima trema sull’enigma eterno;
fratello, soffro la tua stessa pena:
attendo un’Alba e non so dirti quale.
IV
Che giovò dunque il gesto di chi disse:
“Il gran Pan non è morto! Ecco la via
dell’allegrezze nove. Ovunque sia
dato l’annunzio del novello Ulisse!
Il flavo Galileo che ci afflisse
di tenebrore e di malinconia
e quella scialba vergine Maria
e quella croce diamo alle favisse!”?
Nulla giovò. L’impavide biasteme
non rianimeran lo spento sguardo
dei numi elleni sugli antichi marmi.
“Lor giuventude vive sol nei carmi.”
Secondo la parola del Vegliardo
il fato ineluttabile li preme.
Nell’impero dell’acque e delle nubi
dove regnava il pecoraio e il gregge,
o Numero, già fatta è la tua legge
dalla potenza delli ordegni indubi.
Conduce un filo il moto che tu rubi
all’acqua e vola cento miglia e regge
gli opifici rombanti di pulegge
e di magli terribili e di tubi.
Ben riconosco il Verso tuo fratello
onnipossente Numero! Tu fai
a noi men disagevole il sentiero.
E il tuo parente più leggiadro e snello
ci fiorisce le soste di rosai
e di menzogne dolci più del Vero.
L’esilio
per una “demi-vierge”
I
Non ti conobbi mai. Ti riconosco.
Perché già vissi; e quando fui ministro
d’un rito osceno, agitator di sistro
t’ho posseduta al limite d’un bosco.
Bene ravviso il sopracciglio fosco
le bande fulve… Chi segnò di bistro
l’occhio caprino gelido sinistro?
Or ti rivedo in un giardino tosco,
vergine impura, dopo mille e mille
anni d’esilio. Tu, fatta Britanna,
scendi in Italia a ricercarvi il sogno.
Sono tre mila anni che t’agogno!
Ma com’è lungi il sogno che m’affanna!
Dove sono la tunica e le armille?
II
Dove sono la tunica e le armille
d’elettro che portavi a Siracusa?
E le fontane e i templi d’Aretusa
e l’erme e gli oleandri delle ville?
Del tempo ti restò nelle pupille
soltanto la lussuria che t’accusa,
vergine impura dalla fronte chiusa
tra le due bande lucide e tranquille.
E questa sera tu lasci le danze
(per quel ricordo al limite d’un bosco?)
tutta fremendo, come un’arpa viva.
Giungono i suoni dalle aperte stanze
fin nel giardino… O bocca! Riconosco
bene il profumo della tua genciva!
Uscite, o capre, or che la luna attinga
la prateria! Il pecoraio dorme.
Giunge sul vento, nella pace enorme
il suono della mitica siringa.
Dolce richiamo! Il dèmone vi cinga
danzando erette. Andate orme su l’orme
dell’amatore musico biforme,
inebbriate dalla sua lusinga.
Danzate, o capre! Steso sulla madia,
chiusi gli orecchi nel berretto frigio
il pecoraio dorme alle Capanne.
O risognate i monti dell’Arcadia,
dimenticate l’onta ed il servigio
sulla dolcezza delle sette canne!
Lodati, o Padri, che per le Madonne
amate nel platonico supplizio,
edificaste il nobile edifizio
eretto su quattordici colonne!
Nulla è più dolce al vivere fittizio
di te, compenso della notte insonne,
non la capellatura delle donne,
non metri novi in gallico artifizio.
Nessuna forma dà questa che dai
al sognatore ebbrezza non dicibile
quand’egli con sagacia ti prepari!
O forma esatta più che ogni altra mai,
prodigio di parole indistruttibile,
come i vecchi gioielli ereditati!
Non radice, sed vertice
a Golia
per la molto fogazzariana Circe famelica
che tu sai…
Un tulle, verdognolo d’alga,
l’avvolge: bellissimo all’occhio,
ed Ella m’accenna dal cocchio —
si sfolla il teatro — ch’io salga:
“Positivista irredento
un’ora fraterna e un the raro
a casa vo’ darle e il commento
dell’opere di Fogazzaro”.
Sì! Vengo! Ideale, convertirci
gli ardori dell’anime calme;
uniscile come le palme
toccantesi solo coi vertici.
Le forme bellissime sue
non curo, o Signora! Il Maestro
(non so se pudìco o maldestro)
ci vieta servircene a due.
Daniele non bacia la bocca,
ma fugge per Fede e Speranza,
vaporeggiando a distanza
l’amor della Donna non tocca.
Ah! Lungi l’orrore dei sensi!
E noi penseremo, o Signora,
l’azzurreggiante d’incensi
Cappella Sistina canora.
Papaveri! E l’ora più blanda
faremo, Signora, con quella
del Sonno tremenda sorella:
(prodigio di versi!…) Miranda.
Dispongo le carni compunte,
Marchesa, mia pura sorella,
la palma pensando, che snella
non lega le basi alle punte.
Le basi… le punte incorrotte…
il the… Fogazzaro… Marchesa!
Ma questo sparato mi pesa!
Non ho la camicia da notte…
Buon Dio nel quale non credo, buon Dio che non esisti,
(non sono gli oggetti mai visti più cari di quelli che vedo?)
Io t’amo! Ché non c’è bisogno di creder in te per amarti
(e forse che credo nell’arti? E forse che credo nel sogno?)
Io t’amo, Purissima Fonte che non esisti, e t’anelo!
(Esiste l’azzurro del cielo? Esiste il profilo del monte?)
M’accolga l’antica Abazia; è ricca di luci e di suoni.
Mi piacciono i frati; son buoni pel cuore in malinconia.
Son buoni. “Non credi? Che importa? Riposati un poco sui banchi.
Su, entra, su, varca la porta. Si accettano tutti gli stanchi.”
Vi seggo — la mente suasa — ma come potrebbe sedervi
un tale invitato dai servi e non dal padrone di casa.
— “Riposati, o anima sazia! Riposati, piega i ginocchi!
Chissà che il Signore ti tocchi, chissà che ti faccia la grazia.”
— “Mi piace il Signore, mi garba il volto che gli avete fatto.
Oh, il Nonno! Lo stesso ritratto! Portava pur egli la barba!”
“O Preti, ma è assurdo che dòmini sul tutto inumano ed amorfo
quell’essere antropomorfo che hanno creato gli uomini!”
— “E non ragionare! L’indagine è quella che offùscati il lume.
Inchìnati sopra il volume, ma senza voltarne le pagine,
o anima senza conforti, e pensa che solo una fede
rivede la vita, rivede il volto dei poveri morti.”
— “O Prete, l’amore è un istinto umano. Si spegne alle porte
del Tutto. L’amore e la morte son vani al tomista convinto.”
I
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via…
E penso pur quale Signora m’avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt’altra Signora non già s’affacciasse alle soglie.
II
Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa…
Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
in un’antichissima villa remota del Canavese…
Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca,
ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:
un nome che è come uno scrigno di cose semplici
e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone…
un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,
il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!… Felicità…
III
Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d’un giorno d’estate, nel mille e… novecento… quaranta.
(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,
ma pur che da molto passate o molto di là da venire.)
Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l’antico frutteto darebbe i medesimi frutti).
Sopita quell’ansia dei venti anni, sopito l’orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).
Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).
Vivremo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città…
la figlia: “…l’evento s’avanza, sarete Nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza…”
il figlio: “…la Ditta ha ripreso le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese“.
Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la Vita
è fatta di semplici cose, e non d’eleganza forbita.
IV
Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.
Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei — sui settanta — tornato nella gioventù clericale,
poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.
V
Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti,
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d’adesso…
E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi…
Verreste, amici d’adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!
Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.
Però che compita la favola umana, la Vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.
Ma non è senza bellezza quest’ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!
La sala da pranzo degli avi più casta d’un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.
La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,
di fumo di zigaro, a nimbi… La sala da pranzo, l’antica
amica dei bimbi, l’amica di quelli che tornano bimbi!
VI
Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l’aria tranquilla
si cenerebbe all’aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.
Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio…
Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell’ora che trillano i grilli, che l’ago solare s’arresta
tra i primi guizzi selvaggi dei pippistrelli all’assalto
e l’ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.
E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita
è fatta di semplici cose e non d’eleganza forbita:
“Il cielo si mette in corruccio… Si vede più poco turchino…”
“In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino.”
“Peccato!” — “Che splendide sere!” — “E pur che domani si possa…”
“Oh! Guarda!… Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!”
Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.
“Ah! Sono così malaccorte le cuoche… Permesso un istante
per vigilare la sorte d’un dolce pericolante…”
Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l’opera delle sua mani.
E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l’omaggio appena raccolto.
Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!
Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!
E l’uve moscate più bionde dell’oro vecchio; le fresche
susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,
l’enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi
incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose
emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore
ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici.
E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!
Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini…)
Parlare d’amore, di belle d’un tempo… Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggierebbe alle stelle).
Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
“Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!”
“Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!”
“Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l’arredo pagano, col Re—di—Tempeste Odisseo…”
Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,
per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.
Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;
— “Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re—di—Tempeste?”
Allora, tra un riso confuso (con pace d’Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yacht
toccando tra liete brigate
le spiaggie più frequentate
dalle famose cocottes…
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele…
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi…
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America…
— Non si può vivere senza
danari, molti danari…
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! —
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell’altro polo…
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l’alto mare:
si videro innanzi levare
un’alta montagna selvaggia…
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all’in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta tuttora…
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
Io penso talvolta…
E l’anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.
Ricordi? Io la rivedo,
rivedo la compagna,
la classe, la lavagna,
e lei china alla filza
dei verbi greci… Smilza
e mascula: un cinedo
molto ricciuto e bello…
Ricordi? Io la rivedo
bionda, sciocchina, gaia:
un piccolo cervello
poco intellettuale
di piccola crestaia
molto sentimentale.
Non la ricordi? Smorta,
con certe iridi chiare
dal vasto arco ciliare…
E l’anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.
Quella è la casa dove
crebbe fanciulla. Guarda
quella finestra dove
vegliava ad ora tarda;
il biondo capo chino
su pergamene rozze
di greco e di latino,
sugli assiomi nudi…
Ma poi lascia gli studi
maschi, passando a nozze
cospicue: un amico,
pare, un amico antico
della madre, uno sposo
ricchissimo ed annoso,
inglese, che la porta
in terra d’oltremare…
E l’anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.
Volsero gli anni. Ed ella
esule sul Tamigi
non dava più novella…
Pure, nei giorni grigi,
tra i miei grigi ricordi,
vedevo a quando a quando
i coniugi discordi:
lo sposo venerando
e l’esile compagna
signora in Gran Bretagna…
Quand’ecco fa ritorno
fra noi, senza marito;
e fu rivista un giorno
più bella nel vestito
cupo… Cercava intorno
col volto sbigottito,
con pupilla assorta,
chi la volesse amare…
E l’anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.
Anche te, cara, che non salutai
di qui saluto, ultima. Coraggio!
Viaggio per fuggire altro viaggio.
In alto, in alto i cuori. E tu ben sai.
In alto, in alto i cuori. I marinai
cantano leni, ride l’equipaggio;
l’aroma dell’Atlantico selvaggio
mi guarirà, mi guarirà, vedrai.
Di qui, fra cielo e mare, o Benedetta,
io ti chiedo perdono nel tuo nome
se non cercai parole alla tua pena,
se il collo liberai da quella stretta
spezzando il cerchio della braccia, come
si spezza a viva forza una catena.
Un giorno, al chiuso, il pedagogo fiacco
m’impose la sciattezza del comento
alternato alla presa di tabacco.
Mi rammento la classe, mi rammento
la scolaresca muta che si tedia
al commentare lento sonnolento;
rivedo sobbalzare sulla sedia
il buon maestro, per uno scolaro
che s’addormenta su di te, Comedia!
Attento! Attento! — Ah! più dolce sognare
con la gota premuta al frontispizio
e l’occhio intento alle finestre chiare!
Ad ora ad ora un alito propizio
alitava un effluvio di ginestre
sul comento retorico e fittizio.
La Primavera, l’esule campestre,
conturbava la gran pace scolastica
pel vano azzurro delle due finestre.
Io fissavo gli attrezzi di ginnastica,
gli olmi gemmati, l’infinito azzurro
in non so che perplessità fantastica;
e tendevo l’orecchio ad un sussurro,
ad un garrito di sperdute gaie,
in alto in alto in alto, nell’azzurro.
Guizzavano, da presso, l’operaie
affacendate in paglia in creta in piume,
riattando le case alle grondaie…
Con gli occhi abbarbagliati da quel lume
primaverile, mi chinavo stracco,
ripremevo la gota sul volume.
E riudivo il pedagogo fiacco
alternare alla chiosa d’ogni verso
la consueta presa di tabacco…
Ah! non al chiuso, ma nel cielo terso,
nel fiato novo dell’antica madre,
nella profondità dell’universo,
nell’Infinito mi parlavi, o Padre!
Io so il mistero di colei che abbassa
l’antiche ciglia in vigilanza estrema,
quasi, nel marmo trepidando, tema
d’aggrovigliare un’esile matassa.
Io so. Guardate contro il sole: passa
dall’una all’altra mano e splende e trema
il filo che un’epeira diadema
conduce senza spola e senza cassa.
Aracne fu pietosa. E chi non mai
più rivedrà la terra sacra abbassa
le ciglia illuse e vede il mare Egeo,
vede una schiava al ritmo dei telai,
appenderle dal plinto una matassa:
e canta un canto dolce il gineceo.
Tutto ignoro di te: nome, cognome,
l’occhio, il sorriso, la parola, il gesto;
e sapere non voglio, e non ho chiesto
il colore nemmen delle tue chiome.
Ma so che vivi nel silenzio; come
care ti sono le mie rime: questo
ti fa sorella nel mio sogno mesto,
o amica senza volto e senza nome.
Fuori del sogno fatto di rimpianto
forse non mai, non mai c’incontreremo,
forse non ti vedrò, non mi vedrai.
Ma più di quella che ci siede accanto
cara è l’amica che non mai vedremo;
supremo è il bene che non giunge mai!
I
Supini al rezzo ritmico del panka.
Sull’altana di cedro, il giorno muore,
giunge dal Tempio un canto or mesto or gaio,
giungono aromi dalla jungla in fiore.
Bel fiore del carbone e dell’acciaio
Miss Ketty fuma e zufola giuliva
altoriversa nella sedia a sdraio.
Sputa. Nell’arco della sua saliva
m’irroro di freschezza: ha puri i denti,
pura la bocca, pura la genciva.
Cerulo—bionda, le mammelle assenti,
ma forte come un giovinetto forte,
vergine folle da gli error prudenti,
ma signora di sé della sua sorte
sola giunse a Ceylon da Baltimora
dove un cugino le sarà consorte.
Ma prima delle nozze, in tempo ancora
esplora il mondo ignoto che le avanza
e qualche amico esplora che l’esplora.
Error prudenti e senza rimembranza:
Ketty zufola e fuma. La virile
franchezza, l’inurbana tracotanza
attira il mio latin sangue gentile.
II
Non tocca il sole le pagode snelle
che la notte precipita. Le chiome
delle palme s’ingemmano di stelle.
Ora di sogno! E Ketty sogna: “…or come
vivete, se non ricco, al tempo nostro?
È quotato in Italia il vostro nome?
Da noi procaccia dollari l’inchiostro…”
“Oro ed alloro!…” — “Dite e traducete
il più bel verso d’un poeta vostro…”
Dico e la bocca stridula ripete
in italo—britanno il grido immenso:
“Due cose belle ha il mon… Perché ridete?”.
“Non rido. Oimè! Non rido. A tutto penso
che ci dissero ieri i mendicanti
sul grande amore e sul nessun compenso.
(Voi non udiste, Voi tra i marmi santi
irridevate i budda millenari,
molestavate i chela e gli elefanti.)
Vive in Italia, ignota ai vostri pari,
una casta felice d’infelici
come quei monni astratti e solitari.
Sui venti giri non degli edifici
vostri s’accampa quella fede viva,
non su gazzette, come i dentifrici;
sete di lucro, gara fuggitiva,
elogio insulso, ghigno degli stolti
più non attinge la beata riva;
l’arte è paga di sé, preclusa ai molti,
a quegli data che di lei si muore…”
Ma intender non mi può, benché m’ascolti,
la figlia della cifra e del clamore.
III
Intender non mi può. Tacitamente
il braccio ignudo premo come zona
ristoratrice, sulla fronte ardente.
Gelido è il braccio ch’ella m’abbandona
come cosa non sua. Come una cosa
non sua concede l’agile persona…
— “O yes! Ricerco, aduno senza posa
capelli illustri in ordinate carte:
l’Illustrious lòchs collection più famosa.
Ciocche illustri in scienza in guerra in arte
corredate di firma o documento,
dalla Patti, a Marconi, a Buonaparte…
(mordicchio il braccio, con martirio lento
dal polso percorrendolo all’ascella
a tratti brevi, come uno stromento)
e voi potrete assai giovarmi nella
Italia vostra, per commendatizie…”
— “Dischiomerò per Voi l’Italia bella!”
“Manca D’Annunzio tra le mie primizie;
vane l’offerte furono e gl’inviti
per tre capelli della sua calvizie…”
— “Vi prometto sin d’ora i peli ambiti;
completeremo il codice ammirando:
a maggior gloria degli Stati Uniti…”
L’attiro a me (l’audacia superando
per cui va celebrato un cantarino
napolitano, dagli Stati in bando…)
Imperterrita indulge al resupino,
al temerario — o Numi! — che l’esplora
tesse gli elogi di quel suo cugino,
ma sui confini ben contesi ancora
ben si difende con le mani tozze,
al pugilato esperte… In Baltimora
il cugino l’attende a giuste nozze.
Cantare udivo un gallo in sogno… Sognavo un villaggio canavesano forse… L’aurora improvvisa mi desta.
Mi desta nel rifugio di stuoia sul Picco selvaggio:
d’un tremolìo d’acquario scintilla la selva ridesta.
Le felci arborescenti contendono i raggi all’aurora, dall’uno all’altro fusto s’allaccia la flora demente,
spezzo ghirlande azzurre gialle sanguigne, m’irrora
la coppa del calladio, l’orciuolo della nepente…
Cantava un gallo in sogno… Ma un gallo ben vivo risponde. Sobbalzo. Ascolto. Il cuore col battito colma le tregue.
Regna il Re dei cortili le vergini selve profonde?
M’illude un negromante per gioco? Il mio sogno prosegue?
Non il Re dei cortili qui regna, ma l’avo selvaggio
(già cantava sul Picco d’Adamo che Adamo non era).
Canta il “gallo bankywa” l’aurora del Tropico, il raggio d’oro che scende obliquo dove la jungla è più nera.
L’Uno è tutto esaurito,
non lo trova più nessuno,
a chi dà copia dell’Uno
un milione è profferito.
Col più gran caffè concerto
vien Giolitti un poco male
per un male un poco incerto,
vien con tutto il personale
del Suffragio Universale.
Ma — pagliaccio o rosso o bruno —
tutti chiedono dell’Uno,
l’Uno già tutto esaurito.
Finalmente il Vaticano
lascia il Papa ed il Concilio,
balla il tango col sovrano
dal garofano vermiglio.
Tutti vanno in visibilio:
il prelato col tribuno,
tutti chiedono dell’Uno:
l’Uno — ahimè — tutto esaurito!
Trema all’Uno e terra e mare!
la San Giorgio per isbaglio
si rimette a galleggiare,
perciò grato l’ammiraglio
contro un già prossimo incaglio
contro i tiri di Nettuno
premunirsi vuol dell’Uno,
l’Uno — ohimè — tutto esaurito!
Stanco d’essere il fantoccio
d’un insipido frasario
grida Verdi: Alfin mi scoccio
di cotesto centenario.
Qui m’annoio solitario.
Ecco il Numero. Ma l’Uno?
L’Uno — ohimè — non l’ha nessuno,
l’Uno è già tutto esaurito!
Levigandosi l’alloro
Gabriele inquieto appare:
un mistero: il Pomo d’oro
ben volevo ricercare
sul rarissimo esemplare.
Gabriele andrà digiuno;
splende il numero, ma l’Uno,
l’Uno è già tutto esaurito.
Vien Mascagni truce in vista
ché su l’Uno spera già
e già teme un’intervista
“Poiché io sono — ognun lo sa —
mammoletta d’umiltà…”
— Che voi siate un fiore o un pruno,
gran maestro, fa tutt’uno,
l’Uno è già tutto esaurito.
Térésah, Carola, Amalia,
l’altre insigni letterate,
che oggi infiammano l’Italia,
si presentano infiammate
come tante forsennate:
un prurito inopportuno
tutte sentono dell’Uno,
l’Uno — ohimè — tutto esaurito.
Non resiste la Gioconda,
balla fuori arguta e gaia
con la sua facciona tonda
di perfetta giornalaia.
Cento quindici migliaia
mi richiedono dell’Uno!
A chi dà copia dell’Uno
un milione è profferito.
Oh successo inopportuno!
L’Uno è già tutto esaurito!
Ai soldati alladiesi combattenti
O tu, che d’odio sacrosanto avvampi
i confini del Barbaro cancella!
Con l’anno sorga una migliore stella
a consolar gli insanguinati campi!
Tu che combatti per l’Italia bella,
tra cupi rombi e balenar di lampi,
salve! Ed il cielo provvido ti scampi
alla sposa, alla madre, alla sorella!
Il tuo paese attende il tuo ritorno.
Tempi migliori ti saran concessi,
se in dolce pace finirà la guerra.
I nostri voti affrettano quel giorno;
tra belle vigne e biondeggiar di messi,
ritornerete, figli della terra!
Dice il Sofista amaro: …il Passato è passato;
è come un’ombra, è come se non fosse mai stato.
Impossibile è trarlo dal sempiterno oblio;
impossibile all’uomo, impossibile a Dio!
Il Passato è passato… Il buon Sofista mente:
basta un accordo lieve e il Passato è presente.
Basta una mano bianca sulla tastiera amica
ed ecco si ridesta tutta la grazia antica!
Anche se il tempo edace o il barbaro cancella
i tesori che all’arte diede l’Italia bella,
v’è un’arte più del marmo, del bronzo duratura
fatta di suoni, fatta di una bellezza pura,
un’arte che sussiste pur fra i tesori infranti
finché una corda vibri e una fanciulla canti!
Il Seicento rivive con la sua grazia ornata
in Orazio dell’Arpa od in Mazzaferrata;
s’eterna il Settecento più che in marmi o ritratti,
in un motivo lieve di Blangini… Scarlatti…
Melodrammi, oratorii, messe, vespri, mottetti:
odor sacro e profano d’incensi e belletti!
La musica da camera risorge in guardinfante
tra una dama che ride e un abate galante!
Né il Settecento solo, ma noi risaliremo
all’origini prime, fino al limite estremo,
quando non anche noto era il cembalo e l’ale
scioglieva il canto al ritmo del liuto provenzale.
Ad evocare il sogno che l’anima riceve
s’alterni la parola nella cornice breve.
Ché pei Maestri antichi non fu la scena immota,
ma sognarono “vive” la sillaba e la nota.
Rivivano quai furono. E dell’età passate
risorgano, col canto, le fogge disusate.
Non per arte femminea, né per vezzo leggiadro,
ma perché il vero viva nell’armonia del quadro.
Questo è l’intento nostro. Coi Maestri più noti
e men noti rivivere i secoli remoti.
Nostre canzoni, gemme dei nostri orafi insigni
un po’ dimenticate nei loro antichi scrigni!
Tutti i motivi italici noi tratteremo in parte
se fortuna è propizia al nostro sogno d’arte.
Questo è l’intento nostro. E ci valga l’intento,
se le forze non sempre son pari all’argomento.
E — se faremo bene — decretate il successo…
e… se male faremo… applaudite lo stesso!
Dolci rime
a Luisa Giusti, amica minuscola,
con un cartoccio di cioccolatto
Sola bellezza al mondo
che l’anima non sazia,
fiore infantile, biondo
miracolo di grazia;
grazia di capinera
che canta e tutto ignora,
grazia che attende ancora
la terza primavera!
Tu credi ch’io commerci
(poi che poeto un poco)
in chi sa quali merci
buone alla gola o al gioco!
— Dammi una poesia! —
Così, come un confetto,
mi chiedi… E t’hanno detto
che sia?… Non sai che sia!
Che sia, come va fatto
il dono che vorresti,
ti spiegherò con questi
dischi di cioccolatto.
Due volte quattro metti
undici dischi in fila
(già dolce si profila
sonetto dei sonetti).
Due volte tre componi
undici dischi alfine
(compiute in versi “buoni”
quartine ecco e terzine).
Color vari di rime
(tu ridi e n’hai ben onde)
poni: terze e seconde
concordi, ultime e prime.
Molto noioso? O quanto
noioso più se fatto
di sillabe soltanto
e non di cioccolatto!
Di qui potrai vedere
la mia tristezza immensa:
piccola amica, pensa
che questo è il mio mestiere!
La Notte Santa
Melologo popolare
— Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.
Il campanile scocca
lentamente le sei.
— Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per me e per Giuseppe?
— Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe
Il campanile scocca
lentamente le sette.
— Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
— Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.
Il campanile scocca
lentamente le otto.
— O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
— S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.
Il campanile scocca
lentamente le nove.
— Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
— Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…
Il campanile scocca
lentamente le dieci.
— Oste di Cesarea… — Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell’alta e bassa gente.
Il campanile scocca
le undici lentamente.
La neve! — ecco una stalla! — Avrà posto per due?
— Che freddo! — Siamo a sosta — Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…
Maria già trascolora, divinamente affranta…
Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d’un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
La Vita? Un gioco affatto degno di vituperio, se si mantenga intatto un qualche desiderio.
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