Charles Bukowski, l’avanguardia dissidente di una Poesia butterata
«Il dolore dei poeti non è mai inutile». Potremmo racchiudere, nell’affermazione di Gesualdo Bufalino, tutta la poetica di Henry Charles Bukowski. Chi fosse Bukowski, non è dato a tutti sapere. Molti si immedesimano nella sua “sconcia vita”, altri con la puzza sotto il naso, lo definiscono un poetucolo e ubriacone. In Storia della letteratura americana. Dai canti dei pellerossa a Philiph Roth, lo troviamo citato a pagina 559 in un breve trafiletto che lo lega alla Beat Generation. Insieme a Gregory Corso, Michael McClure, Philiph Lamantia e Jack Spicer. Tutti secondo l’antologia eredi di Ginsberg e di quella poesia, che a partire dagli anni ’50, iniziò ad oltraggiare il verso composto, serio e pressoché indecifrabile, dei vecchi poeti.
L’esercizio di stile che aveva accompagnato buona parte della poesia Europea si ruppe, e con esso anche la convinzione che la poesia fosse un onanistico bisogno del poeta di non farsi capire. Ma Bukowski non solo non si riconosce nel movimento Beat ma non è in esso, in alcun modo riconoscibile. È lui stesso a dirlo in una celebre intervista della Pivano Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle: «Li ho conosciuti. Ma non so di cosa diavolo parlino. Cosa cerchino di fare».
In un’altra celebre intervista di Marc Chénetier, Charles Bukowski, An Interview: Los Angeles, August 19, 1975, il professore e traduttore prova ad affondare il colpo, chiedendo ad Hank se si senta vicino agli scrittori della Beat Generation. Bukowski risponde con la sua solita schietta lucidità: «Oh, no. In loro sento una certa falsità. Non mi piace nessuno di quella cricca. Facevano troppo gli amiconi fra loro. Si riunivano, bevevano insieme. Mi piacciono gli uomini che se la cavano per conto loro».
Senza dubbio, ad Allen Ginsberg, va riconosciuto il merito di fare da spartiacque. Pubblicò L’urlo nel 1956. Di certo fu tra i primi a declamare la sua poesia e definire quella tradizione orale che si diffuse negli Stati Uniti e successivamente, grazie sempre a Fernanda Pivano, in Italia. La poesia di Ginsberg era ed è tutt’oggi, pregna della condizione ebraica dell’autore, come si evince dall’opera Kaddish del 1959 — la parola stessa in ebraico è una preghiera rivolta ai morti — nella quale l’autore racconta le sofferenze della madre, in preda alla pazzia. Il ché non sarebbe un problema se però questo non definisse anche un campo specifico fruibile da chi appartiene a questa cerchia. In essa vi è una forte componete politica, che tende a “rinchiudere” tutti quelli che sono vittime degli ideali comunisti, tanto sentiti negli anni ’30. Il tema della pazzia in Ginsberg fece la prima comparsa, nella poesia L’urlo. Dove ripete come un mantra, alcuni versi dedicati all’amico Carl Salomon:
Carl Solomon! Sono con te a Rockland
dove sei più matto di me
Sono con te a Rockland
dove certo ti senti molto strano
Sono con te a Rockland
dove imiti l’ombra di mia madre
Sono con te a Rockland
dove hai assassinato le tue dodici segretarie
Sono con te a Rockland
dove ridi a questo humor invisibile
Sono con te a Rockland
dove siamo grandi scrittori sulla stessa terribile macchina da scrivere
Sono con te a Rockland
dove le tue condizioni si sono aggravate e se ne parla alla radio
Sono con te a Rockland
dove le facoltà del cranio non ammettono più i vermi dei sensi
Sono con te a Rockland
dove tu bevi tè dal seno delle zitelle di Utica
Sono con te a Rockland
dove scherzi sui corpi delle infermiere le arpie del Bronx
Sono con te a Rockland
dove in camicia di forza gridi che stai perdendo la partita al vero ping pong dell’abisso
Sono con te a Rockland
dove pesti sul piano catatonico l’anima è innocente e immortale non dovrebbe morire empiamente in un manicomio armato
Sono con te a Rockland
dove cinquanta altri elettroshocks non restituiranno la tua anima al suo corpo dal pellegrinaggio a una croce nel vuoto
Sono con te a Rockland
dove accusi i dottori di pazzia e complotti la rivoluzione socialista Ebraica contro il Golgotha nazionale fascista
Sono con te a Rockland
dove spaccherai i cieli di Long, Island e risusciterai il tuo vivente Gesù umano dalla tomba sovrumana
Sono con te a Rockland
dove venticinquemila compagni pazzi tutti insieme cantano le ultime strofe dell’Internazionale
Sono con te a Rockland
dove abbracciamo e baciamo gli Stati Uniti sotto le lenzuola gli Stati Uniti che tossiscono tutta la notte e non ci lasciano dormire
Sono con te a Rockland
dove ci svegliamo dal coma elettrizzati dagli aeroplani delle nostre anime che rombano sul tetto sono venuti a buttare bombe angeliche l’ospedale si illumina muri immaginari precipitano O scarne legioni correte fuori O shock stellato di misericordia è giunta la guerra eterna O vittoria non badare alle mutande siamo liberi
Sono con te a Rockland
nei miei sogni arrivi in lacrime gocciolante dalla crociera della traversata in autostrada dell’America fino alla porta del mio cottage nella notte dell’Ovest.
Il poema fu pubblicato nella raccolta Howl and Other Poems dalla City Lights Bookstore, di Lawrence Ferlinghetti, editore del gruppo Beat nel 1956. Vi è in Ginsberg una chiara fonte di ispirazione, l’influenza del poeta Walt Withman, dal quale non si staccherà mai. Lui stesso amava ribadire il dominio stilistico del grande poeta di Foglie d’erba: «Withman è una montagna così grande che negli Stati Uniti non riescono a vederla».
Ginsberg parlerà della sua poesia come di una respirazione profonda, libera dai meccanismi razionalistici della composizione poetica canonica. Il suo verso lungo e l’utilizzo di forme di preghiera buddhiste cambiano il modo di fare poesia. I temi dell’omosessualità, componente presente in tutti i poeti Beat, l’utilizzo appunto di versi lunghi e di una metrica lacerata, la dichiarazione di antiamericanismo e di protesta politica e sociale, ma anche gli amori privati e viaggi psichedelici, entrano nel campo poetico senza sublimare il linguaggio, che Ginsberg utilizza pescando a piene mani dalla quotidianità. Una poesia quindi che ha anche il sapore della rivolta, delle suggestioni politiche, dell’impegno. La semantica è di certo un punto di incontro tra il poeta Beat e Bukowski: entrambi faranno sfoggio di un linguaggio formale e slang. Un linguaggio forte, sboccato ma che non evita alla poesia di realizzarsi e diventare pura espressione di un’epoca. Bukowski spingerà questo concetto molto oltre, portando il linguaggio nelle strade, tra le puttane, gli ubriaconi, i senzatetto. Liberandolo definitivamente da qualsiasi condizionamento accademico. Lo priverà fin dall’inizio della necessità di qualsivoglia sestina, allitterazione, figura retorica, che non sia necessaria e intrinseca nel gergo colloquiale. La sua grandezza non è solo però, aver denudato la musa, ma bensì aver lasciato nei versi tutta la grandezza che una poesia può trasmettere. La sua poesia, non muove da suggestioni politiche, da pretese più o meno giustificate di cambiare il mondo, ma resta racchiusa nei suoi occhi.
Occhi che spiano intorno, guardando il mondo che non lo merita e la vita che cerca di fregarlo. Bukowski nasce ad Andernach in Germania, sul Reno, in via Aktienstraße 12 Ecke Aktienstraße/Im Winkel.
Era il sedici Agosto 1920. Tre anni dopo il padre si trasferisce in California. Partono a bordo del piroscafo SS Fillmore, lasciando Brema in Germania il 18 aprile e arrivando a New York il 29 aprile. Il costo del biglietto era di circa 300 Dollari. Nel 1923 corrispondevano a circa quattromila dollari.
Nel 1925 frequenta la San Marino Grammar School, appena a sud di Pasadena, ora Valentine School, aperta nel 1918 con 41 studenti. Nel 1926 frequenta la Virginia Road Elementary School, in quel periodo la famiglia Bukowski vive al 4511 W 28th St., Los Angeles, fino al 1930.
Il padre trovò lavoro come venditore di latte. Trainava un carretto con un cavallo.
Violento e autoritario, picchiava Hank e picchiava la madre di Hank. Ma nessuno dei due ebbe mai fortuna agli occhi giudizioso di Bukowski. Ne parlerà molte volte come nella poesia L’amore è un cane venuto dall’inferno:
Mia madre aveva i denti finti
mio padre aveva i denti finti
e ogni sabato della loro vita
prendevano tutti i tappeti della casa
davano la cera al parquet
e poi lo ricoprivano con i tappeti…
Prima della grande Recessione si erano trasferiti a Longwood Avenue, in una casa più grande. Poi le cose precipitarono. La crisi aveva peggiorato la visione di Henry Senior agli occhi del figlio. Dava a tutti la colpa delle sue sfortune. La madre dovette trovarsi lavoro, come donna delle pulizie. Avevano anche un prato. Bukowski era addetto al giardinaggio. Racconterà spesso delle torture a cui era sottoposto.
Nell’intervista con la Pivano, definisce con chiarezza le due componenti che faranno di Hank un odiatore di prati:
FP: Ma i prati ti piacciono o no?
CB: Detesto i prati tutti hanno un prato con l’erba.
FP: Li detesti perché tutti li hanno?
CB: Detesto i prati perché tutti li hanno. La gente ha i prati davanti alle case perché non hanno nient’altro da fare. Hanno i loro impieghi così devono fare qualcosa che non li impegni troppo. Sicché un prato è un’abitudine Americana. Non so in Europa ma qui tutti hanno un prato. E quando si tende a fare le cose che fanno tutti gli altri, si diventa tutti gli altri.
FP: Credi che questo tuo atteggiamento sia connesso a un comportamento anarchico o solo individualistico?
CB: È stato causato quando ero bambino. Mio padre mi faceva tagliare un maledetto prato. E spianarlo. Dovevo tagliare ogni filo d’erba in modo che fossero tutti uguali. Se un filo d’erba sporgeva mi picchiava. Non ha niente a che fare con l’anarchia, è solo che non mi va di tagliare un prato. Ma gli anarchici si identificano con me, anche loro. Perché non lo so. Ma è un problema loro, non mio.
La sua infanzia fu un continuo sfuggire a qualcosa o qualcuno. Dentro casa e nelle strade del quartiere. I ragazzi non accolsero bene il bambino Bukowski. Vuoi per gli abiti da crucco, pantaloni di velluto rosso e camicia con collo arricciato, con i quali la madre si ostinava a mandarlo in giro, vuoi per quel suo essere tedesco in genere. Bukowski svilupperà la necessaria chiusura per guardarsi dentro.
Alle scuole medie compare la sua famosa acne, che lo segnerà in viso per tutta la vita. Nella raccolta di racconti Panino al prosciutto c’è tutta la sintesi delle sue esperienze giovanili, dove si ritrae con cruda realtà su un lettino dell’ospedale a farsi forare le pustole sul viso. Cicatrici che lo segneranno sì, ma che saranno il portale verso la sua anima immensa. Nulla di ciò che ha scritto Bukowski può fare a meno della vita. Della sua vita. E il dolore che ha provato non diventerà mai trauma, inteso come frammentazione di sé stesso, come rottura, ma occasione per redimersi. Ed è qui che diventa irraggiungibile a tutti. Sembra dirti: hai avuto una vita così profonda da permetterti di scriverla senza edulcorarla? I tuoi versi sono così potenti da evitare maneggi e magheggi? La sua giovinezza sarà una lucida e romantica ricerca di qualcosa di buono.
La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità. (Hollywood, Hollywood!)
Non necessariamente bello. La Bellezza fine a sé stessa, incipriata di retorica, non l’ha mai inseguita. Non è mai caduto nella tentazione di scrivere qualcosa di forzato o di clamoroso. La poesia Anormale sembra scritta proprio per rimarcare questo senso assoluto di estraneità a quell’America. Così lontana dalla sua visione così aliena dai suoi bisogni.
Anormale
Quando facevo le elementari
il maestro ci raccontò la storia
di un marinaio
che disse al capitano:
“La bandiera? Spero di non
vederla più, la bandiera!”
“Molto bene,” gli fu risposto,
“il tuo desiderio
sarà esaudito!”
e lo chiusero nella
stiva
e ce lo tennero,
mandandogli cibo
di sotto
e morì laggiù
senza vederla mai più
la bandiera.
Una storia davvero spaventosa
per dei bambini,
molto
efficace.
ma non efficace
abbastanza per
me.
stavo lì seduto a pensare,
bene, è brutto
non vedere la
bandiera,
ma il bello è
non dover vedere
la gente.
Però
non alzai la mano
per dir niente del genere.
sarebbe stato ammettere
che non volevo vedere
neppure loro.
ed era vero.
Guardavo dritto alla
lavagna
che sembrava migliore
di chiunque.
Legge molto. Ma va a caso. Come dirà lui stesso, più tardi: «Inciampavo sui libri, non avevo una direzione, non seguivo un copione». Qui diventa chiaro e addirittura profetico il messaggio che più tardi ribadirà il nostro Eco (non rivolto a Bukowski di cui non credo parlerà mai ma che indirettamente elogia) nel De Biblioteca, testo pubblicato di un suo intervento nel 1981 alla Biblioteca di Milano: «Ora, cos’è importante nel problema dell’accessibilità agli scaffali? È che uno dei malintesi che dominano la nozione di biblioteca è che si vada in biblioteca per cercare un libro di cui si conosce il titolo. In verità accade sovente di andare in biblioteca perché si vuole un libro di cui si conosce il titolo, ma la principale funzione della biblioteca, almeno la funzione della biblioteca di casa mia e di qualsiasi amico che possiamo andare a visitare, è di scoprire dei libri di cui non si sospettava l’esistenza, e che tuttavia si scoprono essere di estrema importanza per noi».
Bukowski cresce così, tra scoperte casuali, in una situazione di continua pressione. La sua faccia butterata, la sua voglia di elevarsi, la necessità di liberarsi, i suoi imbarazzanti bisogni, lo condurranno presto verso i bar. L’alcool diventa uno schermo che lo proteggerà dalle chiacchiere inutili, dalla retorica della propaganda americana, e dei buoni intenti, che fanno di te un cittadino modello. Ma anche le librerie. Leggere è al pari del bere una condizione necessaria. Anche quando è difficile farlo. Nella poesia Primo Amore esprime questo suo bisogno, nell’unico modo che conosce. Una poesia intensa, ma schietta, libera da orpelli e ricami, comunicabile:
…un tempo
quando avevo 16 anni
c’era solo qualche scrittore
a darmi speranza
e conforto.
a mio padre non piacevano
i libri e
a mia madre neppure
(perché non piacevano al babbo)
specie i libri che prendevo io
in biblioteca:
D.H. Lawrence
Dostoevskij
Turgenev
Gorkij
A. Huxley
Sinclair Lewis
e altri.
avevo la mia camera da letto
ma alle 8 di sera
bisognava filare tutti a nanna:
“il mattino ha l’oro in bocca,”
diceva mio padre.
poi gridava:
“LUCI SPENTE!”.
allora mettevo la lampada
sotto le coperte
e continuavo a leggere
sotto la luce calda e nascosta:
Ibsen
Shakespeare
Cechov
Jeffers
Thurber
Conrad Aiken
e altri.
mi offrivano una opportunità e qualche speranza
in un posto senza opportunità
speranza,
sentimento.
Il vero punto di svolta però arriva verso i diciassette anni. Lo racconta per noi, nella raccolta di interviste Il sole bacia i belli Glenn Esterly, tratto da Buk: The Pock-Marked Poetry of Charles Bukowski – Notes of a Dirty Old Mankind, “Rolling Stone”, Issue 215, June 17, 1976: «Quando aveva sedici anni, una sera è tornato a casa ubriaco, è stato male e ha vomitato sul tappeto del salotto. Suo padre l’ha preso per il collo e ha cominciato a spingergli il naso verso il basso come si fa con i cani per ficcarglielo nel vomito. Il figlio è esploso, ha cominciato a scalciare e poi ha beccato con un cazzotto il padre di taglio sulla mandibola. Henry Charles Bukowski senior è crollato ed è rimasto a terra per un pezzo. Dopo quella volta non ha mai più provato a picchiare il figlio».
Ma Bukowski riesce a sublimare anche questo. Paragona le cinghiate del padre alla forza con la quale si batte sulla macchina da scrivere. È consapevole che grazie a tutto questo riesce a liberarsi da quella falsità tipica di chi naviga in acque tranquille. Dirà più tardi: «Solo i poveri riescono ad afferrare il senso della vita, i ricchi possono solo tirare ad indovinare».
Silvia Bizio, una giornalista italiana, ha incontrato Bukowski nella sua casa di San Pedro – California, e in un’intervista del 1981 affronta la questione delle cinghiate con Hank. Ne emerge un quadro lineare, pregno di una lucidità che latita nelle menti sobrie di tutti gli autori di qualsiasi epoca:
CB: questo è stato un buon tirocinio letterario. Picchiarmi con quella cinghia mi ha insegnato qualcosa.
HT: Cosa ti ha insegnato?
CB: Come picchiare sui tasti della macchina da scrivere.
HT: Qual è il legame?
CB: Il legame sta nel fatto che quando ti picchiano abbastanza a lungo e abbastanza forte hai la tendenza a dire ciò che veramente pensi; in altre parole, ti epura da qualsiasi forma di falsità. Se riesci a sopravvivere, tutto quello che rimane è solitamente qualcosa di genuino. Comunque chiunque riceva punizioni forti durante l’infanzia può uscirne rafforzato, crescere bene, oppure può diventare uno stupratore, un assassino, finire in manicomio o perdersi in miriadi di altre diverse direzioni. Quindi, vedi, mio padre è stato un grande insegnante letterario: mi ha insegnato il senso del dolore… il dolore senza motivo…
HT: È forse per questo motivo che scrivi in completo isolamento, senza contatti con le altre persone? Ed è per questo che scrivi?
CB: Sicuramente nessuno sa perché diventa scrittore. Sto solo dicendo che mio padre mi ha insegnato una lezione nella vita, mi ha insegnato certi aspetti della vita, della gente. E questa gente esiste; la incontro ogni giorno quando percorro l’autostrada in macchina.
HT: Che tipo di gente?
CB: Sono in autostrada, nella corsia veloce, dietro a qualcuno. Va a ottanta all’ora. Cambio corsia, cerco di sorpassarlo, va a novantacinque all’ora. Così vado a centocinque e lui pigia sull’acceleratore. C’è qualcosa nella razza umana di molto gretto, di molto amaro. Lo vedo da come la gente guida in autostrada. Quando qualcuno vuole superarmi, io rallento, lo lascio passare. La razza umana vale molto poco.
Più o meno in quel periodo, Charles cominciò a frequentare le biblioteche pubbliche. Aveva deciso che fare lo scrittore si addiceva a un tipo solitario; la solitudine insita in quel mestiere lo attraeva. Nelle biblioteche cercava eroi letterari. Curiosando tra gli scaffali, sfogliava libri e quando trovava una pagina che lo interessava portava a casa il libro per leggerlo: «Scoprivo uno scrittore dopo l’altro», dice, «e dopo un po’ ho notato che avevo scoperto quegli stessi autori che si erano più o meno distinti nel corso degli anni. Mi piacevano i russi, Ĉechov, e tutti quei ragazzi. Ce n’erano anche altri, la maggior parte di tanto tempo prima. Un giorno ho notato un libro sullo scaffale intitolato: Bow Down to Wood and Stone di Josephine Lawrence. Il titolo mi aveva attirato, allora l’ho sfogliato, ma di bello aveva solo il titolo. Poi ho preso il libro lì accanto e quando l’ho sfogliato mi sono detto: “Ehi, questo bastardo sa scrivere”. Era di D.H. Lawrence. Finalmente un po’ di colore per me».
Bukowski comprende la strada della sua santissima personale trinità: bere, leggere e infine scrivere. Ci sono alcuni momenti della sua adolescenza nei quali riconosce i primi approcci, ma sono piccole fiammelle, qualcosa che ancora non comprende di sé, e che arriverà molto più tardi. Confessa a William Packard, in Craft Interview with Charles Bukowski, New York Quarterly, n. 27, Summer 1985, pp. 19-25:
WP: Quando hai cominciato a scrivere? A che età? Quali scrittori ammiravi?
CB: La prima cosa che ricordo d’aver scritto era su un aviatore tedesco con una mano d’acciaio che ha ucciso centinaia di americani in volo durante la Seconda guerra mondiale. L’avevo scritto a mano, a penna e riempiva tutte le pagine fitte fitte di un grosso quaderno a spirale. Avevo circa tredici anni all’epoca ed ero a letto afflitto dal peggior caso di acne che i medici ricordavano di aver visto. Non c’erano scrittori da poter ammirare allora.
Il racconto fu scritto nel 1935, il giovanissimo Hank aveva assaporato la vittoria qualche anno prima a scuola. Ora si recava in biblioteca filiale della Baldwin Hills della Biblioteca pubblica di Los Angeles al 2906 di S. La Brea Avenue, 90016.
Alla Pivano riferisce del famoso racconto di qualche anno prima a scuola, sulla visita del presidente Hoover. Lo racconterà in modo esplicito e diretto ancora in “Panino al Prosciutto” a testimoniare la coerenza e l’accettazione che nella vita esistono stati di non grazia ma nei quali si può nascondere l’anima delle cose, quelle cose che ti turbano ma che ti lasciano un sorriso sulle labbra, senza necessariamente diventare un pagliaccio o peggio la caricatura di sé stessi: «Un giorno Mrs. Fretag assegnò un compito. “Il nostro presidente, Herbert Hoover, verrà a Los Angeles sabato venturo e terrà un discorso. Voglio che andiate tutti a sentire il nostro presidente. E voglio che scriviate un tema su questa esperienza, su cosa pensate del discorso del presidente Hoover”. Sabato? Non ci potevo andare, assolutamente. Dovevo falciare il prato. Dovevo pareggiare i fili. (Non riuscivo mai a pareggiare i fili.) Non c’era modo di spiegare a mio padre che dovevo andare a sentire il presidente Hoover. E così non andai. Quella domenica presi un foglio di carta e mi misi a fare il tema sul discorso del presidente Hoover. La macchina scoperta, seguita dalla folla plaudente, era entrata nello stadio del football. La precedeva una macchina carica di agenti segreti, e altre due macchine la seguivano da vicino. Gli agenti erano uomini coraggiosi, portavano la pistola per proteggere il nostro presidente. La folla si era alzata in piedi quando la macchina aveva fatto il suo ingresso nell’arena. Non si era mai visto niente del genere. Era il presidente. Era lui in persona. Il presidente agitò la mano in segno di saluto. La folla applaudì. La banda suonava. Uno stormo di gabbiani volteggiava nel cielo: anche loro sapevano che quell’uomo era il presidente. Avevamo visto e sentito il presidente Herbert Hoover. Consegnai il tema il lunedì. Il martedì Mrs. Fretag arrivò in classe e ci guardò dalla cattedra. “Ho letto i vostri temi sulla visita a Los Angeles del nostro stimato presidente. Cero anch’io, ad ascoltarlo. Alcuni di voi, ho notato, non hanno potuto partecipare all’avvenimento per una ragione o per l’altra. Per quelli di voi che non hanno potuto ascoltare il presidente, leggerò ora il tema di Henry Chinaski”. Nell’aula si fece un terribile silenzio. Ero di gran lunga lo studente più malvisto della classe. Era come affettargli il cuore col coltello, a quei ragazzi. “È uno scritto molto creativo” … Restai seduto e Mrs. Fretag restò in piedi a guardarmi. Poi disse: “Henry, ci sei andato, a vedere il presidente?”. Restai lì seduto in cerca di una risposta. Non ne trovavo nessuna. Dissi: “No, non ci sono andato”. “Questo rende ancora più pregevole il tuo sforzo”. “Sì, signora…”. “Puoi andare, Henry”. Mi alzai e uscii dall’aula. Mi diressi verso casa. E così, ecco cosa volevano: bugie. Belle bugie. Ecco di cosa avevano bisogno. La gente era stupida. Avrei avuto buon gioco, io. Mi guardai intorno. Juan e il sub amico non mi stavano seguendo. Le cose cominciavano ad andar meglio».
È prepotente e innata la capacità di un autore che non ha bisogno, assolutamente, di fermarsi a pensare. Di contorcersi in strane masturbazioni mentali, nella costruzione di cattedrali assurde. Anche quando mente semina qua e là una verità che in qualche modo vede collegata a ciò che sta scrivendo. E in effetti lo è. Nel trafiletto scritto da ragazzino, Bukowski inventa solo perché non ci può andare. Ma scrive il perché della sua assenza, scrive perché sta mentendo. E nello scrivere del suo trucco, dice la verità: deve tagliare l’erba.
In quella biblioteca si forma il giovane Bukowski. Negli anni in cui il cervello assorbe tutto e lo stampa nella testa. Legge Upton Sinclair (1868-1978): «Le sue frasi erano semplici, e parlava con rabbia. Scriveva con rabbia. Scriveva dei porcili di Chicago. Diceva le cose com’erano, semplicemente, senza tanti fronzoli. Poi trovai un altro autore. Sinclair Lewis (1885-1958). Questo Lewis spogliava gli uomini della loro ipocrisia, uno strato dopo l’altro. Solo che gli mancava la passione. Poi trovai Josephine Lawrence (1889-1978) — Bow Down to Wood and Stone — Un bel titolo, perché era proprio quello che facevano tutti, inchinarsi al legno e alla pietra. Finalmente un po’ di fuoco! Aprii il libro. Era una donna. Non importava. Chiunque, anche le donne, poteva arrivare alla conoscenza. Lo sfogliai. Era come tanti altri libri: pagine di parole effeminate, oscure, noiose. Rimisi a posto il libro. E già che ero lì, con la mano alzata, tirai giù il libro vicino. Era di un altro Lawrence. Aprii il libro a caso e cominciai a leggere. Parlava di un uomo al pianoforte. Da principio sembrava tutto molto falso. Ma continuai a leggere. L’uomo al pianoforte era inquieto. Il suo cervello continuava a dire cose. Cose oscure e curiose. Le frasi erano serrate, incalzanti, come un uomo che urlasse, ma non “Joe, dove sei?”. Piuttosto, “Joe, dov’è qualcosa?” Lawrence con le sue frasi serrate, dolorose. Nessuno mi aveva mai parlato di lui. Perché non lo pubblicizzavano? Lessi un libro al giorno. Lessi tutto il D.H. Lawrence che c’era in quella biblioteca. Una frase gentile. Mi faceva sentir meglio. Come se fossi andato a letto con lei. Lessi tutti i libri di D.H. Lawrence. E mi portarono ad altri libri. A quelli di H.D (Hilda Doolittle 1886-1861), la poetessa».
Poi vennero Huxley, Dos Passos. Dreiser, che non apprezzò. Sherwood Anderson, che invece adorò molto. Jeffers e poi arrivò Hemingway: «Lui sì che le sapeva metter giù, le frasi. Era una delizia. Le sue parole non erano noiose, le sue parole ti facevano ronzare il cervello. Bastava leggerle, abbandonarsi alla magia, e si poteva vivere senza dolore, pieni di speranza, non importava come». E i russi non mancarono. Turgenev e Gorky e Dostoevskij. Poi i tedeschi, Nietzsche e Schopenhauer. Di questi e molti altri si nutrì Bukowski al punto che nel tempo fu definito da molti sì un ubriacone, ma un ubriacone colto. Un antieroe incapace di mentire sul suo non essere eroe. Si fa breccia in questi anni nella vita di Hank la consapevolezza che deve andare.
Conoscere il mondo, soffrire in modo diverso. Cadere senza paracadute. Lo stile che si sta formando nella sua testa, non vuole più aspettare. Intanto frequenta il College per qualche anno. Giornalismo e Inglese. Siamo nel 1939 e il nostro Hank ha poco più di diciannove anni. Gli manca l’azione. Gli mancano le donne. Gli manca la paura vera. L’unica cosa che possiede è ancora troppa sicurezza sotto i piedi. Per non smentirsi e per non buttare all’aria tutto ciò che sente di essere, ha bisogno di materiale. Di vita vissuta. Non vuole diventare come tutti gli altri. Non vuole vedersi costretto a inventare la vita che vorrebbe scrivere. Per comprendere la scelta che si accinge a fare è esemplare, pur nella sua coincidenza fatale, un aneddoto che non può conoscere il giovane Bukowski, ma la cui convergenza ha del magico. John Fante colui che diventerà l’unico vero Dio per Bukowski, e chi lo ha letto può intuirne le ragioni. Un giorno Fante si trovava in un quartiere a Bunker Hill e stava cercando di scrivere e di diventare un grande scrittore. Henry Louis Mencken era il direttore della rivista Mercury e Fante aveva appeso al muro la sua foto. Ogni tanto la sera lo guardava e gli parlava. Mangiava in quel periodo l’unico pasto, due arance, che il fruttivendolo Giapponese gli passava per pietà. Solo un nichelino, per un sacchetto di arance. Guardava la foto di Menken come un’icona cristiana e ardeva dal desiderio di diventare scrittore. A un certo punto decise di scrivergli una lettera.
Nella lettera chiedeva all’editore più anziano di lui di trent’anni: come posso scrivere di ciò che non conosco? Menken rispose: «Uno scrittore che abbia meno esperienza di altri uomini non può essere in due posti contemporaneamente o si è davanti alla macchina da scrivere o si è nel mondo a fare esperienza. Pertanto, siccome è certo che si vuole scrivere e fare esperienza di cui scrivere, si deve imparare a fare molto con poco: e fare molto con poco è in breve il mestiere dello scrittore!»
Ecco cosa fa Bukowski, si getta nel mondo. L’occasione è degna dei più classici colpi di scena che la vita gli ha riservato. Un giorno torna a casa e trova i suoi fogli e i suoi vestiti sparsi in strada. Il padre aveva letto i suoi racconti fatti di sesso, ed emarginati. Siamo nel 1940 e Bukowski va a vivere da solo. Prima alloggia al Rangeley Apartments, a 220 Cinnabar St. a S. Flower St., poi in una stanza in Temple Street — con l’assistenza finanziaria di sua madre.
Lascia Los Angeles per viaggiare da solo e vedere il paese. Risulta in viaggio verso, San Francisco, Filadelfia e New Orleans. Sicuramente era a New Orleans nel 1942 come risulta dalle registrazione di archivio.
Qui arriva con una valigia di cartone, sfatta e marcia, sotto una pioggia battente. La vita di Bukowski ormai è avviata. Il momento della verità. Capirà presto se la scrittura è un cruccio o c’è davvero qualcosa dentro di lui, così caldo e intenso, da lanciarlo nell’olimpo della letteratura. Fa lavori necessari per accumulare piccole somme di denaro, che diventa abilissimo a far durare il più a lungo possibile, accontentandosi di mangiare una tavoletta di cioccolato al giorno: «Ho viaggiato sulle corriere che attraversano il paese da costa a costa un sacco di volte quando ero giovane. C’era qualcosa di cui avevo bisogno: il costante movimento per sopravvivere a quello che stava succedendo dentro di me e a quello che il mondo mi stava facendo».
Nella raccolta Una notte niente male ne vengono fuori gioielli inestimabili di questi momenti, come nella poesia Fuga 1942 dove parla dei militari che marciano a San Francisco:
…mio padre mi aveva scritto
da Los Angeles: «se non
vuoi andare in Guerra
almeno lavora nei
cantieri navali, aiuta il tuo paese
e guadagna qualcosa».
ero matto.
me ne stavo seduto in una stanzetta a
fissare i muri.
ora, molti di quegli
operai del cantiere navale
hanno scoperto
di essere stati esposti
all’avvelenamento
da asbesto, e alcuni di loro
ora sono condannati a una lenta
inevitabile
morte.
Ma anche Una strana poesia a cavallo dove elenca i luoghi e le circostanze di una formazione universitaria on the road:
Sì, un tempo cavalcai questo strano cavallo dappertutto
dal 1940 al 1950
e il suo nome era Nulla e cavalcammo per New Orleans,
St. Louis, N.Y.C., Kansas City est, di’ un nome, di’ tu
la città – Atlanta, quella sì che era una gran figlia di puttana – e a volte
il cavallo si chiamava Greyhound, a volte si chiamava
Greyniente, c’era un sacco di ragazze giovani, di solito sedute con qualcun
altro, qualcuno in uniforme da soldato dall’aspetto….
un hotel scadente a New Orleans: alzarsi alle 6
per andare al lavoro dopo una
notte con 3 bottiglie di vino scadente, uscire nel
corridoio buio, freddo, lasciare la stanza per cercare un posto per
cagare e radersi, ma ogni cesso era occupato, c’era qualcuno
dentro che si radeva, e mentre
aspettavi, vedere topi grandi una spanna scorrazzare
avanti e indietro appena prima dell’alba, correre su e giù
per il corridoio scalcinato, allora capivi che tuo padre aveva
ragione, saresti sempre stato un barbone, non avevi grinta e improvvisamente
il cavallo era molto stanco così te ne tornavi a letto, con soli 4$
nel portafoglio, sufficienti per un po’ di vino più tardi e qualche spicciolo di resto.
Non una sola delle poesie che scrive è immaginazione, non un verso ha il sapore del nulla, non una parola intraducibile. La lezione è già chiara. Smettetela di scrivere stronzate. Bisogna smettere di darsi arie o di passare ore a pensare al verso astruso, bisogna ripudiare le forme arcaiche e erudite affinché tutti, ma proprio tutti, possano comprendere l’essenza della vita, qualunque strada abbia preso la tua. La poesia è stata incompresa per secoli, semplicemente perché i poeti non hanno mai voluto farsi capire.
Lo spiega a chiare lettere senza troppi giri di parole più tardi nel 1985: «C’è troppa brutta poesia che viene scritta adesso. La gente non è capace di scrivere un verso semplice e fluente. Per loro è difficile; è come cercare di mantenere un’erezione mentre si sta affogando… non in molti ci riescono. La poesia brutta è prodotta da quelle persone che si siedono e pensano: ora sto per scrivere una Poesia. Ed esce come loro pensano che debba essere una poesia. Prendi un gatto. Non pensa: “Be’, dato che sono un gatto ora sto per uccidere quell’uccello”. Lo fa e basta. La buona poesia contemporanea? Be’, è scritta da un paio di gatti chiamati Gerald Locklin e Ronald Koertge… che i poeti sono studiosi, eruditi, sicuri di sé, e odiosamente boriosi. Non credo di esser mai riuscito a leggere un’intervista fino in fondo; le parole si offuscavano e le foche ammaestrate svanivano sotto la superficie. Nelle risposte di questa gente manca gioia, pazzia e rischio, proprio come nei loro lavori (poesie)». (William Packard, in Craft Interview with Charles Bukowski, “New York Quarterly”, n. 27, Summer 1985, pp. 19-25)
È un continuo vagare per Bukowski tra galera, reticenza alla leva militare, e l’FBI. Da tutto questo nascerà Factotum il suo primo romanzo che lo rileverà al pubblico. Ma Bukowski ha ancora molte vite da bruciare prima di affermarsi. Ad Atlanta più tardi (1947) rischia di morire. Vive in una baracca senza acqua riscaldamento e corrente elettrica. Non ha soldi, non ha neanche più la macchina da scrivere regalatagli durante il college. L’ha venduta. Scrive utilizzando vecchi monconi di matita su fogli di carta trovati in giro: «In tutte le città in cui sono stato, ci sono andato povero in canna, per imparare a conoscerle dal basso, dal fondo. Se le guardate dall’alto, se le osservate dalla cima di quelle città non ne saprete un bel niente. Solo i poveri conoscono il significato della vita: chi ha i soldi e sicurezza può soltanto tirare a indovinare…Le città non sono altro che dimore, posti per lavorare, strade, autostrade, automobili, gente – gente sistemata da qualche parte con tutta la sofferenza e i problemi e l’amore e la frustrazione e la morte e la noia e il tradimento e la speranza che riesci a provare».
Nel 1943 Bukowski finalmente perde la verginità. Lo fa con una donna a suo dire di 300 Libbre. Qui c’è se vogliamo tutta una storia incredibile, che nonostante lo squallore nasconde la fragilità del poeta, l’ironia pungente dell’uomo e dello scrittore Chinaski. Due le versioni, una nel romanzo Factotum dove lui afferma di essersi sentito stuprato da questa donna, e l’altra nella rivista Open City n. 46, del 15-21 marzo 1968, nella rubrica “Note di un vecchio sporcaccione” dove invece dice di sentirsi pronto al grande evento.
Nel 1944 avviene il miracolo. Bukowski viene pubblicato su Story, una rivista diretta da Whit Burnett e Martha Fley che pubblicava autori con uno stile nuovo. Qui pubblica il racconto “Conseguenze di una lunga lettera di rifiuto”, poi inserita nella raccolta Azzeccare i cavalli vincenti. Resta un mistero sul fatto che Bukowski abbia pubblicato su Story il suo primo pezzo, oppure sia stata una poesia su una presunta rivista di cui è rimasto poco, chiamata Write. Una rivista di sette o otto pagine di cui emerge l’esistenza, mediante una lettera dello stesso Hank nel 1987:
Bukowski qui farà una scelta nuova. Proprio quando sembra che tutto inizi a girare lascerà la scrittura. Un coup de théâtre inatteso, per chi ha inseguito con tanto ardore la propria scia. Ma ancora una volta Hank è coerente, con sé stesso, con la storia, con ciò che ha sempre scritto. È la sua voce a raccontarlo ancora una volta in quelle interviste, qui con William J. Robson e Josette Bryson(1970), che forse mancano ai detrattori di un poeta straordinario e che sarebbe meglio leggere prima di giudicare o peggio di paragonarlo a “sognatori poetici”, che nulla hanno a che vedere con Bukowski e che lui stesso ricambia con la stessa indifferenza:
CB: Avevo scritto qualcosa ma non mi sentivo pronto. Mi ero accorto subito che era robaccia. Non era come volevo che fosse. Poco dopo hanno pubblicato il mio primo racconto, Woodbury Nut, sulla rivista Story.
WJR: Non pubblicava anche Norman Mailer su quella rivista?
CB: Sì… anche Saroyan… era la rivista più in voga, all’epoca. Era la rivista. Una volta che riuscivi a essere su “Story” eri in teoria “pronto”. Così mi è arrivata una lettera da un’agente – all’epoca ero a New York – che diceva: “Voglio essere la tua agente per i tuoi lavori futuri”, e ho detto: “Io non scrivo. Non sono ancora pronto. Mi è solo capitato di fare centro una volta… ed era un brutto racconto”.
WJR: Quanti anni aveva allora?
CB: Ventiquattro.
WJR: Non c’erano guru qui in zona all’epoca?
CB: No, no, mi piacevano Saroyan…come a tutti, il primo Hemingway, Céline… Dostoevskij. Kafka…
JO: Vittorini… lo scrittore italiano?
CB: Chi è? Oh, è quello che ha scritto decine e decine di romanzi?
JO: Sì, ha scritto quello molto famoso, Conversazione in Sicilia.
CB: Non sono mai riuscito a leggere la sua roba. Andavo sempre in biblioteca e c’erano dai dieci ai dodici libri suoi tutti allineati. E mi dicevo: “Come fa a riuscirci?”. O era molto bravo o era molto scarso.
Ed è davvero insolito, e ancora una volta sconvolge la coincidenza bestiale, visto che Elio Vittorini è stato uno dei primi traduttori (1941) del romanzo di Fante Chiedi alla polvere (tradotto il Cammino nella Polvere). Finalmente, Bukowski trova un impiego fisso. Nel 1954 (e non nel 1955 come si evince da alcune biografie) arriva il momento della grande paura. Ezra Pound ha detto una delle frasi più geniali che possiamo assimilare al vecchio Hank: Se un uomo non intende correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui.
E lui lo corre davvero il rischio quando rischia di morire per emorragia. La data esatta è esplicitata in una lettera che Bukowski invia a Burret datata 25.08.1954: «Alla fine dello scorso aprile la mia pancia si è spaccata e ho avuto emorragie a destra, a sinistra e al contrario. Mi hanno messo nel reparto di beneficenza del General Hospital e mi hanno ammazzato con sette pinte di sangue in 24 ore».
Dopo questo evento da cui uscirà molto più forte e deciso a bere, nonostante le raccomandazioni dei medici, il grande poeta inizierà a scrivere soprattutto poesia.
Nell’ottobre del 1956 sposa Barbara Frye a Las Vegas. Da cui si separerà nel Marzo del ’58. Intanto semina ammiratori per la sua scrittura. Il poeta e amico John William Corrington, è tra i suoi primi sostenitori. Adora il suo linguaggio privo degli stratagemmi e dei manierismi che hanno preso il sopravvento, e che distraggono il lettore, che lo rendono inferiore, che lo sottopongono a una certa subordinazione rispetto a chi scrive. Il verso accademico. Il 24 Dicembre del 1956 muore la madre di Bukowski, di cancro. Nel 1958 muore anche il padre. È la volta dell’ufficio postale proprio nel 1958 dove lavorerà due anni alla distribuzione. Poi verrà promosso come impiegato e resterà a smistare lettere fino al 1970 quando si licenzia. Nel 1963 incontra Francis Smith dalla quale si separerà nel 1965 ma farà in tempo ad avere una figlia l’unica di Bukowski, la piccola Marina.
Dall’esperienza dell’ufficio postale e nasce appunto Post Office. Lo scriverà sulla sua celebre Underwood, macchina che lo accompagnerà per molto tempo. Bukowski dirà che la sulla macchina non batte i tasti, ma suona sinfonie o spara come una mitragliatrice.
In mezzo come per Fante c’è un editore. Ma diverso dal Menken che abbiamo conosciuto. John Martin. Fonderà la Black Sparrow, ma solo dopo aver creduto in Bukowski e aver venduto la sua collezione privata di libri per racimolare i soldi necessari alle pubblicazioni. Si incontrano per la prima volta nel 1966.
Aldilà di ogni stupidaggine di natura morale, di ogni sorta di pomposa insistenza moralistica, il romanzo è stato un lungo racconto di come la vita ti frega sempre, di come il sogno americano sia stato un incubo fatto di turni massacranti. L’America non ti salva se non sei disposto a dare tutto il tuo sangue. Questo è Post Office: una disillusione. Un aprire gli occhi davanti all’enorme ipocrisia di un’America tamponata di patinate bugie. Bukowski però è sempre più vero solo nelle sue poesie. È lì che sa parlare di sé, sa farti entrare nella sua anima, sa dare il meglio di sé e sa essere dissacrante senza mai smentirsi.
Bukowski riceverà, nonostante tutto, molti rifiuti di pubblicazioni di poesie. Un particolare rifiuto arriverà da Paloma Picasso, figlia del celebre pittore a cui scriverà una lettera nel 1969 presente nella raccolta — Nella scrittura: «Naturalmente, cazzo, spero che lei possa trovare una o due poesie tra queste; se no rispedisca quelle che non può utilizzare, o le rimanenti. le lettere di rifiuto fanno bene all’anima. la mia anima adesso è affidata a un corriere».
La punteggiatura è quella che utilizza e che fa impazzire gli editing di mezzo mondo e che malauguratamente ti fa finire dritto nel cestino! Ti chiederesti come sia possibile nel caso di Paloma. Cresciuta tra dipinti poco affini alle regole, nei quali la buona maniera tanto cara a Vasari, viene sovvertita, lei Paloma non transige sulla coerenza dello scrivere e il suo ordine prestabilito. E Bukowski finisce per ricevere il suo celebre rifiuto. Ma il poeta non si deprime, anzi sembra un gioco, una gara, una sfida che lo eleva sempre di più. Scrive migliaia di poesie e le getta nell’armadio. Ogni giorno Martin va a casa, apre la porta, ne prende alcune, le legge e se le porta via. Ha finalmente trovato il suo stile. Lezione tanto cara a Céline ma a Bukowski stesso. Céline amava dire, “tu sei il tuo stile”.
L’emozione difficilmente aderisce così bene alla pagina perché l’esperienza è una lanterna che illumina solo chi la porta. La gente potrà cercare di avvicinarsi, potrà intuire e intravedere qualcosa, ma l’emozione è solo tua ed è incomunicabile. Ciò che è scritto stampato sulla pagina è lo stile. Dice qui giace tal dei tali. Chiunque leggerà ti riconoscerà. Saprà che sei tu. Il resto è stupida convinzione. È retorica. Bukowski avrà uno stile impeccabile e unico, e si muoverà su fronti molto diversi, a suo agio tra il surrealismo di alcuni racconti come La macchina per fottere e l’autobiografico, la narrazione melanconica e la poesia, per finire con la sceneggiatura che non amerà mai, e il cui sviluppo è tutto in Hollywood Hollywood. Bukowski era colto. Molto colto. Citazioni abbondano nei primi scritti da Knut Hamsun, Gustav Mahler, Louis Ferdinand Céline, Igor Stravinskij, Fëdor Dostoevskij a Johann Sebastian Bach. Liquidarlo con un “era un ubriacone”, non fa altro che mettere in ridicolo tutta la categoria di umani a cui ha dato fastidio, per la semplicità con la quale ha saputo vedere e intrecciare le trame della vita in ogni suo aspetto. Forse dovuto a quel carattere, ribelle ad ogni costo, nato però non da un’entropia generale e mentale, ma da una conoscenza di ciò che fa e scrive. Bukowski pensa alla scrittura come un viaggio in solitaria, individuale, non di una guerra tra vanitosi quale è ancora oggi. Ribadiva con fermezza e ironia, la distanza da ogni movimento culturale e dalle diverse scuole di pensiero del panorama letterario. Si prende gioco dei poeti e degli accademici ma anche delle Università. Intanto però dal 1963 appare su varie riviste, quelle che un tempo pubblicavano vere poesie sperimentali, e non ridicole esibizioni o ricicli di ricicli come alcune stranamente celebri riviste Italiane. Pubblica su Wormwood n. 12-1963, The Magazines, Midwest. Poesie come Baionette e lume di candela (Midwwest), Poesia per il mio 43° compleanno, (Wormwood). Di quest’ultima scriverà: «Non ho mai avuto nessuna rivista che mi trattasse come il caro vecchio Wormie … Sono fortunato. E sono fortunato che Wormie sia stato in giro. A volte penso a te. Quindi penso, è fortunato che non ci siamo mai incontrati. È una fortuna che abbiamo una distanza professionale. È una fortuna che tu faccia quello che fai e io faccio quello che faccio e lo facciamo senza politica e relazioni personali. È fortunato, Malone, fortunato, siamo stati una coppia splendida. Saluto il tuo coraggio e il vostro modo». (1978)
Bukowski decolla. Ora non è più un poeta sconosciuto. Le sue poesie hanno il senso del vuoto e non certo del nulla. Un amor vacui che però riflette tutto il senso di ciò che siamo. I poeti sembravano indifferenti, ma alla fine riempivano le loro pagine di interessata cultura, distante anni luce dalla gente comune. Falsamente disinteressati finivano per cedere all’horror vacui, quasi spinti da un bisogno di dire qualcosa che potesse apparire utile all’emotività umana. A qualsiasi costo bisognava riempire, di questa o quella figura retorica.
Pur restando fedeli a quella condizione mediante la quale si afferma che la poesia è incomunicabile. Che tutti noi siamo incomunicabili. Per quanto possiamo esprimere ciò che siamo. Un concetto che ribadirà molto bene Pessoa in quella poesia straordinaria che è Autopsicografia:
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.
E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.
E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.
La poesia di Bukowski non esula dal suo pensare quotidiano. Senza virtuosismi dialettici, senza troppo badare alle maniere. In una intervista del 1985 espone la sua visione semplice e concisa:
NYQ: Pensi che si scriva troppa poesia oggi? Che criterio utilizzi e quale pensi che sia veramente la brutta poesia? Quale pensi che sia la bella poesia oggi?
CB: C’è troppa brutta poesia che viene scritta adesso. La gente non è capace di scrivere un verso semplice e fluente. Per loro è difficile; è come cercare di mantenere un’erezione mentre si sta affogando… non in molti ci riescono. La poesia brutta è prodotta da quelle persone che si siedono e pensano: ora sto per scrivere una Poesia. Ed esce come loro pensano che debba essere una poesia. Prendi un gatto. Non pensa: “Be’, dato che sono un gatto ora sto per uccidere quell’uccello”. Lo fa e basta. La buona poesia contemporanea? Be’, è scritta da un paio di gatti chiamati Gerald Locklin e Ronald Koertge.
NYQ: Hai letto quasi tutta la nostra serie di interviste Il mestiere di scrivere. Cosa pensi del nostro approccio, dalle interviste che hai letto? Quali ti hanno colpito?
CB: Mi dispiace che tu mi abbia fatto questa domanda. Non ho imparato niente dalle interviste se non che i poeti sono studiosi, eruditi, sicuri di sé, e odiosamente boriosi. Non credo di esser mai riuscito a leggere un’intervista fino in fondo; le parole si offuscavano e le foche ammaestrate svanivano sotto la superficie. Nelle risposte di questa gente manca gioia, pazzia e rischio, proprio come nei loro lavori (poesie). (William Packard, in Craft Interview with Charles Bukowski, New York Quarterly, n. 27, Summer 1985, pp. 19-25)
Non mancheranno gli affondi, e i giornalisti che lo intervisteranno solo per buttargli fango addosso. Ma Il vecchio Hank è una roccia e reagisce con colta finezza e decisi punti di vista anche quando si sente messo all’angolo o avverte di finire all’angolo:
MP: C’è chi pensa tuttora che le tue poesie siano una perdita di tempo.
CB: E cosa non è una perdita di tempo? C’è chi colleziona i francobolli o accoppa le nonne. Siamo tutti solo in attesa, facciamo piccole cose nell’attesa di morire.
MP: Ti identifichi in qualche poeta o in qualche corrente letteraria?
CB: No, a me l’intero panorama poetico sembra dominato da somari banali, senz’anima, ridicoli e solitari. Da gruppi universitari da un lato fino alla banda dei beat dall’altro, includendo anche tutti quelli né carne né pesce che stanno in mezzo. Quello che mi stupisce è che non ho mai sentito nessuno dire questa cosa nel modo in cui te la sto dicendo io adesso.
MP: Perché chiami queste persone “somari”? Non ti sembra di essere ridicolo?
CB: Stai attento. Il rosso del sangue non si intonerebbe alla tua camicia. I beat e i ragazzi delle università sono molto simili, nel senso che sono stati inglobati dalla massa. Ci sono quelli guidati dalla massa, dal pubblico, dagli amanti di immagine, dai malati, dai deboli, dai vomitevoli finocchi morti di fame; intendo morti di fame nel senso che le loro anime sono ricoperte di brufoli e che le loro teste sono grossi palloni aerostatici gonfi di aria malsana. Questi poeti non possono resistere all’applauso dal vivo delle mezze calzette. Passano dall’essere creatori all’essere intrattenitori, e formano un clan con la massa e un clan fra loro e diventano bramosi di fama. Ho più rispetto per il direttore di una fabbrica che decide di lasciare a casa cinquanta uomini dalla catena di montaggio. Oh, quegli esseri rivoltanti, quei vomitatori paonazzi che vivono fuori dal mondo, con il loro parlare bleso nelle orecchie della massa morta!
MP: Ma se alla gente piace chissenefrega?
CB: Il risultato è l’astigmatismo delle cose. Ciò che importa è rendere ciascun individuo veramente vivo, e fino a quando i cosiddetti poeti e la massa si tengono per mano e si imbrogliano fra loro non potrà mai succedere. La massa vuole vedere un nome; loro vogliono vedere se lui ha i denti storti o se strizza gli occhi o se gli scende la piscia dalle gambe mentre recita. La massa non vuole smettere di essere debole e pazza, preferisce piuttosto che gli sbagli vengano giustificati, vuole essere celebrata, imbrogliata. E allora cosa succede dopo? Ah, ecco che arriva il poeta alla moda, l’autentico poeta dalla testa ai piedi. È a favore della marijuana, dell’LSD. È contro la guerra, la guerra è una dannata sporca faccenda, non lo capisci? È a favore di Castro, potrebbe perfino essere comunista se non implicasse troppi dannati problemi esserlo. Comunque sia è con loro in spirito. Gli piace il jazz, naturale. Il jazz, amico, e tutte le sue varianti. See, amico. See, paparino, alla moda. Alla grande. Ci sei, amico. Potrebbe anche avere una chitarra in camera da letto. Ma raramente una donna. Naturalmente, questo succede perlopiù nel gruppo dei beat. I ragazzi delle università sono un po’ più prudenti. È facile anche per loro essere contro la guerra ma la loro politica è più cauta. In effetti tutto è cauto. Ma anche loro corrono dalla massa e chiacchierano, solo in maniera più dignitosa e noiosa. Preferiscono parlare delle proprie poesie piuttosto che leggerle. Possono parlare di poesia per ore, analizzando parole, il santo dizionario per suore, continuando a non dire un bel niente con grande noiosa dignità. Alla massa piace anche questo – credono di ricevere cose profonde e in effetti lo sono: profonde come uno zero al quoto. Sono contro l’ingiustizia inflitta a ogni singolo uomo, ma quando ogni singolo uomo si unisce e diventa massa, che puzza e che urla cose sciocche, a volte ho la sensazione che la Bomba Atomica sia stata l’invenzione più grande dell’uomo. Se non posso allontanarmi dalla massa non saprò mai chi sono loro e chi sono io. Protendo verso il metodo di Jeffers. Dietro a un muro, a intagliare. Se vivi quarantacinque anni e lo conosci puoi scrivere per un migliaio di anni. Qui è dove i vari Dylan e i Ginsberg e i Beatles sbagliano… sprecano così tanto tempo per parlare di “vivere” che non hanno tempo per vivere. Dylan Thomas avrebbe dovuto servire da esempio per quello che la massa americana può fare all’artista. Ma Cristo, no, ci si buttano tutti sopra, seguono l’esempio… come, come, be’, tempo fa lavoravo in un posto e parcheggiavo la macchina lì fuori e guardavo il tizio che chiamavano il Guardiano dei Maiali, e il Guardiano dei Maiali aveva un piccolo frustino ed emetteva grugniti e ne colpiva uno con il frustino e tutti gli altri lo rincorrevano su per la salita e guardavo il Guardiano dei Maiali estrarre una sigaretta e accendersela, con il dannato frustino sotto al braccio. C’è molto da imparare in questa storia. (Michael Perkins, Charles Bukowski: The Angry Poet, “In New York, vol. 1, n. 17, 1967, pp. 15-18, p. 30.)
Dirà molto chiaramente e senza mezzi termini ciò che è buono e ciò che non lo è, e rinuncerà a tutto ciò che apparirà noioso, forzato, inutile: «Per me è diventato molto duro leggere. Leggo le prime righe, arrivo al primo paragrafo e poi non posso più: percepisco falsità». (Douglas Howard, Interview: CB, Grapevine, 1975)
MC: Chi non ti fa sbadigliare?
CB: Nietzsche, Schopenhauer – questa roba è grande, ottima – e il primo libro di Céline e Hamsun e Dylan Thomas. (Marc Chétenier, CB, An Interview, Northwest Review, 1977)
Continua a denigrare l’impegno politico e la sua necessità di umanesimo si fa più forte, scagliandosi anche contro il suo mito di sempre Ernest Hamingway alla Pivano dirà:
FP: Secondo te cosa dovrebbe fare un poeta durante un periodo di rivoluzione?
CB: Bere e scopare, mangiare e cagare, dormire, vestirsi, vivere, stare alla larga dalle pistole e da ideali di massa e dalla storia della massa e trovare qualsiasi piccola verità possa essere trovata in ogni uomo, così quando le verità di massa e ideali e idee si frantumeranno di nuovo allora lui (il poeta) e loro (i gabbati) avranno qualcosa a cui aggrapparsi, invece che alle macerie e al marciume e alle lapidi funerarie e alla slealtà e allo spreco di isteria e di Tempo.
Quando Pivano, incalzandolo sulla questione dello scrittore impegnato, gli chiede di Hemingway, di cui Bukowski ammira tantissimo lo stile, e del suo trattare temi importanti e duri come la guerra, la morte e il coraggio, con quel suo tono che faceva molto “sentirsi uomo”, Hank ribatte: «Hemingway si tenga le sue guerre e il suo coraggio. Io ho altre cose che accadono a me e a tutti quelli intorno a me. Milioni di uomini e donne che impazziscono e vengono assassinati centimetro per centimetro ogni giorno. Quello era il mondo reale. Quella era la morte. Perché capitava a me, lo riconoscevo e troppo spesso qualcuno mi diceva, Bukowski tu sei licenziato».
Bukowski insegue il linguaggio diretto più che mai. Lo fa suo, lo metabolizza, cogliendo indirettamente il consenso di un grandissimo studioso quale sarà sempre Umberto Eco, con l’imperfezione che si fa poesia. Facile e scontato fare poesia con l’ovvio della tradizione, con ciò che un ragazzo di liceo ben preparato replicherebbe alla perfezione oggi: «L’ambiguità delle nostre lingue, la naturale imperfezione dei nostri idiomi, non rappresentano il morbo post babelico dal quale l’umanità deve guarire, bensì la sola opportunità che Dio aveva dato ad Adamo, l’animale parlante. Capire i linguaggi umani, imperfetti e capaci nello stesso tempo di realizzare quella suprema imperfezione che chiamiamo poesia, rappresenta l’unica conclusione di ogni ricerca della perfezione». (Umberto Eco, da A portrait of the artist as a bachelor, in Sulla letteratura).
Bukowski pubblicherà migliaia di poesie e ne avrà altrettante respinte. Molte le perderà o le getterà in preda a un’overdose di materiale. Non si preoccuperà mai di riempire pagine e pagine di letteratura personale e sociale. Capace di grandi slanci mistici e sentimentali, come la poesia che dedicherà a Curson McCullers poetessa che adorava, in barba alle accuse di misoginia troppo unilaterali per parlare chiaramente della sua anima. Frutto di sbrigative conclusioni e sull’onda delle sue continue accuse alle femministe.
Carson McCullers
morì di alcolismo
avvolta nella coperta
di una sedia
a sdraio su un
piroscafo d’oltremare
tutti i suoi libri pieni di
solitudine terrorizzata
tutti i suoi libri sulla
crudeltà
dell’amare senza amore
erano tutto ciò che restava
di lei
mentre il vacanziere a passeggio
scopriva il suo corpo
notificandolo al capitano.
fu spedita
da qualche altra parte
sulla nave
mentre tutto il resto
continuava
senza amore come
aveva sempre scritto.
Oltre alle tante donne, due incontreranno la strada di Bukowski. Ama le donne, di ogni genere, indistintamente. Donne, il suo romanzo, dove dice tutto in un colpo sulle sue donne, quelle incontrate e quelle che lo hanno lasciato, è dichiaratamente ispirato al Decamerone, opera di un altro illuminato gaudente, il nostro Boccaccio. Sull’importanza del Decamerone Bukowski si è dilungato anche in un’intervista del 1981.
«Quest’opera ha influenzato moltissimo Donne. Mi era piaciuta molto la sua idea che il sesso fosse così ridicolo, che nessuno riusciva a tenergli testa. Nella sua opera non c’era tanto sull’amore, ma piuttosto sul sesso. Concludendo, l’amore è ridicolo perché non dura, e il sesso è ridicolo perché non dura abbastanza». (Charles Bukowski, da un’intervista del 1981 citata in Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze, S. Viciani, Feltrinelli, Milano, 2014)
Nella poesia La donna ideale non tralascerà mai la crudeltà della realtà, nascosta dietro la facciata restaurata delle donne incontrate:
Il sogno di un uomo
è una puttana con un dente d’oro
e il reggicalze,
profumata
con ciglia finte
rimmel
orecchini
mutandine rosa
l’alito che sa di salame
tacchi alti
calze con una piccolissima smagliatura
sul polpaccio sinistro,
un po’ grassa,
un po’ sbronza,
un po’ sciocca e un po’ matta
che non racconta barzellette sconce
e ha tre verruche sulla schiena
e finge di apprezzare la musica sinfonica
e che si ferma una settimana
solo una settimana
e lava i piatti e fa da mangiare
e scopa e fa i pompini
e lava il pavimento della cucina
e non mostra le foto dei suoi figli
né parla del marito o ex-marito
di dove è andata a scuola o di dove è nata
o perché l’ultima volta è finita in prigione
o di chi è innamorata,
si ferma solo una settimana
solo una settimana
e fa quello che deve fare
poi se ne va e non torna più indietro
a prendere l’orecchino dimenticato sul comò.
Bukowski deve molto a Linda King, la scultrice che continua a lanciargli il mezzo busto in Donne. È lei a stargli vicino quando si licenzia dalle poste. Quando la conosce, nel 1970, è un’affascinante scultrice di trent’anni che viene dallo Utah, anche lei con una vita movimentata tra depressione e due figli da crescere da sola.
Con lei si separerà nel Maggio del 1972 per poi ricongiungersi nell’Agosto dello stesso anno. Si separerà definitivamente nel 1973.
Incontra la futura moglie Linda Lee Beighle durante una lettura al Troubadour, il 29 Settembre 1976.La sposerà nel 1985. Linda sarà una madre e una donna ideale, incapace di vedere il poeta come un relitto umano. Gli toglierà la bottiglia di mano in alcuni momenti, gli farà conoscere il vino buono, la cucina vegana e sana in generale, lo farà partecipe, sia pure per qualche rara occasione della vita sociale. Episodio eclatante e unico, quando riuscirà a portarlo, con Sean Penn, al concerto degli U2. Comprerà un televisore per lui, che visti i cinquant’anni di astinenza dalla tv, userà come comodino muto. Infine, gli comprerà anche un computer per il Natale del 1990. Un Macintosh della Apple.
L’arma è potentissima, per chi vomita parole, come si sorseggia il vino. Non deve più preoccuparsi degli errori di ortografia. Questo rende la sua scrittura più veloce. Il primo libro che scrive con il Macintosh è l’antologia del 1992: Last Night of the Earth Poems, 159 poesie, una quantità incredibile che supera l’intera produzione di molto poeti. Scrive molto, troppo per alcuni, e anche per qualsiasi poeta che si conosca. Come se avere ancora da dire qualcosa, dopo migliaia di versi sia una colpa nell’ambiente tutto castrato della poesia.
Ovvio che se i poeti, avevano bisogno di sedersi a pensare i propri versi, ad aggiustarli secondo un gusto imposto e mai realmente fluido e ispirato, marchettari fino al midollo nello sviluppo di una poesia alquanto distante dalle realtà, non potessero in alcun modo scrivere come il vecchio Hank. Prendendo il celebre Italico Montale ad esempio uno che ha affermato “pensai presto, e ancora penso, che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato” e che scriveva poesie con un tecnicismo maniacale pur considerandosi e considerato a torto poeta della semplicità. Il suo verso era capriccioso, ricercato, disarmonico come lui stesso lo definisce per totale estraneità alla realtà. Diventa complicato in questa ottica poter scrivere migliaia di poesie senza finire l’ispirazione o peggio senza aver più nulla da dire.
Montale definisce priva di vita l’esperienza umana incapace sopraffatto solo dal “sé stesso” di vedere qualcosa nel vuoto di questa vita, nel nichilismo più che nel nulla. E su questo piano pretende di dettare una regola che appartiene solo a lui. Ai suoi cocchi al suo sentire ameno e sterile.
Nel 1993 Bukowski trascorre 64 giorni in ospedale ricevendo un trattamento chemioterapico per la leucemia, smette di bere e fumare. Frequenta un centro di meditazione trascendentale a Malibu due o tre volte alla settimana per diverse settimane. Sulla via del ritorno dalla maggior parte delle sessioni, lui e Linda si fermano da Gladstone per una cena a base di granchio.
Muore il 9 Marzo 1994. Sepolto nel Green Hills Memorial Park a Rancho Palos Verdes, vicino alla sua casa di San Pedro.
Sulla sua lapida scriverà: «Non provarci»
Nonostante si legga molto anche oggi Bukowski, e soprattutto Ginsberg, e che questi sia riconosciuto come autore indiscusso, in Italia si continua a fare poesia guardando indietro, evitando di fatto di raccontare ciò che siamo, il linguaggio che siamo. In Italia la contestazione non è mai stata vera fucina di rinnovamenti. L’avanguardia, se così si può chiamare, ha segnato più che altro un ritorno a qualcosa di già passato. Mai una nuova forma. La nemesi mancata di un’occasione unica. È mancata la poesia dei poeti non impegnati e quelli impegnati. Che pure abbiamo avuto. Pensiamo a Pavese, che fece conoscere la letteratura americana a Pivano. Con la quale ebbe una storia sentimentale unica, di quegli amori pieni di atmosfere letterarie, di poesie sussurrate. Pavese fu nella sua breve vita decisamente un traghettatore di quella cultura davvero in ogni verso nuova. Ne aveva le capacità e ne aveva le competenze.
Pavese tradusse molta letteratura americana da Moby Dick di Herman Melville a Riso Nero di Anderson. Scrisse un saggio sullo stesso Anderson e, ancora per La Cultura, un articolo sull’Antologia di Spoon River, uno su Melville e uno su O. Henry. E l’influenza si sente poiché risale a questo stesso anno la prima poesia di Lavorare stanca. Nel 1933 tradusse Il 42º parallelo di John Dos Passos e Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce, Uomini e topi di Steinbeck e perfino Faulkner. Come si sia potuto tornare, dopo tutto questo (Pavese muore giovane nel ’50) a quel ritorno all’oscuro non è dato sapere. Se non nella necessità tutta dell’accademia Italiana di giustificare la presenza di tutta una classe intellettuale ancora troppo intorpidita, troppo provinciale. Troppo molle nelle ginocchia. Nei suoi salottini. Il cinema era alle porte, non c’era tempo nella provincia Italica per altro. Una forma di puritano pudore che rende la nostra poesia un fardello inutile, invenduto ancora oggi, capace solo di slanci ideali e magici o di versetti che hanno il gusto delle filastrocche come l’ultimo caso incomprensibile Gio Evan. Un poeta, così dicono le case editrici. Che però stampa magliette con le sue frasi, come un’influencer qualsiasi. E si dimentica Alessandro Cenci. Si dimenticano sempre quelli che in qualche modo a farci caso, hanno tradotto o hanno studiato o hanno letto Walt Withman. Inadatto il poeta italiano nella sua gabbia di regole, a farsi interprete dell’inquietudine e dei tormenti della nostra epoca. A tutti questi basterebbe leggere una delle tante poesia di Bukowski sullo scrivere:
Le parole
Le parole non hanno occhi né gambe,
non hanno bocca né braccia,
non hanno visceri
e spesso nemmeno cuore,
o ne hanno assai poco.
Non puoi chiedere alle parole
di accenderti una sigaretta
ma possono renderti più piacevole
il vino.
E certo non puoi costringere le parole
a fare qualcosa che non
vogliono fare.
Non puoi sovraccaricarle
e non puoi svegliarle
quando decidono di dormire.
A volte
le parole ti tratteranno bene,
a seconda di quel
che gli chiedi
di fare.
Altre volte,
ti tratteranno male,
qualunque cosa
tu gli chieda di fare.
Le parole vanno
e vengono.
Qualche volta ti tocca
di aspettarle a lungo.
Qualche volta non tornano
più indietro.
Qualche volta gli scrittori
si uccidono
quando le parole li lasciano.
Altri scrittori
fingeranno di averle ancora
in pugno
anche se le loro parole
sono già morte e sepolte.
Fanno così
molti scrittori famosi
e molti meno famosi
che sono scrittori soltanto
di nome.
Le parole non sono
per tutti.
E per la maggioranza,
esistono
soltanto per poco.
Le parole sono
uno dei più grandi
miracoli
al mondo,
possono illuminare
o distruggere
menti,
nazioni,
culture.
Le parole sono belle
e pericolose.
Se vengono a trovarti,
te ne accorgerai
e ti sentirai
il più fortunato
della terra. Nient’altro avrà più
importanza
e tutto sembrerà importante.
Ti sentirai
il dio sole,
riderai del tempo che fugge,
ce l’avrai fatta,
lo sentirai
dalle dita
fino alle budella,
e sarai diventato,
finché
dura,
un fottutissimo scrittore
che rende possibile
l’impossibile,
scrivendo parole,
scrivendole,
scrivendole.
Charles Bukowski resta ad oggi il più autobiografico degli scrittori, il più irriverente e avanguardista dei poeti.
Nessuno come lui saprà mai fare poesia senza correre il rischio di cadere nell’autocommiserazione o peggio nell’autocompiacimento. Chi parlerà di essere un giardino, chi si sentirà in qualche modo legato o tradito dalla natura, rinnegando di fatto la sua umana origine. Chi guarderà le stelle parlando come uno stupido a un astro, senza neanche chiedersi se quella stella abbia bisogno di sentirsi altro che non una stella. Ci sono quelli che diranno del proprio male mai dandosene una colpa. E chi si abbandonerà al sogno creandosi una realtà poetica fruibile solo a sé stesso, sia pure col favore di chi si sente colpito dai suoi versi. Ingannevolmente e in contrasto col proprio ego. E chi si rifugia nei ricordi o nella memoria, come conditio sine qua non, di una poesia aulica e meritevole di consensi, come Woolf o Montale stesso o Proust. Cèline dirà di Proust: «Trecento pagine per dire che Tizio incula Caio». Ti scagliano addosso i loro macigni e pretendono pure che tu li accolga come i tuoi fardelli. Come se non bastasse il fatto che ogni vita sia una vita straordinariamente poetica, che meriti di essere raccontata, vissuta, scritta. C’è egoismo nella poesia oggi e le librerie restano vuote e i social abbondano di poesie. C’è qualcosa che sfugge, che non va, qualcosa che forse è tutto celato nell’incredibile falsità del poeta oggi. Il velo di maia è caduto e forse c’è bisogno di qualcosa di nuovo per riprendere il filo e tornare a tessere le emozioni umane. Non mi importa dei fiori, della luna, che in fondo se ne fotte di noi, di che cosa dovremmo scrivere oggi se non di ciò che siamo?
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