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Sebastião Salgado “Kuwait: Un deserto in fiamme”

©Salgado, Amazonas Images

 

Sebastião Salgado
“Kuwait: Un deserto in fiamme”

 

Firma d’eccellenza nella storia della fotografia, Sebastião Salgado porta l’esperienza della guerra alla galleria Forma Meravigli di Milano. Trentaquattro scatti in bianco e nero che testimoniano quanto avvenne nel Kuwait nel 1991, quando, per ostacolare il cammino della coalizione sotto l’egida guida degli Stati Uniti, l’esercito iracheno di Saddam Hussein incendiò 700 pozzi petroliferi.

Sarà quella che dodici anni più tardi sarebbe stata ribattezzata Prima Guerra del Golfo e che passerà alla storia anche come “Tempesta nel Deserto“, un conflitto che si conclude con l’inferno che adesso, è possibile rivivere in tutta la sua drammaticità. Fotografie in grande formato, che ritraggono pompieri e tecnici impegnati a fermare la follia per cui quello stesso petrolio – causa di una guerra che avrebbe visto l’Iraq affrontare 35 nazioni, la più imponente alleanza militare della storia – andare in fiamme e concludersi in un colossale disastro ambientale, che tra sbuffi e lingue di fuoco, Sebastião Salgado ricorda come «la fine del mondo, un mondo intriso di nero e di morte».

Salgado
©Salgado, Amazonas Images
Salgado
©Salgado, Amazonas Images

 

Ex-membro della celebre agenzia Magnum, Salgado decide di diventare fotografo dopo un viaggio in Africa, continente che insieme all’America Latina, saranno al centro della sua lunga carriera, durante la quale, racconterà la sofferenza, la povertà, il disagio e l’emarginazione di ogni angolo del mondo.

Nato ad Aimorés nel 1944, la vita e le opere di Salgado, non possono che nascere da uno spirito filantropico, un sentimento profondo e innato, lontano persino dall’amore per il prossimo, la sua è quella passione per l’uomo e per il mondo che non restituisce gioia, neanche quella vacua del finto donare, quanto piuttosto, domande, delusioni e dolore che portano sull’orlo della disillusione, se non fosse che la realtà, è quella resta viva dentro.

slagado
Sebastião Salgado

In una intervista rilasciata a El País, in occasione di una mostra sull’Africa, Salgado la descrisse come parte della sua vita:”Le esperienze più importanti mi sono successe in questi viaggi. Cosa ho imparato? Il potere della dignità. E’ un potere così forte che ho la speranza che riesca  a mettere fine alla miseria, alle guerre e all’ingiustizia che soffre questa gente. Il popolo africano è assai lavoratore, tuttavia non ha case, non ha sanità, non ha istruzione. E’ ora che cominci a ricevere un poco di quel tanto che gli hanno tolto”.

La stessa Africa che lo fa testimone delle cicliche catastrofi che flagellano la regione del Sahel, dove milioni di persone sono distrutte e costrette fra siccità e carenza alimentare, una disperazione, che vivrà ancora durante il terrificante genocidio avvenuto in Rwanda nel 1994, quando il dolore sotto i suoi occhi, divenne malattia.
«Vidi la brutalità totale – racconterà più tardi Salgado – vidi la gente morire a migliaia al giorno. Persi la fiducia nella nostra specie. Non credevo che fosse più possibile per noi vivere.  Iniziai ad avere infezioni dappertutto”.
Malessere e perdite di sangue, che lo spinsero a farsi visitare da un medico di Parigi e la diagnosi non lasciò indifferente il fotografo: “Non sei malato. Quello che è successo, è che hai visto così tanti morti che stai morendo anche tu. Devi smettere perché altrimenti morirai”.

Fu allora che Salgado, seguendo quanto consigliatogli dal medico, torna in Brasile immerso in una crisi tanto profonda da far vacillare quella passione, che fino ad allora, lo aveva sospinto a far da narratore del genere umano, quello stesso, con tutte le sue brutali e meravigliose imperfezioni, adesso stava facendogli abbandonare la fotografia.

Tornato nella terra di proprietà, un’area dove i genitori possedevano un’azienda agricola, raccoglie l’idea della moglie Lelia Wanick di riportare quella parte di foresta tropicale ad avere l’aspetto rigoglioso di un tempo, ovvero, prima che la costante deforestazione ne deturpasse la maestosità. In pochi anni, oltre 2 milioni e mezzo di alberi appartenenti a più di 300 differenti specie, andarono a ripopolare quello che ormai somigliava sempre più a un deserto.

Un’esperienza che lo portò ad impugnare nuovamente la sua fotocamera da 35mm, che dal 1973, passando da una Leica ad una Pentax e infine ad una Canon, lo accompagna raccontando il pianeta, una rinascita che si trasforma in un progetto fotografico dall’eloquente nome “Genesis“.

Dopo pubblicazioni come Altre Americhe, La lotta dei senza terra, Migrazioni, I bambini: rifugiati e migranti, Sahel e Africa, dove la vicenda umana è l’assoluta protagonista degli scatti, con Genesis, questa è catturata all’interno del suo mondo, il regno della natura.
Un reportage che ha impegnato Salgado da 2004 al 2012, per andare ad immortalare la solenne bellezza di luoghi remoti, incontaminati e dove l’uomo, vive in simbiosi con ciò che lo circonda.

Lasciata la Magnum nel 1994 per fondare con la moglie la Amazonas Images, quelle di Sebastião Salgado sono foto distanti dal fine artistico e ancor più da con un concetto estetico, la sua è informazione, denuncia, attenzione alle problematiche sociali e ambientali, cosicché l’arte inconfondibile delle sue opere giunge per la profonda sensibilità dell’uomo, senza la quale non troverebbe voce neanche lo straordinario talento.

Desidero che ogni persona che entra nelle mie esposizioni sia, al momento di uscire, una persona diversa

 

Salgado
©Salgado, Amazonas Images

 

Salgado
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Salgado
©Salgado, Amazonas Images

 

Salgado
©Salgado, Amazonas Images

 

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Salgado
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Salgado
©Salgado, Amazonas Images

 

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