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Antonia Pozzi, poesie di una donna, anima lieve e fuggente

 
Delicata interprete dei canti dell’anima, in fugace esistenza Antonia Pozzi levò struggenti e intense odi alla Natura, all’umano cosmo cesellato da passione, amore e dolore, sublimi e dirompenti poesie di femminil/mente poliedrica, civile, anticonformista, sfuggente ed impetuosa nel desiar coglier l’essenza della vita e a lei congiungersi, offrirsi, scoprendosi e denudandosi nella scrittura, il «piacere spirituale» solo ed innato tramite per esprimere il sentire profondo, contemplare i silenzi, le conflittualità e le tensioni interiori, l’ingenito ed immedicabile mal di vivere allorché non compreso e tollerato, mina la mente e ottenebra il cuore sin a tagliar il respiro.

Canto della mia nudità
20 luglio 1929

Guardami: sono nuda. Dall’inquieto
languore della mia capigliatura
alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color d’avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
palpito azzurro sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m’inarco nuda, nel nitore
del bagno bianco e m’inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.

Era martedì 13 febbraio 1912 quando a Milano, Roberto e Carolina Pozzi consacrarono unione suggellata all’altare nel 1911, accogliendo pianto nascente d’esile creatura che sarà loro unica figlia e a cui donarono, il successivo 3 marzo, battesimo nella Basilica di San Babila e nome del babbo materno, Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana (1843-1913), nobile alessandrino consorte di Maria Gramignola (1860-1944) — nipote del Tommaso Grossi (1790-1853) esponente illustre del romanticismo lombardo — discendente d’antica dinastia vogherese e memoria d’impegno a sostegno d’arte e cultura, nonché di pregevole storiografo e bibliofilo, dando alle stampe centinaia di pubblicazioni e costituendo, nella residenza di proprietà a Zelata di Bereguardo, mirabile collezione d’ottantamila volumi contenenti illustrazioni, manoscritti, pergamene, statuti, carte topografiche e geografiche riguardanti un arco temporale esteso dal 1164 al 1904; inestimabile patrimonio nel 1921 acquistato dall’amministratrice del Catalog Department dell’Università dell’Illinois Adah Patton (1932-1960) ed inserito nella Rare Book and Manuscript Library della sede di Urbana-Champaign.

Ricordo di Antonia Pozzi, poetessa che in fugace esistenza, levò struggenti e intense odi alla Natura, all'umano cosmo cesellato da passione, amore e dolore • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.infoAmbiente aristocratico ed intellettualmente trascinante accompagnò dunque la crescita della poeta: Roberto Pozzi (1882-1960), colto e ricercato avvocato, prestigio e facoltà non ebbe in dote da blasonati ascendenti, al contrario guadagnò affrontando asperità e insanabili afflizioni; egli difatti proveniva da una famiglia d’umile estrazione ed appena undicenne, secondogenito di Angelo e Rosa (Pastori), ambedue insegnanti elementari di lavenesi origini, fato volle piangesse la scomparsa del padre, suicidatosi lasciando assieme a lui orfane la sorella maggiore Ida e la minore Emma, novenne, la quale drammaticamente lo emulerà a distanza d’ott’anni. Sopportando siffatti accadimenti, pervenne alla laurea in Giurisprudenza al pavese Collegio Ghislieri e avviò carriera acquistando stima e rinomanza tali da assurger a stato alto borghese, in ultimo consolidato dal matrimonio con Donna Lina (1886-1980), letterata, assidua spettatrice degli eventi in scena alla Scala, abile ricamatrice e al pari del marito, pianista d’impronta classica. Virtù che Antonia Pozzi presto acquisì sfogliando letture «di ogni genere e di ogni autore», studiando francese, inglese, tedesco, allietandosi d’auliche note dei geni eterni, Beethoven, Puccini, Schubert, Wagner, la musica «fonda e trepida come una notte rorida di stelle» danzata e suonata praticando al contempo disegno, scultura e fotografia, elevando a poesia l’immagine in materializzata essenza d’attimi incantati di giocosi e assorti bambini, scorci sospesi di strade e campagne, d’ore lente e delicate di mare, profili d’alberi e di montagne, le «immense donne» e «Madri» ove sfiorando l’infinito di «turbini bianchi e azzurri» s’issava eludendo gracilità in venerazione alpinistica, sbocciata dal trascorrere lunghi periodi nella settecentesca villa dai Pozzi acquistata nel 1918 a Pasturo, centro abitato del lecchese disteso sulle verdi pendici della Grigna Settentrionale: la meraviglia di piante, fiori e animali le si rivelarono innamorandola e la montagna coi suoi segreti divenne tregua, archetipo di resilienza e magnanima musa, assimilandone battiti, colori e profumi per incastonarli in strofe inclusive, dense di trasporto, carità, solitudine, entità funeste, partiture di parole «dure come sassi» oppure «vestite di veli bianchi strappati».

A volte mi sembra che l’unica possibilità di vita, per me, stia lì; l’unica possibilità morale, intendo; perché sarebbe uno sforzo di volontà continuo, lo sforzo più grande ch’io possa fare: vincere il peso inerte delle parole inanimate, farle vive. (Lettera a Paolo Treves, 9 settembre 1933)


Lampi
23 giugno 1929

Stanotte un sussultante cielo
malato di nuvole nere
acuisce a sprazzi vividi
il mio desiderio insonne
e lo fa duro e lucente
come una lama d’acciaio.


Canto selvaggio
17 luglio 1929

Ho gridato di gioia, nel tramonto.
Cercavo i ciclamini fra i rovai:
ero salita ai piedi di una roccia
gonfia e rugosa, rotta di cespugli.
Sul prato crivellato di macigni,
sul capo biondo delle margherite,
sui miei capelli, sul mio collo nudo,
dal cielo alto si sfaldava il vento.
Ho gridato di gioia, nel discendere.
Ho adorato la forza irta e selvaggia
che fa le mie ginocchia avide al balzo;
la forza ignota e vergine, che tende
me come un arco nella corsa certa.
Tutta la via sapeva di ciclamini;
i prati illanguidivano nell’ombra,
frementi ancora di carezze d’oro.
Lontano, in un triangolo di verde,
il sole s’attardava. Avrei voluto
scattare, in uno slancio, a quella luce;
e sdraiarmi nel sole, e denudarmi,
perché il morente dio s’abbeverasse
del mio sangue. Poi restare, a notte,
stesa nel prato, con le vene vuote:
le stelle – a lapidare imbestialite
la mia carne disseccata, morta.


Novembre
29 ottobre 1930

E poi – se accadrà ch’io me ne vada –
resterà qualche cosa
di me
nel mio mondo –
resterà un’esile scia di silenzio
in mezzo alle voci –
un tenue fiato di bianco
in cuore all’azzurro –

Ed una sera di novembre
una bambina gracile
all’angolo d’una strada
venderà tanti crisantemi
e ci saranno le stelle
gelide verdi remote –
Qualcuno piangerà
chissà dove – chissà dove –
Qualcuno cercherà i crisantemi
per me
nel mondo
quando accadrà che senza ritorno
io me ne debba andare.


Presagio
15 novembre 1930

Esita l’ultima luce
fra le dita congiunte dei pioppi –
l’ombra trema di freddo e d’attesa
dietro di noi
e lenta muove intorno le braccia
per farci più soli –

Cade l’ultima luce
sulle chiome dei tigli –
in cielo le dita dei pioppi
s’inanellano di stelle –

Qualcosa dal cielo discende
verso l’ombra che trema –
qualcosa passa
nella tenebra nostra
come un biancore –
forse qualcosa che ancora
non è –
forse qualcuno che sarà
domani –
forse una creatura
del nostro pianto –


Prati
31 dicembre 1931

Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l’abbaglio estremo
dei tuoi occhi malati –
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.

Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.


Grido
10 febbraio 1932

Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono –
essere senza ieri
essere senza domani
ed accecarsi nel nulla –
– aiuto –
per la miseria
che non ha fine –


La grangia
12 settembre 1933

Concentrica una frangia
d’erbe recise
circonda la grangia –
pare che voglia
rispecchiare in terra
il cerchio di cime
che serra
il cielo –

Presso la nera soglia
due bambine
guardano un bricco di latte –
una ride –

La montagna – davanti a loro
nella quieta sera –
sembra un grand’angelo
con chiuse le ali
e il viso nascosto in preghiera –


Morte delle stelle
13 settembre 1933

Montagne – angeli tristi
che nell’ora del crepuscolo
mute piangete
l’angelo delle stelle – scomparso
tra nuvole oscure –

arcane fioriture
stanotte
nei baratri nasceranno –

oh – sia
nei fiori dei monti
il sepolcro
degli astri spenti –

 

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Antonia Pozzi in Valtoggia, 1936

 

Notte e alba sulla montagna
1° ottobre 1933

Ascesa lenta
nel chiarore lunare,
mentre il sonno degli uomini ed i lumi
delle strade deserte
stagnano nelle valli –

ascesa – per i prati
vestiti
di seta bianca –
e gli alberi,
draghi neri
con occhi di luce
nelle paurose creste –

attonito ruscello, il sentiero
per trecce di ghiaia conduce
alla sua fonte
sul volto
della montagna dormente,
alla fronte
dove crescono le più fini erbe,
arsi capelli
e dalle sigillate pupille
un tremito
sulla vetta
nasce –

Ora lenta una stella s’invola
e già rapida trae
a sé in fondo al cielo lo stormo
delle sorelle:
muti sull’orma spenta
ricadono i battenti celesti
dell’alba –
Ora guance di lontani monti
fra le nebbie si volgono
nel risveglio, al primo
rossore –
Già escono dai campanili le voci
delle nuove campane:
a groppa a groppa,
urtandosi, salgono –
gregge in cerca del sole –


Bontà inesausta
1° ottobre 1933

Chi ti dice
bontà
della mia montagna? –
così bianca
sui boschi già biondi
d’autunno –

e qui nebbie leggere alitano
in cui sospesa
è la luce dei regnateli –
della rugiada
sulle foglie morte –

mentre il terriccio accoglie
petali stanchi di ciclamini
e crochi, velati
di uno stesso pallore
roseo –

tu sana, venata di sole,
porti sul grembo
il cielo tutto azzurro –
chiami voli d’uccelli
alle tue mani
colme di vento –

Bontà
a cui beve il suo canto
il cuore
e di cantare non può più finire –
perché sei la sorgente che rifà
il sorso bevuto
ed il suo fondo
non si tocca mai.


Nel 1922, ricevuta educazione all’Istituto Tommaseo delle Suore Marcelline e alla Scuola Ruffini, proseguì preparazione al Liceo Ginnasio Manzoni, auspice dell’amicizia di Alba Binda (1912-1997) e del sororale legame con Elvira Gandini (1908-2005) e Lucia Bozzi (1908-2011), fortuitamente incrociate recandosi per studio nelle sale della Biblioteca Braidense nel 1927, mentre penna cristallizzava in pagine d’adolescente diario, consapevoli riflessioni sul disagio custodito, dal tagliente e precoce timore del tempo che «scivola, dilegua, scompare», all’impossibilità d’adeguarsi in illuminazioni dei trasalimenti d’un’anima «palpitante, ridente, nostalgica, appassionata» motivo d’un bearsi e dolere «in una giornata, ciò che apparentemente si può soffrire e godere in tutta un’esistenza» e altrettanto la presagente propensione a rimpiangere il passato, adorare il presente e malvolere il domani: «perché sono contenta di esser io, con i miei difetti e con le mie poche virtù, perché non so se in avvenire potrò ancora essere così». Al tramonto del decennio, a rapirne l’attenzione da infuocarne la fin ad allora timida arte poetica, la figura del docente di latino e greco Antonio Maria Cervi, insigne classicista autore de Introduzione all’Estetica neoplatonica, di cui colse, affascinata, la vasta dottrina, la gentile moralità, la severa e generosa accortezza rivolta agli studenti, sovente esortati ad ampliar sapere profondendo libri. Un uomo, in missiva datata 21 agosto 1928, così ritratto alla nonna, «spalla» e «consigliera», Maria Gramignola: «Una gran fiamma dietro a una grata di nervi, un’anima purissima anelante a sempre maggior purezza, destinata purtroppo a inaridirsi sola, in una sete inesauribile di sapere, di perfezione, di luce; uno studioso dalla cultura sterminata, dalla memoria prodigiosa, dalla volontà ferrea che gli faceva passare la vita nelle penombre delle biblioteche, chino sulle più ardue pagine di filosofia; un insegnante tutto ardore ed entusiasmo per la scuola, tutto affetto fraterno per gli scolari; un povero figliolo che, a vent’anni, si è veduto morire sul Grappa il fratello maggiore». Ammirazione non tardò a destarsi avvivata dai fremiti del cuore e medesimo sentimento, sopravvenendo agli indugi dovuti al rispetto dei ruoli e alla differenza d’età, diciott’anni, in magnetica affinità fiorì nell’austero professore, volto dell’iniziali impresse sulle prime liriche e solcato d’amare sfumature del muto patire quella perdita del fratello Annunzio, il «monello sardo» rimatore e patriota caduto ventiseienne durante le fasi conclusive della Grande Guerra, un’assenza da Antonia Pozzi avvertita e nel voler essere sposa e madre, desiderato colmare. Ad attenderla però, l’inaspettata e frustrante costrizione a tener coll’amato contatto praticamente epistolare dacché nel 1928 trasferito a Roma, dapprincipio al Liceo Terenzio Mamiani poi al Torquato Tasso, ma soprattutto, l’inclemente idiosincrasia per la relazione dell’avvocato, prigioniero d’un tale vortice d’ambizione, protezione e orgoglio da rendergli inammissibile ammettere divario generazional-sociale ed opportuno mitigare il temperamento della figlia pur senza osteggiarne i propositi — instando quanto sostanzialmente ad ella suggerirà l’attorniante intellighenzia, sottovalutandone indole e poetica, ignorando/ravvisando in essa l’audacia d’una donna emancipata, scevra di convenzioni ed in congiunzione d’istanza razionale e sensibilità, alla perpetua ricerca facendo d’inchiostro scandaglio e raffinata voce d’emotività, incapace di cedere a qualsivoglia arginamento ancorché sapendo irrealizzabile l’affrancamento dall’impreparazione all’ascolto, d’un mondo che ne valuta incontrollata l’affettività trascurandone la fonte, la «ferita attraverso cui la [sua] personalità vorrebbe sgorgare per donarsi».


Funerale senza tristezza
3 dicembre 1934

Questo non è esser morti,
questo è tornare
al paese, alla culla:
chiaro è il giorno
come il sorriso di una madre
che aspettava.
Campi brinati, alberi d’argento, crisantemi
biondi: le bimbe
vestite di bianco,
col velo color della brina,
la voce colore dell’acqua
ancora viva
fra terrose prode.
Le fiammelle dei ceri, naufragate
nello splendore del mattino,
dicono quel che sia
questo vanire
delle terrene cose
– dolce –,
questo tornare degli umani,
per aerei ponti
di cielo,
per candide creste di monti
sognati,
all’altra riva, ai prati
del sole.


Bellezza
4 dicembre 1934

Ti do me stessa,
le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle – bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote.

Ti do me stessa,
il sole vergine dei miei mattini
su favolose rive
tra superstiti colonne
e ulivi e spighe.

Ti do me stessa,
i meriggi
sul ciglio delle cascate,
i tramonti
ai piedi delle statue, sulle colline,
fra tronchi di cipressi animati
di nidi –

E tu accogli la mia meraviglia
di creatura,
il mio tremito di stelo
vivo nel cerchio
degli orizzonti,
piegato al vento
limpido – della bellezza:
e tu lascia ch’io guardi questi occhi
che Dio ti ha dati,
così densi di cielo –
profondi come secoli di luce
inabissati al di là
delle vette –


Lieve offerta
5 dicembre 1934 

Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera
come le estreme foglie
dei pioppi, che s’accendono di sole
in cima ai tronchi fasciati
di nebbia –

Vorrei condurti con le mie parole
per un deserto viale, segnato
d’esili ombre –
fino a una valle d’erboso silenzio,
al lago –
ove tinnisce per un fiato d’aria
il canneto
e le libellule si trastullano
con l’acqua non profonda –

Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera,
che la mia poesia ti fosse un ponte,
sottile e saldo,
bianco –
sulle oscure voragini
della terra.


Ottenuto il diploma, nel 1930 intraprese cammino nella Facoltà di Lettere e Filosofia della meneghina Regia Università degli Studi, confrontandosi con le personalità di Vincenzo Errante (1890-1951), Giovanni Emanuele Barié (1894-1956), Piero Martinetti (1872-1943), capostipite della Scuola di Milano e nel nucleo dei diciotto su oltre milleduecento a negarsi al giuramento di fedeltà al Regime fascista imposto nel ’31 agli accademici, soggiacendo a collocamento a riposo d’autorità previsto in caso di rifiuto ed analoga ripercussione avrebbe dovuto sostenere Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), già autore di Rubè, Poesie, Resurrezione e titolare della cattedra di Estetica, riferimento per «quel gruppo di giovani che intendevano la letteratura e la critica come un campo speciale dell’attività politica in Italia», qualora si fosse sottratto a solenne voto rientrando dagli Stati Uniti, ove al momento dell’emanazione del provvedimento stava svolgendo incarico di professore in visita alla California University di Berkeley, principalmente assunto a conseguenza del persistente ed intimidatorio ostruzionismo esercitato da componenti dei GUF ed epilogo, il pestaggio dei suoi studenti Guido Morpurgo-Tagliabue (1907-1997) e Paolo Treves (1908-1958) — firma delle parole accentate dai caporali — sicché in coerenza coi propri princìpi, oltreoceano si trattenne e ricostruì insegnando a Northampton, Chicago, legittimando posizione politica pubblicando la disamina Goliath, the March of Fascism ed entrando nel comitato direttivo dell’organizzazione Mazzini Society, fondata nel ’39 coll’obiettivo di difendere i valori democratici e liberali, sollecitare ed orientare la collettività sul frangente italiano, sovvenzionare gli esuli raccogliendo fondi ed incentivando eventi culturali. Ruolo fu assegnato ad Antonio Banfi (1886-1957), discepolo di Martinetti e fautore di un problematicismo fondato sull’esigenza di riedificare il pensiero alla luce di una razionalità antidogmatica e pluralistica, incoraggiava i discenti a soddisfare in disciplinata autonomia la precipua vocazione e così ad «aprire orizzonti nuovi alla verità» e ricacciando «falsità e menzogne retoriche, a raggiungere il contatto con un aspetto della vita, a riscoprire in esso sé stesso».
 

Ricordo di Antonia Pozzi, poetessa che in fugace esistenza, levò struggenti e intense odi alla Natura, all'umano cosmo cesellato da passione, amore e dolore • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info

In alto da sinistra: Vittorio Sereni, Antonia Pozzi, Remo Cantoni, Alberto Mondadori ed Enzo Paci. In basso da sinistra: Ottavia Abate, Elisa Buzzoni, Clelia Abate e Antonio Banfi, 1935


 
Oltre ad Antonia Pozzi, altresì concentrata in Letteratura tedesca e Filosofia Teoretica, a lezione adunava Nino Rota (1911-1979), Luciano Anceschi (1911-1995), Enzo Paci (1911-1976), Luigi Rognoni (1913-1986), Vittorio Sereni (1913-1983), Daria Menicanti (1914-1995), Dino Formaggio (1914-2008), Maria Corti (1915-2002), Alberto Mondadori (1914-1976) e il cugino Mario Monicelli (1915-2010) in veste d’uditori al seguito di Remo Cantoni (1914-1978), un dedalo di menti radiose in cui la poetessa entrò in armonia stringendo relazioni amicali ed affettive, in aggiunta alla comunione con Piero Treves (1911-1992) e il succitato Paolo, presumibilmente germogliata attraverso Bozzi e Gandini, allieve di Borgese, estendendosi a stima autentica nei confronti della madre Olga Levi (1877-1945) — erede di facoltosa famiglia ebraica veneziana — e ad adito al contesto antifascista di Alessandro Casati (1881-1955), sebbene i fratelli, sulle orme del padre Claudio (1869-1933), protagonista del socialismo riformista emigrato in Francia alla promulgazione delle leggi eccezionali del ’26, sottoposti a costante controllo a ragione dell’aperta militanza, evitavano di coinvolgerla eccessivamente in volontà avvalorata dalle aderenze col regime di Roberto Pozzi, dal ’35 al ’42 Podestà di Pasturo. Da Milano e dall’Anceschi dipinta «singolare generazione» trovatasi «con qualche frutto a discorrere e a studiare», nell’estate però si separò spendendo stagione nel Regno Unito in soggiorni consumati a Kingston, Londra e Repton, scoprendo il tramutarsi del «senso divino» da «estetismo» a «calma suprema» da renderle «blando il soffrire, trasognato il cammino e chiara e amica la morte», nell’esperienza della lontananza e solitario permanere nel «paese delle nebbie» persuasa ad accrescere padronanza dell’inglese dal padre, verosimilmente ansioso di farle dimenticare l’inviso Cervi, giacché intanto presentatosi chiedendone la mano null’altro ricavando se non reciso diniego ed aspra ingiunzione di abbandonarla. Estenuato e nell’aspirazioni avvilito, nella capitale britannica la raggiunse in furtivo abbraccio e a lungo mantennero speranze resistendo ad una sorte impietosa e avara di simili istanti, effimeri incroci di promesse infine disattese nel 1933 di fronte all’astiosità dell’avvocato, esacerbato al punto d’annunciare sfide a duello e della «vita sognata» rimasero versi spezzati in pagine di romantica tragedia, afflati d’amore tradito e inesorabilmente disanimato dall’incomprensione sin a desistere rassegnandosi ad arder incompiuto, nel mai spentosi accoramento d’entrambi, amputati l’uno dell’altra.

Penso anche a te, lontanissimo e dolce, che non avevi corpo e mi baciavi così puro: ala bianca dell’adolescenza.


Crepuscolo
gennaio 1933

Le crode non hanno più rose:
il sole le ha tutte portate
con sé
nel suo morire.

Anima, del tuo sfiorire
perché ti duole?

Lo stesso tuo pallore
è sulla fronte
d’ogni montagna,
lo stesso tuo desio
d’assopimento.

Vedi le grandi cime
come si sbiancano:
gli immensi volti
come distendono
sul dolore degli occhi
le palpebre
e giacciono puri,
protesi
a una carezza stellare.

O non attendi anche tu
per la tua vita
che si scolora
il bagliore supremo?


Sonno
16 gennaio 1933

O vita,
perché
nel tuo viaggio mi porti
ancora,
perché
il mio pesante sonno
trascini?

Io so
che le più pure fontane
per tutta la terra sfacendosi
non renderanno
alla neve bruttata
il biancore.

Né l’alba farà
con stanca magia
rifiorire
tra case nere
le mimose morte.

Ma sola
al gelo notturno
tremerà
la fioraia
presso il vano donarsi
della fontana.

O vita,
perché
non ti pesa
questo mio disperato
sonno?


Il porto
20 febbraio 1933

Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata
dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata
dagli uragani –

io vengo da mari lontani
e carica d’innumeri cose
disfatte
di frutti strani
corrotti
di sete vermiglie
spaccate –
stremate
le braccia lucenti dei mozzi
e sradicate le antenne
spente le vele
ammollite le corde
fracidi
gli assi dei ponti –

io sono una nave
una nave che porta
in sé l’orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo.
Risogna la nave ferita
il primissimo porto –
che vale
se sopra la scia
del suo viaggio
ricade
l’ondata sfinita?

Oh, il cuore ben sa
la sua scia
ritrovare
dentro tutte le onde!
Oh, il cuore ben sa
ritornare
al suo lido!

O tu, lido eterno –
tu, nido
ultimo della mia anima migrante –
o tu, terra –
tu, patria –
tu, radice profonda
del mio cammino sulle acque –
o tu, quiete
della mia errabonda
pena –
oh, accoglimi tu
fra i tuoi moli –
tu, porto –
e in te sia il cadere
d’ogni carico morto –
nel tuo grembo il calare
lento dell’ancora –
nel tuo cuore il sognare
di una sera velata –
quando per troppa vecchiezza
per troppa stanchezza
naufragherà
nelle tue mute
acque
la greve nave
sfasciata –


Santa Maria in Cosmedin
8 aprile 1933

O dolce e pallido il tuo altare
Santa Maria in Cosmedin
sotto la rossa terra
ed i neri cipressi
del Palatino –
piccola chiesa nata
per infiorarsi
all’alba
di serenelle bianche –
nata per le nozze
dell’anima
o per le esequie di un bimbo…

Custodisci ora tu
nella penombra cerea
dei tuoi marmi
questo bambino morto ch’io reco –
questo povero
sogno –

consacramelo tu
sul tuo
altare –


Così sia
9 aprile 1933

Poi che anch’io sono caduta
Signore
dinnanzi a una soglia –

come il pellegrino
che ha finito il suo pane, la sua acqua, i suoi
sandali
e gli occhi gli si oscurano
e il respiro gli strugge
l’estrema vita
e la strada lo vuole
lì disteso
lì morto
prima che abbia toccato
la pietra del Sepolcro –

poi che anch’io sono caduta
Signore
e sto qui infitta
sulla mia strada
come sulla croce

oh, concedimi Tu
questa sera
dal fondo della Tua
immensità notturna –
come al cadavere del pellegrino –
la pietà
delle stelle.


Lamentazione
6 maggio 1933

Che cosa mi ha dato
Signore
in cambio
di quel che ti ho offerto?
del cuore aperto
come un frutto –
vuotato
del suo seme più puro –
gettato
sugli scogli
come una conchiglia inutile
poi che la perla è stata
rubata –

che cosa mi hai dato
in cambio
della mia perla perfetta
diletta?
quella che scelsi
dal monile più splendente
come sceglievano i pastori
antichi
nel gregge folto
l’agnello più lanoso più robusto più bianco
e l’immolavano
sopra il duro altare?

Che cosa hai fatto tu
se non legarmi
a questo altare
come ad una eterna
tortura? –

Ed io ti ho dato
la mia creatura
unica
la mia ansia materna
inappagata
il sogno
della mia creatura non creata
il suo piccolo viso senza
fattezze
la sua piccola mano senza
peso –
Sulle rovine della mia casa non nata
ho sparso
cenere e sale –

E tu
che cosa mi hai dato
in cambio
della mia dolce casa
immacolata?
se non questo deserto
Signore
e questa sabbia che grava
le mie mani di carne
e m’intorbida gli occhi
e m’insudicia le piaghe
e m’infossa
l’anima –

O non ci sono più nembi
nel tuo cielo
Signore
perché si lavi
in uno scroscio
tutta questa
miseria?


Inizio della morte
28 agosto 1933

Quando ti diedi
le mie immagini di bimba
mi fosti grato: dicevi che era
come se io volessi
ricominciare la vita
per donartela intera.

Ora nessuno più
trae dall’ombra
la piccola lieve
persona che fu
in una breve
alba – la Pupa bambina:

ora nessuno si china
alla sponda
della mia culla obliata –

Anima –
e tu sei entrata
sulla strada del morire.


Maternità
24 ottobre 1933

Pensavo di tenerlo in me, prima
che nascesse,
guardando il cielo, le erbe, i voli
delle cose leggere,
il sole –
perché tutto il sole
scendesse in lui.

Pensavo di tenerlo in me, cercando
d’essere buona –
buona –
perché ogni bontà
fatta sorriso
crescesse in lui.

Pensavo di tenerlo in me, parlando
spesso con Dio –
perché Dio lo guardasse
e noi fossimo
redenti in lui.


Il bimbo nel viale
25 ottobre 1933

Da quando io dissi – Il bimbo
avrà il nome del tuo fratello morto –

– era una sera d’ottobre, buia,
sotto grandi alberi, senza
vederci in viso –

egli fu vivo. E quando
nel viale sostavamo – ai nostri piedi
quieto giocava
con la ghiaia e gli insetti e le lievi
foglie cadute.

Per questo – lenti
erano i nostri passi e dolci –
così dolci – gli occhi
quando sul ciglio erboso
scorgevamo una margheritina
e sapevamo che un bimbo – sporgendo
appena il suo piccolo braccio –
può coglierla e non calpesta il prato.


Sospiri d’elegiaca rinuncia effuse in versi e laceramento d’interiore «giardino di fiori morti, d’alberi uccisi» da creder «sia giunto il crepuscolo estremo», confessò in lettera al trentino Tullio Gadenz (1910-1945), scrittore e visionario osservatore d’un’Europa «in uno stato di profondo turbamento» e perciò, «scopo della Società delle Nazioni», abbisognevole «di pace politica e di collaborazione economica», nel frattempo conosciuto a San Martino di Castrozza ed in delicato scambio epistolare germogliato da lirica intesa, testimone confidente di una religiosità peculiare e segnatamente, della sacralità in Antonia Pozzi dell’agito poetico: «Ha questo compito sublime di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della vita. Quando tutto, ove siamo, è buio ed ogni cosa duole e l’anima penosamente sfiorisce, allora veramente ci sembra che ci sia donato da Dio chi sa sciogliere in canto il nodo delle lacrime e sa dire quello che a noi grida, imprigionato, nel cuore. Per chi ai suoi giorni non vede più che un colore di tramonto e sente, attraverso il suo cielo, salire l’estremo pallore, per chi ancora beve, con occhi allucinati, l’incanto delle cose, ma non sa, non può (perché è troppo tardi – perché non c’è più forza – perché tutto è stato bruciato, fino all’ultima stilla) tradurlo più in parole […] Perché non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per una adesione innata, irrevocabile, del più profondo essere, io credo, Tullio, alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del sangue. Io so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore. Perché per me Dio è e non può essere altro che un Infinito, il quale, per essere perennemente vivo e quindi più Infinito, si concreta incessantemente entro forme determinate che ad ogni attimo si spezzano per l’urgere del fluire divino e ad ogni attimo si riplasmano per esprimere e concretare quella Vita che, inespressa, si annienterebbe. Ora Lei vede che un Dio cosi non si può né chiamare né pregare né porre lungi da noi per adorarLo; Lo si può soltanto vivere nel profondo, poi che è Lui l’occhio che ci fa vedere, la voce che ci fa cantare, l’amore, ed il dolore che ci fa insonni. E questa nostra vita irrimediabile, questo nostro cammino fatale, in cui ad ogni istante noi realizziamo, noi creiamo, per così dire, Dio nel nostro cuore, altro non può essere che l’attesa del gran giorno in cui l’involucro si spezzerà e la scintilla divina balzerà nuovamente in seno alla grande Fiamma. Ora, di questo Dio che non si lascia staccare dalla vita, dove possiamo avere più immediato il senso che nei momenti in cui più la lotta si acuisce tra lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire? E non è la poesia uno di questi momenti? L’estasiata gioia del sogno non si sconta forse nel bisogno e nella fatica di gettare quel sogno in parole? e un po’ dell’assolutezza divina non riluce forse nell’atto di quella fatica? Io credo che il nostro compito, mentre attendiamo di tornare a Dio, sia proprio questo: di scoprire quanto più possiamo Dio in questa vita, di crearLo, di farLo balzare lucendo dall’urto delle nostre anime con le cose (poesia e dolore), dal contatto delle nostre anime fra di loro (carità e fraternità)». (Antonia Pozzi, Tullio Gadenz, Epistolario 1933-1938)
 

Ricordo di Antonia Pozzi, poetessa che in fugace esistenza, levò struggenti e intense odi alla Natura, all'umano cosmo cesellato da passione, amore e dolore • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
Antonia Pozzi, Casorate Sempione, 1937

 


Preghiera alla poesia
23 agosto 1934

Ricordo di Antonia Pozzi, poetessa che in fugace esistenza, levò struggenti e intense odi alla Natura, all'umano cosmo cesellato da passione, amore e dolore • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info

Oh, tu bene mi pesi
l’anima, poesia:
tu sai se io manco e mi perdo,
tu che allora ti neghi
e taci.

Poesia, mi confesso con te
che sei la mia voce profonda:
tu lo sai,
tu lo sai che ho tradito,
ho camminato sul prato d’oro
che fu mio cuore,
ho rotto l’erba,
rovinata la terra –
poesia – quella terra
dove tu mi dicesti il più dolce
di tutti i tuoi canti,
dove un mattino per la prima volta
vidi volar nel sereno l’allodola
e con gli occhi cercai di salire –
Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,
poesia che mi guardi.


Rinascere
24 ottobre-8 novembre 1934

I

Devi essere solo la mia
gioia:
di là
dalla mia carne greve,
lungi anche
dal cimitero muto fra le rocce, la neve,
dov’è
il mio amore sepolto.

Chiuse
tante vite.

E tu sei nuovo,
al sole, sulla terra
smossa –
come un seme che forse
non si vuole che germogli –
ma così basta
a nutrire un uccello.

Uccello lieve
il mio cuore
ed ogni tuo sguardo
un suo volo profondo
in un remoto tempo
azzurro –
solo la mia
gioia
e rinascere in te.

II

Rinascere – non sai:
una sera
che tutte le lampade sembrano
infrante
e le mani sono un lungo peso
– il senso delle cose toccate
nessuno ti cancellerà più
dalle dita –
una sera
viene il vento,
con la veste piena di stelle,
di foglie rubate all’autunno,
di uccelli salvati –
e te li libera sul viso,
dice:
– Vola via,
tu sei nuova,
io ti porto –

«Tu sei nuova»: ti accendi nella notte
come dall’ansito di antiche vigilie,
come all’origine dei giorni,
sull’informe sonno
un albore –

Rinascere – non sai:
come la prima carezza vergine
della luce
sul volto di una terra cieca –
e nelle grotte il destarsi dei pastori,
il dolce moto
del gregge che si svincola dall’ombra,
ch’esce –
con i suoi agnelli nati
nell’ultima notte,
con i suoi campani
lavati all’ansa
del fiume –


Nella primavera del 1934 il sol carnale addio Antonia Pozzi portò con sé in vagabondaggio pel Mediterraneo, navigando da Siracusa ad Atene, da Rodi a Tripoli e nei susseguenti mesi ed anni peregrinò in Veneto, Lazio, Campania, all’estero nella fu Cecoslovacchia, Svizzera, Francia, in Austria e Germania dimorando a Gmunden e Berlino al fine d’approfondire la conoscenza della letteratura tedesca e impadronirsi d’un linguaggio, verso cui sedotta predilezione era scoccata nell’insegnamento di Vincenzo Errante, tra i primi a gratificarne le liriche definendole «d’immacolata bellezza» e mediante il quale rimase avvinta dal praghese Rainer Maria Rilke (1875-1926), allogandone le opere nella personale e vasta biblioteca accanto a Walt Whitman (1819-1892), ai maestri del simbolismo Étienne Mallarmé (1842-1898), Arthur Rimbaud (1854-1891), Émile Verhaeren (1855-1916), dell’ermetismo italiano Giuseppe Ungaretti (1888-1970), Salvatore Quasimodo (1901-1968), l’Eugenio Montale (1896-1981) estro della «disarmonia con la realtà», il prediletto Luigi Pirandello (1867-1936), Gabriele D’Annunzio (1863-1938), Umberto Saba (1883-1957), Ada Negri (1870-1945), Eurialo De Michelis (1904-1990) contatto epistolare di Borgese e Sereni, gli scrittori della formazione Fëdor Dostoevskij (1821-1881), Robert Musil (1880-1942), Marie-Henri Beyle (1783-1842) e poi Thomas Mann (1875-1955), specchiandosi nell’analisi dell’antitesi e della diversità, a partir dall’individuale e dunque molteplice capacità percettiva, dall’autore esplicata nel 1903 con il racconto dalle connotazioni autobiografiche di Tonio Kröger, protagonista d’un dissidio di classe borghese di provenienza e trasporto artistico, derivatogli dal confronto di un padre autoritario appartenente al patriziato tedesco con l’«impulsiva leggerezza» d’una madre musicista e di «indefinito sangue esotico», delineando illusorio compromesso sfaldato nella presa d’atto decisiva d’inevitabile inconciliabilità.

Io adesso come Tonio Kröger nella tempesta, sono appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole. Forse — chissà — l’età delle parole è finita.

Identificazione e disamina del per lei inscindibile intreccio di spirito/arte e vita, trattato già con Borgese, indagò ancora meditando sulla prerogativa del processo creativo di completarsi evolvendo dalle viscere del tutto, sin ad assurgere a un livello superiore con lo sviluppo delle stesse in una coesistenza d’influssi esterni ed intimi tumulti, esplorando in tesi di laurea la parabola umana e letteraria di Gustave Flaubert (1821-1880), precursore del Naturalismo francese pel quale al pari della Pozzi, scrittura fu ragion d’essere e il 19 novembre 1935, il relatore Antonio Banfi, seppur nel novero di coloro che ne avevano scoraggiato il sorgere poetico, estimatore dell’allieva dagli «occhi limpidi, tremanti, chiari, come le sue speranze e i suoi sogni», individuando «la partecipazione commossa, la freschezza dell’intuizione immediata, l’astrattezza vibrante dell’idea, e sopra tutto quell’atmosfera di limpidità e semplicità spirituale» infuse in un lavoro «non solo d’intelligenza, ma di amore», ne premiò la fatica aggiungendo a lode profferta di pubblicare dissertazione e attestato di stima dimostrò nuovamente ad aprile del ’38, facendole tenere due seminari su Aldous Huxley (1894-1963), in parte editi, sotto esplicito titolo Eyeless in Gaza, dal «caro fratello» Vittorio Sereni, assistente alla cattedra e promotore dell’iniziativa, sulla rivista fondata e diretta da Ernesto Treccani (1920-2009), Vita Giovanile, prossima a divenire Corrente ed epicentro dell’omonimo movimento artistico-culturale antifascista sorto in opposizione al neoclassicismo succedente le avanguardie d’inizio secolo.

Sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po’ d’acqua ferma per un attimo sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora. Vivo come se un torrente mi attraversasse; tutto ha un senso di così immediata fine, e è sogno che sa d’esser sogno, eppure mi strappa con così violente braccia via dalla realtà. Sempre così smisuratamente perduta ai margini della vita reale: difficilmente la vita reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c’è di meno banale in me. (Lettera a Remo Cantoni, 19 giugno 1935)


Africa
28 gennaio 1935

Terra,
sei di chi affonda
nella sabbia le mani,
in un’esigua conca
pianta un ulivo.

Non hai strade: misuri
il tempo del cammino
con la distanza dei pozzi,
cippi sono
le bianche tombe dei tuoi santi
nel deserto.

Non hai baratri: proteso
è il tuo colore biondo
senza confini.
Abbeverate di cammelli chiamano
lembi di cielo
sul tuo volto scoperto.

Cielo
che dilati le stelle,
vento – che imbianchi
d’eucalipti le sere,

o terra,
cielo vento –
libertà
di sogni.


Radici
15 febbraio 1935

Gronda di neve disciolta
la casa. Trasale
l’anima al tonfo delle gocce fitte.

Così sfacendosi
dolorano le cose.

Ma lontano,
oltre i veli del sole e gli insicuri riflessi,
oltre il trascolorare delle ore,
vive un esiguo mondo
d’erba e di terra.

Radici
profonde nel grembo di un monte
a Primavera votate
si celano.

E conosco
io sola
il nome d’ogni fiore
che fiorirà,
la luce ed il pezzo di zolla
in cui prima riappaia la tenera
esistenza delle foglie.

Radici
profonde nel grembo di un monte
conservano un sepolto segreto
di origini –
e quello per cui mi riapro
stelo
di pallide certezze.


Un destino
13 febbraio 1935

Lumi e capanne
ai bivi
chiamarono i compagni.
A te resta
questa che il vento ti disvela
pallida strada nella notte:
alla tua sete
la precipite acqua dei torrenti,
alla persona stanca
l’erba dei pascoli che si rinnova
nello spazio di un sonno.
In un suo fuoco assorto
ciascuno degli umani
ad un’unica vita si abbandona.
Ma sul lento
tuo andar di fiume che non trova foce,
l’argenteo lume di infinite
vite – delle libere stelle
ora trema:
e se nessuna porta
s’apre alla tua fatica,
se ridato
t’è ad ogni passo il peso del tuo volto,
se è tua
questa che è più di un dolore
gioia di continuare sola
nel limpido deserto dei tuoi monti
ora accetti
d’esser poeta.


Ora intatta
17 maggio 1935

Al carcere di pioggia apre i battenti
questa mia fronte grigia
e s’affaccia al colore della terra:
nasce un gorgo di vento celeste.

Ombre di uccelli vedo
sui tegoli svariare,
fuggendo.

Nuovo,
come voce di donna mattutina
in paese di mare ov’io sia giunta – a notte –
m’è questo disco di vecchia canzone:
che una danza ricanta
ed alla soglia
– singhiozzando tra risa – mi conduce
l’ora intatta, col passo
di bimba scalza.


Intemperie
23 maggio 1935

In rete d’acque
m’è rinato
il convento dell’infanzia.

Dove sei,
bianca scala?
Ti scendevo
tra le robinie
e non aveva fosse
la terra.

Ora in lontani viali
un compagno barcolla,
trasportando un morto:
gli cadono sul viso
le palpebre come spente viole.

Dove sei
scala bianca?
M’è sfuggito
un grido: manca il suolo.

Vampe d’incenso
per la via
non danno più riparo
a questa pioggia.


Tempo

I
28 maggio 1935

Mentre tu dormi
le stagioni passano
sulla montagna.

La neve in alto
struggendosi dà vita
al vento:
dietro la casa il prato parla,
la luce
beve orme di pioggia sui sentieri.

Mentre tu dormi
anni di sole passano
fra le cime dei làrici
e le nubi.

II
28 maggio 1935

Io posso cogliere i mughetti
mentre tu dormi
perché so dove crescono.
E la mia vera casa
con le sue porte e le sue pietre
sia lontana,
né io più la ritrovi,
ma vada errando
pei boschi
eternamente –
mentre tu dormi
ed i mughetti crescono
senza tregua.


A quella primavera, Antonia Pozzi arrivò elaborando «tortura» della «maternità immaginaria», trascorsa illusoria infatuazione per Remo Cantoni, toccato l’insostenibile nella resa del ventunenne Gian Antonio Manzi — compagno d’immersione nel dilemma manniano, d’improvviso consegnatosi all’ignoto ingerendo una dose di barbiturici per poi gettarsi nel vuoto — leggendovi il culmine di una condizione analoga alla propria e in un alternarsi di costernazione e propositiva esuberanza, trasse aspirazione di «nascere una seconda volta» ed imperativa preghiera, sospinta nell’entusiasmo dal «dolce mestiere» d’insegnare ai «bambini asini e cari» dell’Istituto Schiaparelli di Foro Bonaparte, parve esaudirsi al corroborarsi in condivisione d’interessi e ideali, del rapporto con Dino Formaggio, addentrandosi con lui — filosofo dell’arte imbevuto della dignitosa miseria dei genitori braccianti e di mani crepate in fabbrica, la Tecnomasio Italiano Brown Boveri, entrandovi a quattordici anni per contribuire al sostentamento familiare e sovvenzionarsi gli studi — nei viali intristiti dei sobborghi milanesi e al posare sguardo su di una realità d’indigenza, iniquità e degrado, rovescio della privilegiata e cognita, subì l’affanno d’una lacuna etica, coscienziale e al temprarsi d’una visione politica che la indusse a seguire Formaggio in riunioni di socialisti tenute al chiuso di locali retrostanti di una farmacia, trasmutò incontro/scontro con la società ai margini, affamata e sfruttata, in espansione esistenziale e poetica calandosi nella verità dei quartieri popolari di Corvetto, Chiaravalle, Porto di Mare, facendo volontariato presso la Casa Albergo di via dei Cinquecento dalle «pareti di smalto sudicio, ogni venti metri una latrina» e componendo empatici traslati dei diseredati, della ghettizzazione, dell’avanzante antropizzazione e dell’umiliazione bellica in affreschi dalle tinte inquiete scaturiti in una «lotta continua, dura, sanguinosa, contro se stessi, contro i propri “cancri” giovanili, contro l’enfasi, contro l’involuzione, contro l’eccessivo lirismo […] quando penso a queste cose — come del resto negli altri momenti più intensi della mia vita — ricordo sempre le parole del Cristo — le uniche che hanno una risonanza sulla moralità del mio vivere: Chi perderà l’anima sua per me, la ritroverà. Non parla così anche l’Arte ai suoi devoti? Perdersi, superare il proprio piccolo io nella fatica sacra di creare parole che dicano l’amore, il dolore, la vita e la morte dei nostri fratelli uomini». (Lettera a Dino Formaggio, 28 agosto 1937)
 

Ricordo di Antonia Pozzi, poetessa che in fugace esistenza, levò struggenti e intense odi alla Natura, all'umano cosmo cesellato da passione, amore e dolore • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info

Valle d’Ayas, Champoluc 1937, fotografia da Antonia Pozzi regalata a Dino Formaggio con dedica sul retro: «E’ l’immagine più cara che ho di me, dove sembro più un ragazzetto che una donna e ho addosso e intorno tutte le cose che più amo: i miei scarponi, il cappellaccio a fungo, la bella neve bianca, le pietre, il legno; qui è l’essenza, il midollo, la fibra viva e contrattile della mia vita. E per questo deve essere tua: perché tu solo mi hai capita così. L’Antonia che si avvia per una piatta e dura strada cittadina, soffocandosi i canti nel cuore, stendendo veli neri sul volto delle sue montagne, ti lascia in eredità questo ricordo delle sue giornate più vere».


 


Sete
28 aprile 1937

Or vuoi ch’io ti racconti
una storia di pesci
mentre il lago s’annebbia?
Ma non vedi
come batte la sete nella gola
delle lucertole sul fogliame trito?
A terra
i ricci morti d’autunno
hanno trafitto le pervinche.
E mordi
gli steli arsi: ti sanguina
già lievemente l’angolo del labbro.
Ed or vuoi
ch’io ti racconti una storia d’uccelli?
Ma all’afa
del mezzogiorno il cuculo feroce
svolazza solo.
Ed ancora
urla tra i rovi il cucciolo perduto:
forse il baio in corsa
con lo zoccolo nero lo colpì
sul muso.


Treni
1° maggio 1937

A notte
un lento giro d’ombre rosse
alle pareti avviava i treni: tonfi
cupi d’agganci
al sonno si frangevano.

E lavava
lieve la corsa della pioggia il fumo
denso ai cristalli: sogni
s’aprivano continui, balenanti
binari lungo un fiume.

Ora ritorna
a volte a mezzo il sonno quel tuonare
assurdo
e per le mute vie serali, ai lenti
legni dei carri e dentro il sangue
chiama
lunghi fragori – e quell’antico ardente
spavento e sogno
di convogli.


Fine di una domenica
2 maggio 1937

Rotta da un fischio
all’ultimo tumulto
s’è scomposta la mischia: sulle lacere
maglie e sui volti in furia – vedo
il cielo dello stadio bianco, quasi
soffice lana.

Calmi greggi dormono
a fronte d’alte case,
in rozze strade
dilaganti per l’erba: e non ha un senso
quest’avviarsi di treni verso incerte
pianure…

Ormai il fiume
è un lago fermo tra muraglie, in fondo
ad un bosco serale: lenti viali
in cerchio ci trascinano – ove imbarca
coppie d’amanti la corrente…

E a noi
forse sovviene di un istante, quando
qualche cosa si perse
ad un crocicchio:
che non sappiamo.
Sì che vuote
ora – e disgiunte
senza amore ci pendono le mani.


Amor fati
13 maggio 1937

Quando dal mio buio traboccherai
di schianto
in una cascata
di sangue –
navigherò con una rossa vela
per orridi silenzi
ai crateri
della luce promessa.


Bambino morente
10 giugno 1937

In una notte hai vissuto
gli anni di tutta la vita:
e l’alba lenta te ne incorona
come di spine. Guardi
con savi occhi le ombre
intorno brancolanti, incompiute:
e sai la pena del grano riverso fra i tuoni
e i vuoti nelle mandrie insidiate.
In mille sere
ravviasti lunghe trecce grigie, ti oppresse
l’umidore dei giorni sfioriti;
ora s’apre
in un filo di sole la tua fronte, si spiana
nello sguardo di un uomo perfetto:
e compiangi tua madre.


Messaggio
21-22 giugno 1937

E tu, stella acuta notturna
splendi ancora
se per il solco delle strade
grida la triste anima dei cani.

Sorgeranno colline d’erba magra
a coprirti:
ma nel mio buio conquistato
brillerai, fuoco bianco,
parlando ai vivi della mia morte.


La Terra
1° novembre 1937

Stella morta, ai tuoi orli
nubi di sogno e corolle di parole
volgi nei cieli.

Vedo per fondi mari
pescatori notturni metter barche
e sulle chiglie tracciare ghirlande
di gialle margherite,

vedo in fronte ai ghiacci
volti di santi spalancarsi all’alba
sui muri delle stalle:

e a mezzodì s’avanza il vecchio gobbo,
canta sui ciottoli e per le donne accorse
fra i trilli del suo timpano d’argento:
«È fiorito il bambù, dopo cent’anni.
In riva a tutti i mari e ne morrà.
Coll’autunno si secca la foglia,
a oriente scorron fossati di sangue,
vidi le braccia di migliaia d’uccisi
penzolar sull’abisso
ad occidente.»

Nubi di pianto e corolle di deliri
si torcono ai tuoi orli
o Terra.


Periferia
21 gennaio 1938

Sento l’antico spasimo
– è la terra
che sotto coperte di gelo
solleva le sue braccia nere –
e ho paura
dei tuoi passi fangosi, cara vita,
che mi cammini a fianco, mi conduci
vicino a vecchi dai lunghi mantelli,
a ragazzi
veloci in groppa a opache biciclette,
a donne,
che nello scialle si premono i seni –
E già sentiamo
a bordo di betulle spaesate
il fumo dei comignoli morire
roseo sui pantani.
Nel tramonto le fabbriche incendiate
ululano per il cupo avvio dei treni…
Ma pezzo muto di carne io ti seguo
e ho paura –
pezzo di carne che la primavera
percorre con ridenti dolori.


Via dei Cinquecento
27 febbraio 1938

Pesano fra noi due
troppe parole non dette

e la fame non appagata,
gli urli dei bimbi non placati,
il petto delle mamme tisiche
e l’odore –
odor di cenci, d’escrementi, di morti –
serpeggiante per tetri corridoi

sono una siepe che geme nel vento
fra me e te.

Ma fuori,
due grandi lumi fermi sotto stelle nebbiose
dicono larghi sbocchi
ed acqua
che va alla campagna;

e ogni lama di luce, ogni chiesa
nera sul cielo, ogni passo
di povere scarpe sfasciate

porta per strade d’aria
religiosamente
me a te.


Ambita redenzione la condusse a tradurre il libro «alquanto difficile, perché pieno di una specie di gergo», Lampioon küsst Mädchen und kleine Birken di Manfred Hausmann (1898-1986), a prendere «appunti per un saggio» su Charles Langbridge Morgan (1894-1958) e a resuscitare intenzione vagheggiata nel ’35 di osare nella narrativa ed in progetto, un romanzo sulla Lombardia incorniciata fra Ottocento e Novecento, sviluppato ripercorrendo familiare genealogia femminile nei ricordi di Maria Gramignola e i luoghi cari, cominciando viaggio dalla cremonese Oscasale dov’ella s’era aperta all’infanzia e passando da Zelata, vissuta col coniuge Antonio Cavagna Sangiuliani, pertanto culla della madre Lina, concludere a Pasturo, complice del vincolo spirituale con le montagne; maestose e ancestrali cattedrali di pietra, valli e sentieri a cui nel corso del tempo non mancò invocar conforto, spesso scoprendone le sacralità e i confini coll’immenso a fianco di viandanti leggendari come Oliviero Gasperi (1900-1965), Joseph Pellissier (1881-1972), rivolgendogli i versi di Rifugio dopo aver mirato assieme lo «scenario incomparabile» dalla cresta del Fürggen e scalato Becca di Guin, pernottando poi al Bivacco Bobba in giorni d’estiva villeggiatura a Breil, pregiandosi della compagnia dei Treves e d’un settantreenne Cantore del Cervino Guido Rey (1861-1935), scrittore, fotografo pittorialista ed eminente personaggio dell’alpinismo quale fu anche Emilio Comici (1901-1940), l’Angelo delle Dolomiti che d’arte intrise l’arrampicata e dalla Pozzi conosciuto in pausa post-laurea passata a Misurina ed in occasione, onorandolo delle strofe di Salita e di nominativa lirica, così riservandogli gesto inedito e in mistico «favoloso silenzio» d’ultimo poetico volo, replicato nell’agosto del 1938: quando imminente catastrofe andava delineandosi nelle migliaia di civili barcellonesi uccisi all’infuriare della guerra civile da 50 tonnellate di bombe sganciate dal 16 al 18 marzo dall’Aviazione Legionaria, su ordine da Mussolini disposto per dare appoggio ai nazionalisti di Franco ed implicitamente rispondere alla proclamata annessione dell’Austria al Reich; nel sodalizio italo-tedesco saldato e trionfalmente salutato da quotidiani e riviste al passaggio a Roma, Napoli e Firenze di Adolf Hitler; nella pressante coercizione fonte d’un crescendo di timori e sospetti; nel «Manifesto della razza», apparso in forma anonima sul Giornale d’Italia il 14 luglio col titolo «Il Fascismo e i problemi della razza», anticipante l’infamia delle leggi antisemite promulgate dal settembre, costringendo, nella moltitudine di ebrei in fuga — tra cui i futuri Nobel Emilio Segrè (1905-1989), Salvatore Luria (1912-1991), Franco Modigliani (1918-2003), Enrico Fermi (1901-1954), insignito invece il 10 dicembre e a ragione delle origini della moglie Laura Capon (1907-1977) imbarcatosi per gli Stati Uniti — ad emigrare riparando in Gran Bretagna, Olga, Paolo e Piero Treves, del quale alla poetessa restò l’amorevole dedica sulla copia del libro, argomento di laurea, pubblicato da Laterza nel ’33, Demostene e la libertà greca: «A la mia Antonia per il suo dono di cielo di sogno e di poesia, questo libro, che nacque con la nostra amicizia e s’è temprato di fuoco e al dolore delle nostre anime. Con infinita tenerezza fraterna».

…quando riuscii finalmente a capire bene quel che avevo letto e che forse non ci vedremo mai più (e allora, come a chi sta per morire annegato, tornano di colpo, a fasci e a onde, tutte insieme, le masse dure e dolcissime dei ricordi) allora mi misi a piangere, in un grande smarrimento, e pensavo sopratutto alla tua mamma, alle tremende prove che le si rovesciano addosso, povera cara, carissima, grandissima donna… (Lettera a Paolo Treves, 23 ottobre 1938)

In una temperie «di prepotenze, di soprusi, di aggressioni che sui giornali diventano “sacrosanti diritti”, degli urli della folla anonima ridotta allo stato di bestia cieca, della repressione barbara e retrograda di ogni voce umanitaria», Antonia Pozzi presagì l’apocalisse incipiente ed angosciante malinconia la pervase precipitandola in un esilio interiore acuito dalla «crudele oppressione», discriminante e persecutoria, cagione d’ulteriore isolamento, della traumatica separazione dai Treves, assommata nell’incupirsi dell’epoca, alla mancanza d’abituale contatto con Lucia Bozzi, insegnante in un istituto monastico di Brescia interrogando devozione che nel 1941, la porterà ad adottar nome di suor Marcellina e ritirarsi nel monastero benedettino di clausura Santa Scolastica a Civitella San Paolo; Elvira Gandini, convolata a nozze e in dolce attesa trasferita in Valtellina; Alba Binda, in procinto di partire alla volta dell’Africa per ricongiungersi e sposare Giuseppe Carbone; Vittorio Sereni, da luglio ad ottobre a Fano e Urbino preso da un corso allievo ufficiale di complemento e al rientro assorbito dagli oneri di redattore letterario a Corrente, d’assistente alla cattedra di Banfi, dalla supplenza al Liceo Manzoni e neppure il prospettato avvenire accanto a colui il quale l’aveva schiusa all’obliata umanità, divenendone silente presenza di poetico dialogo, in «una solidarietà così vasta, così calma, così infinita che dire amore come solitamente si intende è quasi dire una piccola cosa» e destinata a rimaner tale anche se fato l’avesse voluta «limitare a semplice amicizia», le fu «carezza, di quelle magari che calmano».

Caro Dino, l’altro giorno hai detto che nelle fotografie si vede la mia anima: e allora eccotele. Perché l’unico fratello della mia anima sei tu e tutte le cose che mi sono state più care le voglio lasciare in eredità  a te […] che tu almeno possa foggiare la tua vita come io sognavo che divenisse la mia: tutta nutrita dal di dentro e senza schiavitù. In ciascuna di queste immagini vedi ripetuto questo augurio, questa certezza.

Lieve all’immanente malessere, al viver permeato d’ostilità e disillusioni, la mattina del 2 dicembre, visibilmente turbata, Antonia Pozzi lasciò anticipatamente la sua scolaresca e in ultima ascesa all’intima sommità, in bicicletta si diresse nelle campagne innevate di Chiaravalle e s’un prato adiacente l’abbazia Santa Maria di Roveniano, «gioia di un’ora» con Dino Formaggio e «dove la città — rimò per lei Vittorio Sereni — in un volo di ponti e di viali, si getta alla campagna e chi passa non sa», si distese e ad una manciata di barbiturici come frammenti d’amore, fidò blandire l’anima. Indarno trovata e soccorsa, spirò al tramonto del giorno seguente.

Antonio Maria Cervi, mai formò famiglia ed incaricato dall’immediato dopoguerra di Storia comparata di lingue classiche a La Sapienza su direttiva del glottologo Antonino Pagliaro (1898-1973), descritto dall’accademico Tullio De Mauro (1932-2017) «ironico, gridante, accalorato» maestro da ricordar nei versi di Lucio Anneo Floro (70/75-145 ), da lui sovente recitati fra le mura dell’aula VI, «consules fiunt quotannis et novi proconsules: solus aut rex aut poeta non quotannis nascitur», poeta fu, conservando dell’amata fotografie del tempo strappati e da lei recandosi più volte l’anno sempre omaggiandola dei garofani rossi ch’ella «con trepido cuore a fior di mani», in poesia pensò deporre sul sepolcro del fratello Annunzio: si spense il 13 aprile 1966, all’età di 72 anni, dopo aver riposto sulla lapide di Antonia Pozzi un biglietto con le parole di Melagro di Gadara, (130 a.C.-60 a.C.) contenute nel libro sesto dell’Antologia Palatina e dal greco scritte in morte dell’etera Eliodora: «Terra che ci nutri, ti supplico, accogli tenera al tuo seno, madre, quella che tutti piangono».

Ho visto un pezzo di prato libero che mi piace. Vorrei che mi portassero giù un bel pietrone e vi piantassero ogni anno rododendri, stelle alpine e muschi di montagna. Pensare di essere sepolta qui non è nemmeno morire, è un tornare alle radici.

 
Ricordo di Antonia Pozzi, poetessa che in fugace esistenza, levò struggenti e intense odi alla Natura, all'umano cosmo cesellato da passione, amore e dolore • Terzo Pianeta • https://terzopianeta.info
 


Commiato
11 gennaio 1936

Si levarono alate di tormenta
le crode
sul gran volo della slitta:

poi declinò
con l’ombra del cavallo
il sole rosso
su dorsi di abeti.
Allora
accordi tenui di chitarra,
cori sommessi infranti, oltre le creste
corsero col tramonto
sul deserto
tinnulo trotto.

A sera
l’ultima mano rosea –
una pietra –
alta accennava
salutando:
e pallida
nell’aria viola pregava le stelle.

Lentamente
i fiumi a notte
mi portavano via.


Voce di donna
18 settembre 1937

Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.

Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.

Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore;
Che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.

Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.


Luci libere
27 gennaio 1938

È un sole bianco che intenerisce
sui monumenti le donne di bronzo.

Vorresti sparire alle case, destarti
ove trascinano lenti carri
sbarre di ferro verso la campagna –

ché là pei fossi infuriano bambini
nell’acqua, all’aurora
e vi crollano immagini di pioppi.

Noi, per seguir la danza
di un vecchio organo
correremmo nel vento gli stradali…

A cuore scalzo
e con laceri pesi
di gioia.

 
 
 
 

Poesie tratte da Parole, a cura di O. Dino e A. Cenni, Milano, Garzanti, 1989

 
 
 
 

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